Fallimento
Quando
un soggetto può essere dichiarato fallito?
Ai sensi del R. D. 16 marzo 1942,
meglio noto come Legge Fallimentare, così come
modificato dal recente D. Lgs n. 5/2006 e successive
integrazioni, per richiedere il fallimento di un'impresa
devono sussistere due condizioni: la natura di
imprenditore commerciale (privato e non piccolo
imprenditore) del debitore (presupposto soggettivo), e,
sul piano oggettivo, lo stato di insolvenza dello stesso
debitore.
Contro la sentenza che, all'esito di un'istruttoria
volta all'acquisizione degli elementi necessari a
compiere la valutazione della fallibilità dell'impresa
da parte del Tribunale, dichiari il fallimento, il
debitore e qualunque interessato possono proporre
opposizione nel termine di quindici giorni
dall'affissione della sentenza, ai sensi dell'art. 18 L.
F.
Nel corso di tale giudizio di opposizione, scopo
dell'opponente è quello di dimostrare l'insussistenza di
uno dei presupposti del fallimento innanzi indicati.
Quando venga in rilievo la possibilità di dichiarare il
fallimento di società, queste ultime, in qualsiasi forma
costituite (anche semplici o di fatto), ove abbiano per
oggetto sociale un'attività compresa tra quelle di
natura eminentemente commerciale, sono ritenute, in
virtù di una presunzione assoluta di legge, imprenditori
commerciali e sono, quindi, assoggettabili alle
procedure concorsuali.
Una piuttosto recente pronuncia della Cassazione (Sez. I
26 giugno 2001, n. 8694) ha ribadito che "le società
costituite nelle forme previste dal codice civile ed
aventi ad oggetto un'attività commerciale sono
assoggettabili al fallimento indipendentemente
dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in
quanto esse acquistano la qualità di imprenditore
commerciale dal momento della loro costituzione e non
dall'inizio del concreto esercizio dell'attività
d'impresa, al contrario di quanto avviene per
l'imprenditore commerciale individuale. Sicchè, mentre
quest'ultimo è identificato dall'effettivo esercizio
dell'attività, relativamente alle società commerciali è
lo statuto a compiere tale identificazione,
realizzandosi l'assunzione della qualità in un momento
anteriore a quello in cui è possibile per l'impresa non
collettiva stabilire che la persona fisica abbia scelto,
tra i molteplici fini potenzialmente raggiungibili,
quello connesso alla dimensione imprenditoriale".
Tale orientamento è pacifico in giurisprudenza ed è
condiviso dalla prevalente dottrina. E' del tutto
irrilevante, quindi, l'eventuale mancato esercizio
dell'attività commerciale indicata nell'atto
costitutivo, una volta che la società è sorta ed esiste
(fino a modifica statutaria) per quel fine.
Quali
sono gli organi della procedura fallimentare?
Essi sono il Tribunale fallimentare,
il Giudice Delegato, il Curatore ed il Comitato dei
creditori. Il tribunale fallimentare si identifica con
il Tribunale ordinario che ha dichiarato il fallimento.
Dopo tale dichiarazione, il tribunale stesso è investito
dell'intera procedura fallimentare (art. 23, l. fall.).
A norma dell'art. 23, l. fall., il tribunale
fallimentare:
· provvede, in tutti
i casi in cui non è prevista la competenza del giudice
delegato, alla nomina, revoca o sostituzione, per
giustificati motivi, degli organi della procedura;
· può, in ogni
tempo, sentire in camera di consiglio il curatore, il
fallito e il comitato dei creditori;
· decide sulle
controversie relative alla procedura stessa (quando non
sono di competenza del giudice delegato) e sui reclami
contro i provvedimenti del giudice delegato.
Ai sensi del riformulato art. 25, l.
fall. (Poteri del giudice delegato) "Il giudice
delegato sercita funzioni di vigilanza e di controllo
sulla regolarità della procedura...".
Il giudice, pertanto, non "dirige" il
fallimento, ma, semplicemente, "vigila e controlla". In
particolare, egli 1) riferisce al tribunale su ogni
affare per il quale è richiesto un provvedimento del
collegio; 2) emette o provoca dalle competenti autorità
i provvedimenti urgenti per la conservazione del
patrimonio, ad esclusione di quelli che incidono su
diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto
incompatibile con l'acquisizione; 3) convoca il curatore
e il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla
legge e ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il
corretto e sollecito svolgimento della procedura; 4) su
proposta del curatore, liquida i compensi e dispone
l'eventuale revoca dell'incarico conferito alle persone
la cui opera è stata richiesta dal medesimo curatore
nell'interesse del fallimento; 5) provvede, nel termine
di quindici giorni, sui reclami proposti contro gli atti
del curatore e del comitato dei creditori; 6) autorizza
per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore
o come convenuto. L'autorizzazione deve essere sempre
data per atti determinati e per i giudizi deve essere
rilasciata in ogni grado di essi. Su proposta del
curatore, liquida i compensi e dispone l'eventuale
revoca dell'incarico conferito agli avvocati nominati
dal medesimo curatore; 7) su proposta del curatore,
nomina gli arbitri, verifica la sussistenza dei
requisiti previsti dalla legge; 8) procede
all'accertamento dei crediti e dei diritti reali e
personali vantati dai terzi.
Per quanto riguarda il curatore, il
provvedimento di delega ha previsto un significativo
ampliamento dei poteri a questi attribuiti in relazione:
- alla formazione dello stato
passivo,
- all'esercizio provvisorio
dell'impresa,
- al programma di liquidazione.
Il ruolo del curatore appare quindi
valorizzato, essendo ora chiamato, insieme al comitato
dei creditori, ad indirizzare la procedura nel suo
complesso e ad operare le scelte di opportunità per la
gestione di questa.
Per quanto riguarda la nuova
disciplina relativa al comitato dei creditori, la legge
delega 80/2005 ha indicato tre criteri di riferimento: -
l'ampliamento delle sue competenze, consentendo una
maggiore partecipazione dell'organo alla gestione della
crisi di impresa (art. 1, comma 6, lett. a), punto 2); -
la previsione che in sede di adunanza per l'esame dello
stato passivo i creditori possano, a maggioranza dei
crediti insinuati, confermare o effettuare nuove
designazioni in ordine ai componenti del comitato dei
creditori, nonchè confermare il curatore ovvero
richiederne la sostituzione indicando al giudice
delegato un nuovo nominativo (art. 1, comma 6, lett. a),
punto 9); - la previsione che il comitato dei creditori
possa proporre al curatore modifiche al programma di
liquidazione presentato, prima di procedere alla sua
votazione, e che l'approvazione del programma sia
subordinata all'esito favorevole della votazione, da
parte del comitato dei creditori (art. 1, comma 6, lett.
a), punto 10). Il comitato dei creditori, dunque, non
ricopre più un ruolo meramente consultivo, ma assume
poteri decisori.
Quali
effetti derivano al fallito dalla sentenza dichiarativa
di fallimento?
Gli effetti per il fallito sono
disciplinati dagli artt. 42-49 della legge fallimentare,
così come modificata dalla novella del 2006.
Sostanzialmente, il fallito viene
privato, a far data dalla dichiarazione di fallimento,
della disponibilità e dell'amministrazione dei suoi
beni, anteriori al fallimento e che dovessero
provenirgli durante la procedura. A norma dell'art. 46
non sono compresi nel fallimento: i beni ed i diritti di
natura strettamente personale; gli assegni aventi
carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e
ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i
limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della
famiglia; le cose che non possono essere pignorate per
disposizione di legge. L'art. 44 dispone inoltre che
tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui
eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci rispetto ai creditori. Sono egualmente
inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la
sentenza dichiarativa di fallimento.
A norma dell'art. 48 l'imprenditore
del quale sia stato dichiarato il fallimento, nonché gli
amministratori o i liquidatori di società o enti
soggetti alla procedura di fallimento, sono altresì
tenuti a consegnare al curatore la propria
corrispondenza di ogni genere, inclusa quella
elettronica, riguardante i rapporti compresi nel
fallimento. L'art. 49 dispone poi che l'imprenditore del
quale sia stato dichiarato il fallimento, nonché gli
amministratori o i liquidatori di società o enti
soggetti alla procedura di fallimento, sono tenuti a
comunicare al curatore ogni cambiamento della propria
residenza o del proprio domicilio. Altre incapacità del
fallito sono inoltre previste dal codice civile e dalle
leggi speciali, come appunto l'incapacità di ricoprire
determinati uffici ovvero svolgere determinate attività
che presuppongono l'iscrizione in un albo professionale,
l'incapacità ad esercitare la funzione di amministratore
o sindaco di società di capitali e società cooperative o
di rappresentante comune degli obbligazionisti, e, non
ultima, l'incapacità ad esercitare il diritto di voto.
Posso
essere dichiarato fallito anche se ho cessato l'attività
d'impresa da alcuni mesi?
Per rispondere a tale domanda occorre
fare riferimento al D. Lgs. 12 settembre 2007 n. 169,
con particolare riferimento all'art. 10, in materia di
fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio
dell'impresa. In base a tale disposizione, gli
imprenditori individuali e collettivi possono essere
dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal
registro delle imprese, se l'insolvenza si e'
manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno
successivo. Comunque, in caso di impresa individuale o
di cancellazione di ufficio degli imprenditori
collettivi, e' fatta salva la facolta' per il creditore
o per il pubblico ministero di dimostrare il momento
dell'effettiva cessazione dell'attivita' da cui decorre
il termine del primo comma. Ne deriva che la
cancellazione della Sua impresa dal suddetto registro
solo da alcuni mesi non La pone di per sé al riparo da
una sentenza declaratoria di fallimento.
Sono
un socio accomandatario di una s.a.s. ormai in stato
pressochè irreversibile di insolvenza. Come si svolgerà
il procedimento fallimentare nei miei confronti?
Ai sensi dell'art. 147 del D. Lgs. 12
settembre 2007 n. 169, che detta il testo normativo
attualmente vigente nel nostro ordinamento in tema di
fallimento ed altre procedure concorsuali, peraltro, la
sentenza che dichiara il fallimento di una società
appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e
VI del titolo V del libro quinto del codice civile,
ovvero la società semplice, la società in nome
collettivo e la società in accomandita semplice, produce
automaticamente anche il fallimento dei soci, pur se non
persone fisiche, illimitatamente responsabili. La norma
quindi prosegue stabilendo che il fallimento dei soci
sopra indicati non può essere dichiarato decorso un anno
dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla
cessazione della responsabilità illimitata, anche in
caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono
state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i
fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è
possibile solo se l'insolvenza della società attenga, in
tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della
cessazione della responsabilità illimitata.
Inoltre il tribunale, prima di
dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente
responsabili, deve disporne la convocazione. Contro la
sentenza del tribunale è ammesso reclamo o appello, da
proporre in ogni caso con ricorso da depositarsi nella
cancelleria della Corte d'appello territorialmente
competente nel termine perentorio di trenta giorni. Ne
deriva, pertanto, che prima dell'estensione del
fallimento nei Suoi confronti, Lei dovrà essere sentito
dal Tribunale in ordine al Suo effettivo ruolo
all'interno della società nei riguardi della quale sia
già stato pronunciato il fallimento.
Ero
lavoratore dipendente in un'impresa recentemente
dichiarata fallita. Come devo comportarmi per far valere
i miei crediti?
Quando un datore di lavoro fallisce,
frequentemente i suoi dipendenti si trovano ad essere
creditori di una o più retribuzioni non corrisposte
nonché, in caso di risoluzione del rapporto, delle
spettanze di fine rapporto. In questa ipotesi, il primo
passo che il lavoratore creditore deve compiere per
salvaguardare i propri diritti è la presentazione al
giudice fallimentare di un ricorso per l'ammissione al
passivo ai sensi dell'art. 93 Legge Fallimentare. In
questo modo il lavoratore rivendica tutti i crediti
vantati nei confronti del fallito ed il giudice
fallimentare decide sulla sussistenza e sull'ammontare
degli stessi (l'insieme delle domande di ammissione al
passivo andrà a formare lo stato passivo del
fallimento). Ovviamente, non tutti i crediti godono di
uguale tutela, in particolare sono distinguibili
essenzialmente due categorie di crediti: quelli muniti
di privilegio e quelli non muniti di privilegio
(chirografari). I crediti nascenti dal rapporto di
lavoro appartengono alla prima categoria e, dunque, sono
privilegiati rispetto ad altri nella ripartizione
dell'attivo ricavato dalla liquidazione del patrimonio
dell'impresa fallita.
In
caso di fallimento del datore di lavoro, quali diritti
ha il lavoratore in ordine alle ultime retribuzioni non
corrisposte?
Con sentenza n. 1106 del 9/2/99 la
Corte di cassazione ha affermato essenzialmente
l'obbligo del Fondo di garanzia dell'Inps di pagare le
ultime retribuzioni non corrisposte dal datore di lavoro
dichiarato fallito. La normativa di riferimento a tale
riguardo è dettata dall'art. 2 D. Lgs. 80/82, che ha
dato attuazione alla direttiva 80/987/CEE in materia di
tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza
del datore di lavoro. Per completezza, va osservato che
la norma ora richiamata non è l'unica che, nel nostro
ordinamento, presti tutela al lavoratore nel caso di
fallimento del datore di lavoro. Occorre infatti
richiamare anche la L. n. 297/82, che garantisce al
lavoratore, appunto nel caso di fallimento del datore di
lavoro, il pagamento della somma dovuta a titolo di
trattamento di fine rapporto a carico del Fondo di
garanzia istituito presso l'Inps. Tornando alla
questione che qui interessa, il citato art. 2 D. Lgs.
80/82 ha riconosciuto al lavoratore la facoltà di
chiedere al Fondo di garanzia dell'Inps il pagamento
delle ultime tre retribuzioni, che non siano state
corrisposte dal datore di lavoro, sempre che le
retribuzioni in questione siano state maturate nei
dodici mesi precedenti la sentenza dichiarativa di
fallimento del datore di lavoro. Non solo. A seguito
dell'intervento sul tema della Corte di Giustizia delle
Comunità europee, con sentenza 10/7/97, è stato
stabilito che la direttiva 80/987/CEE dispone nel senso
che l'insolvenza del datore di lavoro, che fa operare la
garanzia, si determina all'atto di apertura della
procedura per la dichiarazione del fallimento, e non al
successivo momento in cui il fallimento viene
dichiarato, sebbene sia necessario attendere questa
dichiarazione per ottenere la garanzia del pagamento a
carico del Fondo. Pertanto, sulla base di questa
pronuncia, la citata sentenza della Corte di cassazione
ha ritenuto che la normativa comunitaria, così come
interpretata dalla Corte di giustizia, e la normativa
nazionale formano un complesso unitario di regole, in
base al quale si deve ritenere che l'intervento del
Fondo di garanzia dell'Inps, per il pagamento dei
crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del
rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali
crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti
l'apertura della procedura per la dichiarazione di
fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la
sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore
di lavoro.
Quando
si chiude il fallimento?
Il capo VIII del titolo dedicato al
fallimento concerne la chiusura della procedura de quo.
Ai sensi dell'art. 118 l.fall. diverse possono essere le
circostanze che danno luogo alla conclusione dell'iter;
oltre a quanto si dirà in materia di concordato, esse
sono, in primo luogo, la mancanza di domande di
ammissione al passivo entro il termine fissato, in
secondo luogo, il raggiungimento dell'intero ammontare
dei crediti ammessi da parte delle ripartizioni ai
creditori ovvero l'estinzione di tutti i crediti ammessi
e il contestuale pagamento di tutti i debiti e le spese
da soddisfare in prededuzione. Il fallimento si chiude,
altresì, quando si verifica l'ipotesi diametralmente
opposta a quella appena vista, ossia allorché nel corso
della procedura si accerta che la sua prosecuzione non
consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori
concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di
procedura. Anche l'avvenuta ripartizione finale
dell'attivo, infine, è uno dei casi di chiusura previsti
dalla norma citata.
Che
cos'è l'esdebitazione?
A seguito della riforma del diritto
fallimentare del 2006, il registro pubblico innanzi
indicato è stato abrogato, e con esso l'istituto della
riabilitazione.
Ciò fa sorgere la rilevante questione di stabilire quali
incapacità speciali del fallito siano venute meno a
seguito della soppressione del registro (rectius albo)
dei falliti.
Orbene le incapacità speciali connesse allo status di
fallito devono certamente ritenersi tuttora vigenti, in
quanto del tutto indipendenti dall'iscrizione nel
registro e derivanti
dalla dichiarazione di fallimento. Ma pure le altre
incapacità speciali, come quelle previste in materia di
elettorato o che subordinano talune facoltà al pieno
esercizio dei diritti civili, indipendentemente dalla
formulazione di volta in volta utilizzata nelle norme
del codice civile o delle leggi speciali devono
ritenersi tuttora vigenti.
In realtà tutte le incapacità personali del fallito
scaturiscono direttamente dalla sentenza di fallimento,
cosicchè deve escludersi la natura costituiva
dell'iscrizione: è la
sentenza dichiarativa di fallimento, e non certo
l'iscrizione, a determinare per il fallito
l'impossibilità di ricoprire determinati uffici o
incarichi o svolgere determinate
funzioni o attività. L'abrogazione del registro dei
falliti pertanto non determina di per sé il venir meno
di alcuna delle incapacità, sancite nelle diverse
disposizioni del codice civile o delle leggi speciali,
ma rileva unicamente in relazione alla durata delle
incapacità e va evidentemente ricollegata al venir meno
dell'istituto della riabilitazione civile.
Al posto di quest'ultima, peraltro, il legislatore ha
introdotto la figura dell'esdebitazione, applicabile, a
seguito dell'entrata in vigore del decreto correttivo
della riforma, datato 12 settembre 2007, anche alle
procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in
vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5.
In tal modo si è dunque voluto
estendere retroattivamente l'applicazione del beneficio
dell'esdebitazione anche alle procedure fallimentari
pendenti al 16 luglio 2006, data di entrata in vigore
del decreto legislativo n. 5 del 2006, cosicchè il
beneficio dell'esdebitazione potrà essere accordato a
tutti i falliti, indipendentemente dalla data di
apertura della procedura fallimentare. Per le procedure
fallimentari innanzi dette, chiuse prima della data di
entrata in vigore del presente decreto, la norma prevede
che le domande di esdebitazione debbano essere
presentate nel termine di un anno dalla medesima data.
In base al nuovo istituto, una volta
chiusa la procedura di fallimento, al fallito persona
fisica che abbia tenuto un comportamento collaborativo
viene data l'opportunità di avviare nuove attività
commerciali senza ricorrere al paravento di familiari o
prestanomi per sottrarsi ad ulteriori azioni dei vecchi
creditori. Al fallito è infatti riconosciuto il diritto
a veder cancellati i debiti rimasti insoddisfatti
liberandosi così da vincoli connessi al mancato
pagamento dei creditori.
In particolare l'art. 142 L. F., nel
suo nuovo testo, prevede che il fallito persona fisica è
ammesso al beneficio della liberazione dai debiti
residui nei confronti del creditori concorsuali non
soddisfatti a condizione che: abbia cooperato con gli
organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e
la documentazione utile all'accertamento del passivo e
adoperandosi per il proficuo svolgimento delle
operazioni, non abbia in alcun modo ritardato o
contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura
non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei 10 anni
precedenti la richiesta, non abbia distratto l'attivo o
esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato
il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la
ricostruzione del patrimonio e del movimento degli
affari o fatto ricorso abusivo al credito, non sia stato
condannato con sentenza passata in giudicato per
bancarotta fraudolenta o per delitti contro l'economia
pubblica, l'industria ed il commercio, e altri delitti
compiuti in connessione con l'esercizio dell'attività
d'impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la
riabilitazione. Se è in corso il procedimento penale per
uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento
fino all'esito di quello penale. L'esdebitazione,
inoltre, non può essere concessa qualora non siano stati
soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali.
Restano invece sempre esclusi dall'esdebitazione: gli
obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le
obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel
fallimento ai sensi art. 46, i debiti per il
risarcimento dei danni da fatto illecito
extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed
amministrative di carattere pecuniario che non siano
accessorie a debiti estinti.
Rimangono comunque salvi i diritti vantati dai creditori
nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del
debitore e degli obbligati in via regresso.
Quali
sono le procedure concorsuali previste dal nostro
ordinamento oltre il fallimento?
Tali
procedure, sempre determinate da una situazione di crisi
dell'impresa, sono: il concordato preventivo, il
concordato fallimentare, la liquidazione coatta
amministrativa e l'amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi, i cui requisiti vengono di
volta individuati dalla Legge Fallimentare e dalla
legislazione speciale in materia.
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