Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

PER I FUNZIONARI STROZZINI NON RISPONDE LA BANCA- Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2012, n. 789

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

Persona e danno.it

Gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul principale ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando anche una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore.

 

Una s.r.l. gode di affidamenti regolati in conto corrente e garantiti da fideiussione dei soci presso l’agenzia di una banca. Gli affari cominciano ad andar male. Vengono allora prelevate delle somme dal conto e si verifica uno sconfinamento. Ad un certo punto, il funzionario addetto alla gestione dei fidi parla coi due soci della s.r.l. e, conoscendo la situazione, anziché invitarli a rientrare dallo scoperto, li incoraggia all’indebitamento proponendo loro di accettare un finanziamento dai titolari di un’agenzia assicurativa situata nello stesso edificio della banca. Non pago, il funzionario si mette a fare da mediatore e presenta ai due malcapitati un altro dipendente della banca disposto a prestare del denaro. Il dipendente, a garanzia del prestito, si fa rilasciare un assegno privo di data e di importo superiore alla cifra concessa ai malcapitati e, con la minaccia di procedere all’incasso dello stesso, ottiene la corresponsione di interessi usurari. Stanchi di subire, i due soci si rivolgono alla giustizia.

 

La s.r.l. conviene in giudizio l’istituto di credito sostenendo che sia anch’esso responsabile per via degli illeciti compiuti dai suoi dipendenti. Il Tribunale dà ragione alla società e condanna la Banca al pagamento di 606.815 Euro. Quest’ultima ricorre in appello dove il verdetto viene ribaltato. La Corte territoriale sostiene che l’istruttoria condotta in primo grado non ha offerto la prova della condotta illecita del funzionario. Dell’altro dipendente, condannato in sede penale, non sono invece precisati in giudizio la qualifica, le funzioni e le mansioni svolte, di conseguenza deve essere esclusa la responsabilità della banca per le sue condotte dato che la commissione del reato all’interno dei locali dell’istituto di credito non è elemento sufficiente a determinare una responsabilità dello stesso.

 

I soci non ci stanno e ricorrono in Cassazione lamentando una violazione delle norme sulla responsabilità dei padroni e dei committenti. Purtroppo per loro, il motivo non è accolto perché la censura si traduce nella richiesta di una rivalutazione delle risultanze istruttorie. La Corte territoriale ha enunciato i principi in base ai quali può essere affermata la responsabilità datoriale rilevando come «gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul principale ove tra l’illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando anche una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore». Dunque i giudici hanno compiuto una corretta ricognizione astratta della fattispecie non ritenendola però applicabile al caso concreto.

 

Inoltre, nelle doglianze dei due soci non risulta la contestazione dell’assunto del giudice di merito secondo cui la qualifica e le funzioni del dipendente-strozzino sono rimaste ignote. Tuttavia, si tratta di una circostanza «di per sé dirimente, posto che non può configurarsi responsabilità datoriale se manchi la prova del legame tra l’atto produttivo del danno e lo scopo in vista del cui raggiungimento siano state affidate al dipendente le mansioni in occasione delle quali l’illecito è stato compiuto».

 

 

 

 

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 novembre 2011 – 20 gennaio 2012, n. 789

Presidente Vitrone – Relatore Cristiano

 

Svolgimento del processo

 

La s.r.l. Italparati, ed i suoi soci, D.M.M.F. e L..Z. , convennero in giudizio la Banca di Roma s.p.a. deducendone la responsabilità ai sensi dell'art. 2049 c.c., per illeciti compiuti da suoi dipendenti. Esposero, a sostegno della domanda, che Italparati godeva, presso l'agenzia romana n. 27 della banca, di affidamenti, regolati in conto corrente e garantiti da fideiussione dei soci; che, verificatosi uno sconfinamento, il dr. P. , funzionario addetto alla gestione dei fidi, anziché invitarli a rientrare dallo scoperto, li aveva incoraggiati all'indebitamento, inducendoli ad accettare finanziamenti a tasso usurario dai titolari di un'agenzia assicurativa situata nello stesso edificio della banca; che, successivamente, sempre su suggerimento del P. , un altro dipendente dell'istituto, D.V.T. , aveva personalmente prestato alla Z. 27 milioni di lire, a fronte dei quali, minacciandola di porre all'incasso un assegno privo di data dell'importo di 30 milioni di lire che si era fatto contestualmente rilasciare in garanzia, aveva ottenuto anch'egli la corresponsione di altissimi interessi usurari. Tanto premesso, gli attori sostennero che il Banco di Roma era tenuto a rispondere, ai sensi dell'art. 2049 c.c., dei danni da essi subiti in conseguenza degli illeciti commessi dai suoi dipendenti, che traevano occasione dal rapporto di lavoro. La banca, costituitasi in giudizio, contestò la propria responsabilità. La causa, interrottasi a seguito del fallimento della Italparati, fu riassunta dai soli D.M. e Z. . Il Tribunale di Roma, con sentenza parziale del 16.11.2000, dichiarò fondata nell'an la domanda; quindi, disposta ed espletata una ctu, con sentenza definitiva del 4.2.03, condannò il Banco di Roma al pagamento in favore degli attori della somma di Euro 606.815, oltre interessi legati e spese di lite. Capitalia s.p.a., nuova denominazione del Banco di Roma s.p.a., impugnò entrambe le sentenze; gli appelli, riuniti, furono accolti dalla Corte d'Appello di Roma con sentenza dell'11.4.06. La Corte territoriale osservò, per ciò che nella presente sede ancora rileva, che l'istruttoria condotta nel corso del primo grado del giudizio non offriva elementi sufficienti a provare la condotta illecita del P. , assolto in sede penale dal reato di usura per il quale era stato indagato, in quanto i testi escussi si erano limitati a riferire circostanze o prive di rilievo (la richiesta dell'appellata di accendere un mutuo) o generiche (la sottoscrizione, da parte della Z. , di assegni in bianco mentre era in coda allo sportello della banca) o apprese in via indiretta, ma nulla avevano saputo precisare in ordine ai rapporti intrattenuti dal funzionario con gli attori; che, d'altro canto, l'unico fatto personalmente constatato da uno dei testi (la consegna dalla Z. al P. di un assegno di importo imprecisato, che quest'ultimo aveva riposto in un cassetto, dicendo che sarebbe servito a coprire il conto personale della signora) non era corredato da riferimenti di tempo e risultava talmente vago da non poterne desumere neppure una anomala gestione del conto. Il giudice ritenne, poi, che dovesse essere esclusa la responsabilità del Banco di Roma per i danni derivati agli attori dalla condotta illecita del D.V. - che era stato invece condannato per il reato di usura commesso in danno della Z. - in quanto non emergeva dagli atti la prova della sussistenza di quel nesso di occasionalità necessaria tra l'illecito ed il rapporto di lavoro che giustifica l'affermazione di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2049 c.c. e che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile od agevolato la sua condotta; in particolare, la Corte territoriale rilevò che, essendo ignote qualifica, funzioni e mansioni del D.V. , neppure allegate dai danneggiati, appariva insufficiente il fatto che il reato fosse stato da lui commesso nei locali dell'agenzia. La sentenza è stata impugnata da D.M. e Z. con ricorso affidato a tre motivi. Banca di Roma s.p.a. (già Capitalia s.p.a.) ha resistito con controricorso ed ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale condizionato.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti ai sensi dell'art. 235 c.p.c..

1) Nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c. i ricorrenti hanno eccepito la nullità della procura rilasciata dai legali rappresentanti della Banca di Roma in calce al controricorso, sia perché priva di riferimento al giudizio sia perché non conferisce espressamente al difensore nominato il potere di impugnare la sentenza mediante ricorso incidentale.

L'eccezione è infondata e deve essere respinta. Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il mandato, anche non datato, apposto in calce o a margine del ricorso (o del controricorso) per cassazione è per sua natura speciale, giacché tale collocazione rivela uno specifico collegamento tra la procura ed il giudizio di legittimità (fra molte, da ultimo, Cass. nn. 25317/010, 26504/09) e deve intendersi esteso anche al ricorso incidentale, per il quale non è richiesta formalmente una procura autonoma e distinta (Cass. n. 25317/010 cit.)

2) Con il primo motivo di ricorso D.M. e Z. denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2049 e 2909 c.c., nonché vizio di motivazione. Rilevano che sulla figura del D.V. , quale dipendente della banca, non erano mai stati sollevati dubbi nel corso del giudizio, sicché era pacifica la riconducibilità del rapporto di lavoro ai criteri di imputazione di cui agli artt. 2043, 2049 c.c.. Assumono che, sulla base di tale premessa, non è necessario, ai fini della responsabilità datoriale, che il compimento dell'illecito da parte del dipendente rientri rigorosamente nell'esercizio delle mansioni affidategli, essendo sufficiente un nesso di occasionante necessaria tra l'illecito ed il rapporto, nel senso che l'incombenza affidata deve essere tale da determinare una situazione che renda possibile, o anche soltanto agevoli, il comportamento produttivo del danno, a nulla rilevando che il dipendente abbia ecceduto dai limiti dell'incarico. Richiamano a sostegno della propria tesi numerosi precedenti di questa Corte regolatrice ed osservano che il giudice di primo grado aveva accertato che il D.V. aveva commesso i reati proprio approfittando dell'esercizio delle mansioni svolte all'interno della banca, vuoi per la conoscenza della situazione dei clienti, ivi compresa quella della Z. , vuoi per il luogo dove erano stati perpetrati gli illeciti. Deducono, infine, che tali accertamenti, non contestati dalla banca appellante, erano coperti da giudicato. 3) Il motivo non può trovare accoglimento.

3.1) Come riconosciuto dagli stessi ricorrenti, la Corte territoriale ha correttamente enunciato i principi in base ai quali può essere affermata la responsabilità datoriale ex art. 2049 c.c., rilevando come, ai sensi di tale norma, gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono sul principale ove tra l'illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca autonomamente nell'ambito dell'incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando anche una condotta contraria alle direttive e non riconducibile agli interessi del datore. Ciò che D.M. e Z. rimproverano al giudice del merito, pertanto, non è di aver compiuto un'erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa disciplinata dall'art. 2049 c.c. - ovvero di aver erroneamente interpretato la predetta disposizione codicistica. - bensì (come appare chiaro dalla lettura del prosieguo del motivo, laddove si afferma che il giudice ha "...ingiustificatamente statuito che nel caso di specie non vi sono elementi per ricondurre la condotta del D.V. alla sua posizione di dipendente.."), di non aver ritenuto applicabile la norma medesima alla concreta fattispecie dedotta in giudizio, in ragione dell'errata valutazione delle risultanze istruttorie. 3.2) Escluso, dunque, che la censura sia volta a denunciare un error in iudicando ai sensi dell'art. 360 I comma n. 3 c.p.c., va rilevato come, sotto il diverso profilo del vizio di motivazione, essa difetti del tutto dei requisiti della specificità e dell'autosufficienza. Va, in proposito, in primo luogo rilevato che i ricorrenti si sono limitati ad affermare che era pacifico in causa che il D.V. avesse commesso i reati all'interno dei locali dell'agenzia XX della banca, approfittando dell'esercizio delle mansioni ivi svolte, che gli consentivano di conoscere la situazione dei clienti, ma non hanno richiamato nel motivo neppure un passo delle difese dell'istituto di credito dal quale la Corte territoriale avrebbe dovuto evincere l'avvenuto riconoscimento da parte dell'appellante delle predette circostanze, ritenendoli conseguentemente esonerati dall'onere della prova ad esse relativo.

Ancor più assiomatica (in mancanza della trascrizione delle parti, a tal fine rilevanti, tanto della sentenza di primo grado, quanto dei motivi d'appello illustrati dalla banca) è l'affermazione del passaggio in giudicato della decisione del Tribunale in ordine all'accertamento, in fatto, della sussistenza del nesso di occasionalità necessaria fra gli illeciti compiuti dal D.V. e la sua posizione di dipendente. Ciò senza contare che, in tale ipotesi, i ricorrenti avrebbero dovuto denunciare con apposito motivo l’error in procedendo compiuto dalla Corte d'appello, per aver travalicato i limiti della cognizione devolutale col gravame.

Nella censura, inoltre, non risulta in alcun modo contestato l'assunto del giudice del merito secondo cui la qualifica, le funzioni e le mansioni svolte dal D.V. erano rimaste ignote, in quanto non solo non provate, ma neppure allegate dai danneggiati: la circostanza era di per sé dirimente, posto che non può configurarsi responsabilità datoriale se manchi la prova dei legame tra l'atto produttivo del danno e lo scopo in vista del cui raggiungimento siano state affidate al dipendente le mansioni in occasione delle quali l'illecito è stato compiuto (fra molte, Cass. n. 1530/010). Ne consegue la piena correttezza della conclusione della Corte territoriale in ordine alla mancanza degli elementi conoscitivi indispensabili per poter ritenere, in concreto, applicabile alla fattispecie in esame l'art. 2049 c.c.. 4) Col secondo motivo, deducendo violazione degli artt. 2043, 2049, 2909, 2697 c.c. e 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione, i ricorrenti lamentano che il giudice d'appello non abbia ritenuto raggiunta la prova del comportamento delittuoso del P. , nonostante la teste G. avesse riferito che il funzionario non aveva contabilizzato un assegno consegnatogli dalla Z. . Osservano che tale fatto era sufficiente a configurare un illecito, sicuramente commesso in costanza del rapporto da essi intrattenuto con la banca. Assumono, inoltre, che la nella sentenza di primo grado era precisato che la teste aveva personalmente constatato che la somma portata dall'assegno era di 5 milioni delle vecchie lire e deducono che il giudice d'appello, oltre a non tener conto di tale circostanza, ha omesso di apprezzare come incontestata, e comunque coperta da giudicato, la censurabilità dei contegni materiali posti in essere in loro danno dal P. . 5) Il motivo va respinto per ragioni analoghe a quelle già illustrate sub. 3.1) e 3.2): i ricorrenti, infatti, lungi dall'evidenziare violazioni di norme di diritto, lamentano che la Corte territoriale, nell'escludere che vi fosse prova della condotta illecita del P. , abbia malamente valutato la deposizione della G. e non abbia considerato che le circostanze ritenute non provate erano in realtà incontroverse o addirittura coperte da giudicato. Sennonché, quanto al primo punto, la censura si risolve nella richiesta, inammissibile nella presente sede di legittimità, di ottenere un diverso apprezzamento di una testimonianza che il giudice del merito, con motivazione congrua e immune da vizi logici, ha ritenuto del tutto inidonea a provare i fatti addebitati al P. (ciò senza contare che, contrariamente a quanto preteso dai ricorrenti, l'eventuale accertamento di tali fatti non avrebbe condotto, in via automatica, al riconoscimento della responsabilità ex art. 2049 c.c. della banca). Quanto al secondo punto, invece, la censura, al pari di quella precedente, difetta dei requisiti della specificità e dell'autosufficienza: a sostegno del preteso riconoscimento da parte del Banco di Roma dell'illiceità della condotta del dipendente, il motivo si limita a riportare un periodo della comparsa conclusionale di primo grado della banca ("..In ogni caso, appare pacifico che il detto P. , anziché agire nell'ambito delle normali mansioni bancarie, avrebbe svolto un'attività assolutamente estranea ed addirittura contraria agli interessi della banca..”) dal quale può unicamente desumersi che l'istituto contestava di dover rispondere degli eventuali fatti delittuosi commessi dal funzionario; del tutto apodittica (siccome priva di qualsivoglia richiamo al contenuto dell'atto d'appello) è, poi, l'affermazione dell'avvenuto passaggio in giudicato del capo della sentenza non definitiva del Tribunale che ha ritenuto provato che il P. avesse tenuto comportamenti illegali nell'esercizio delle sue funzioni ed all'interno dell'ufficio. 6) Va infine dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, con il quale D.M. e Z. lamentano la contraddittorietà e l'insufficienza della motivazione della sentenza impugnata, senza però riportare in ricorso il contenuto testuale ed integrale delle dichiarazioni testimoniali e delle ulteriori risultanze processuali (atti del procedimento penale) asseritamente ignorate o erroneamente valutate dalla Corte di merito e senza chiarire perché le circostanze dalla stessa trascurate sarebbero state decisive per giungere ad una diversa soluzione della controversia. 7) Inammissibile, prima ancora che assorbito dal rigetto del ricorso principale, è anche il ricorso incidentale condizionato con il quale la Banca di Roma denuncia un vizio di omessa pronuncia della sentenza impugnata, che non avrebbe statuito sul motivo d'appello con il quale essa aveva lamentato la mancanza di idonea prova in ordine al quantum dell'avversa pretesa.

La ricorrente, infatti, é priva di interesse a dolersi del mancato esame di una questione che risultava assorbita dall'accoglimento dei motivi d'appello sull'an e sulla quale, nel caso di accoglimento del ricorso principale, sarebbe stato eventualmente tenuto a pronunciare il giudice del rinvio. Le spese del giudizio seguono la soccombenza sostanziale e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte: riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato; condanna M.F..D.M. e L..Z. , in via fra loro solidale, al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 10.000 per onorari ed Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

 

 

 

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici