Persona e danno.it
Gli effetti del comportamento dei
dipendenti ricadono sul principale ove tra l’illecito ed
il rapporto di lavoro sussista quel nesso di
occasionalità necessaria che si riscontra ogni qual
volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile
o agevolato la sua condotta, e quindi anche nel caso che
egli agisca autonomamente nell’ambito dell’incarico, e
persino ove lo stesso ecceda dai limiti concessi o
trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando anche una
condotta contraria alle direttive e non riconducibile
agli interessi del datore.
Una s.r.l. gode di affidamenti
regolati in conto corrente e garantiti da fideiussione
dei soci presso l’agenzia di una banca. Gli affari
cominciano ad andar male. Vengono allora prelevate delle
somme dal conto e si verifica uno sconfinamento. Ad un
certo punto, il funzionario addetto alla gestione dei
fidi parla coi due soci della s.r.l. e, conoscendo la
situazione, anziché invitarli a rientrare dallo
scoperto, li incoraggia all’indebitamento proponendo
loro di accettare un finanziamento dai titolari di
un’agenzia assicurativa situata nello stesso edificio
della banca. Non pago, il funzionario si mette a fare da
mediatore e presenta ai due malcapitati un altro
dipendente della banca disposto a prestare del denaro.
Il dipendente, a garanzia del prestito, si fa rilasciare
un assegno privo di data e di importo superiore alla
cifra concessa ai malcapitati e, con la minaccia di
procedere all’incasso dello stesso, ottiene la
corresponsione di interessi usurari. Stanchi di subire,
i due soci si rivolgono alla giustizia.
La s.r.l. conviene in giudizio
l’istituto di credito sostenendo che sia anch’esso
responsabile per via degli illeciti compiuti dai suoi
dipendenti. Il Tribunale dà ragione alla società e
condanna la Banca al pagamento di 606.815 Euro.
Quest’ultima ricorre in appello dove il verdetto viene
ribaltato. La Corte territoriale sostiene che
l’istruttoria condotta in primo grado non ha offerto la
prova della condotta illecita del funzionario.
Dell’altro dipendente, condannato in sede penale, non
sono invece precisati in giudizio la qualifica, le
funzioni e le mansioni svolte, di conseguenza deve
essere esclusa la responsabilità della banca per le sue
condotte dato che la commissione del reato all’interno
dei locali dell’istituto di credito non è elemento
sufficiente a determinare una responsabilità dello
stesso.
I soci non ci stanno e ricorrono in
Cassazione lamentando una violazione delle norme sulla
responsabilità dei padroni e dei committenti. Purtroppo
per loro, il motivo non è accolto perché la censura si
traduce nella richiesta di una rivalutazione delle
risultanze istruttorie. La Corte territoriale ha
enunciato i principi in base ai quali può essere
affermata la responsabilità datoriale rilevando come
«gli effetti del comportamento dei dipendenti ricadono
sul principale ove tra l’illecito ed il rapporto di
lavoro sussista quel nesso di occasionalità necessaria
che si riscontra ogni qual volta le mansioni del
dipendente abbiano reso possibile o agevolato la sua
condotta, e quindi anche nel caso che egli agisca
autonomamente nell’ambito dell’incarico, e persino ove
lo stesso ecceda dai limiti concessi o trasgredisca agli
ordini ricevuti, attuando anche una condotta contraria
alle direttive e non riconducibile agli interessi del
datore». Dunque i giudici hanno compiuto una corretta
ricognizione astratta della fattispecie non ritenendola
però applicabile al caso concreto.
Inoltre, nelle doglianze dei due
soci non risulta la contestazione dell’assunto del
giudice di merito secondo cui la qualifica e le funzioni
del dipendente-strozzino sono rimaste ignote. Tuttavia,
si tratta di una circostanza «di per sé dirimente, posto
che non può configurarsi responsabilità datoriale se
manchi la prova del legame tra l’atto produttivo del
danno e lo scopo in vista del cui raggiungimento siano
state affidate al dipendente le mansioni in occasione
delle quali l’illecito è stato compiuto».
Corte di Cassazione, sez. I Civile,
sentenza 9 novembre 2011 – 20 gennaio 2012, n. 789
Presidente Vitrone – Relatore
Cristiano
Svolgimento del processo
La s.r.l. Italparati, ed i suoi
soci, D.M.M.F. e L..Z. , convennero in giudizio la Banca
di Roma s.p.a. deducendone la responsabilità ai sensi
dell'art. 2049 c.c., per illeciti compiuti da suoi
dipendenti. Esposero, a sostegno della domanda, che
Italparati godeva, presso l'agenzia romana n. 27 della
banca, di affidamenti, regolati in conto corrente e
garantiti da fideiussione dei soci; che, verificatosi
uno sconfinamento, il dr. P. , funzionario addetto alla
gestione dei fidi, anziché invitarli a rientrare dallo
scoperto, li aveva incoraggiati all'indebitamento,
inducendoli ad accettare finanziamenti a tasso usurario
dai titolari di un'agenzia assicurativa situata nello
stesso edificio della banca; che, successivamente,
sempre su suggerimento del P. , un altro dipendente
dell'istituto, D.V.T. , aveva personalmente prestato
alla Z. 27 milioni di lire, a fronte dei quali,
minacciandola di porre all'incasso un assegno privo di
data dell'importo di 30 milioni di lire che si era fatto
contestualmente rilasciare in garanzia, aveva ottenuto
anch'egli la corresponsione di altissimi interessi
usurari. Tanto premesso, gli attori sostennero che il
Banco di Roma era tenuto a rispondere, ai sensi
dell'art. 2049 c.c., dei danni da essi subiti in
conseguenza degli illeciti commessi dai suoi dipendenti,
che traevano occasione dal rapporto di lavoro. La banca,
costituitasi in giudizio, contestò la propria
responsabilità. La causa, interrottasi a seguito del
fallimento della Italparati, fu riassunta dai soli D.M.
e Z. . Il Tribunale di Roma, con sentenza parziale del
16.11.2000, dichiarò fondata nell'an la domanda; quindi,
disposta ed espletata una ctu, con sentenza definitiva
del 4.2.03, condannò il Banco di Roma al pagamento in
favore degli attori della somma di Euro 606.815, oltre
interessi legati e spese di lite. Capitalia s.p.a.,
nuova denominazione del Banco di Roma s.p.a., impugnò
entrambe le sentenze; gli appelli, riuniti, furono
accolti dalla Corte d'Appello di Roma con sentenza
dell'11.4.06. La Corte territoriale osservò, per ciò che
nella presente sede ancora rileva, che l'istruttoria
condotta nel corso del primo grado del giudizio non
offriva elementi sufficienti a provare la condotta
illecita del P. , assolto in sede penale dal reato di
usura per il quale era stato indagato, in quanto i testi
escussi si erano limitati a riferire circostanze o prive
di rilievo (la richiesta dell'appellata di accendere un
mutuo) o generiche (la sottoscrizione, da parte della Z.
, di assegni in bianco mentre era in coda allo sportello
della banca) o apprese in via indiretta, ma nulla
avevano saputo precisare in ordine ai rapporti
intrattenuti dal funzionario con gli attori; che,
d'altro canto, l'unico fatto personalmente constatato da
uno dei testi (la consegna dalla Z. al P. di un assegno
di importo imprecisato, che quest'ultimo aveva riposto
in un cassetto, dicendo che sarebbe servito a coprire il
conto personale della signora) non era corredato da
riferimenti di tempo e risultava talmente vago da non
poterne desumere neppure una anomala gestione del conto.
Il giudice ritenne, poi, che dovesse essere esclusa la
responsabilità del Banco di Roma per i danni derivati
agli attori dalla condotta illecita del D.V. - che era
stato invece condannato per il reato di usura commesso
in danno della Z. - in quanto non emergeva dagli atti la
prova della sussistenza di quel nesso di occasionalità
necessaria tra l'illecito ed il rapporto di lavoro che
giustifica l'affermazione di responsabilità del datore
di lavoro ex art. 2049 c.c. e che si riscontra ogni qual
volta le mansioni del dipendente abbiano reso possibile
od agevolato la sua condotta; in particolare, la Corte
territoriale rilevò che, essendo ignote qualifica,
funzioni e mansioni del D.V. , neppure allegate dai
danneggiati, appariva insufficiente il fatto che il
reato fosse stato da lui commesso nei locali
dell'agenzia. La sentenza è stata impugnata da D.M. e Z.
con ricorso affidato a tre motivi. Banca di Roma s.p.a.
(già Capitalia s.p.a.) ha resistito con controricorso ed
ha proposto, a sua volta, ricorso incidentale
condizionato.
Entrambe le parti hanno depositato
memoria.
Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello
incidentale vanno riuniti ai sensi dell'art. 235 c.p.c..
1) Nella memoria depositata ai
sensi dell'art. 378 c.p.c. i ricorrenti hanno eccepito
la nullità della procura rilasciata dai legali
rappresentanti della Banca di Roma in calce al
controricorso, sia perché priva di riferimento al
giudizio sia perché non conferisce espressamente al
difensore nominato il potere di impugnare la sentenza
mediante ricorso incidentale.
L'eccezione è infondata e deve
essere respinta. Infatti, secondo la giurisprudenza di
questa Corte, il mandato, anche non datato, apposto in
calce o a margine del ricorso (o del controricorso) per
cassazione è per sua natura speciale, giacché tale
collocazione rivela uno specifico collegamento tra la
procura ed il giudizio di legittimità (fra molte, da
ultimo, Cass. nn. 25317/010, 26504/09) e deve intendersi
esteso anche al ricorso incidentale, per il quale non è
richiesta formalmente una procura autonoma e distinta
(Cass. n. 25317/010 cit.)
2) Con il primo motivo di ricorso
D.M. e Z. denunciano violazione e falsa applicazione
degli artt. 2043 e 2049 e 2909 c.c., nonché vizio di
motivazione. Rilevano che sulla figura del D.V. , quale
dipendente della banca, non erano mai stati sollevati
dubbi nel corso del giudizio, sicché era pacifica la
riconducibilità del rapporto di lavoro ai criteri di
imputazione di cui agli artt. 2043, 2049 c.c.. Assumono
che, sulla base di tale premessa, non è necessario, ai
fini della responsabilità datoriale, che il compimento
dell'illecito da parte del dipendente rientri
rigorosamente nell'esercizio delle mansioni affidategli,
essendo sufficiente un nesso di occasionante necessaria
tra l'illecito ed il rapporto, nel senso che
l'incombenza affidata deve essere tale da determinare
una situazione che renda possibile, o anche soltanto
agevoli, il comportamento produttivo del danno, a nulla
rilevando che il dipendente abbia ecceduto dai limiti
dell'incarico. Richiamano a sostegno della propria tesi
numerosi precedenti di questa Corte regolatrice ed
osservano che il giudice di primo grado aveva accertato
che il D.V. aveva commesso i reati proprio approfittando
dell'esercizio delle mansioni svolte all'interno della
banca, vuoi per la conoscenza della situazione dei
clienti, ivi compresa quella della Z. , vuoi per il
luogo dove erano stati perpetrati gli illeciti.
Deducono, infine, che tali accertamenti, non contestati
dalla banca appellante, erano coperti da giudicato. 3)
Il motivo non può trovare accoglimento.
3.1) Come riconosciuto dagli stessi
ricorrenti, la Corte territoriale ha correttamente
enunciato i principi in base ai quali può essere
affermata la responsabilità datoriale ex art. 2049 c.c.,
rilevando come, ai sensi di tale norma, gli effetti del
comportamento dei dipendenti ricadono sul principale ove
tra l'illecito ed il rapporto di lavoro sussista quel
nesso di occasionalità necessaria che si riscontra ogni
qual volta le mansioni del dipendente abbiano reso
possibile o agevolato la sua condotta, e quindi anche
nel caso che egli agisca autonomamente nell'ambito
dell'incarico, e persino ove lo stesso ecceda dai limiti
concessi o trasgredisca agli ordini ricevuti, attuando
anche una condotta contraria alle direttive e non
riconducibile agli interessi del datore. Ciò che D.M. e
Z. rimproverano al giudice del merito, pertanto, non è
di aver compiuto un'erronea ricognizione della astratta
fattispecie normativa disciplinata dall'art. 2049 c.c. -
ovvero di aver erroneamente interpretato la predetta
disposizione codicistica. - bensì (come appare chiaro
dalla lettura del prosieguo del motivo, laddove si
afferma che il giudice ha "...ingiustificatamente
statuito che nel caso di specie non vi sono elementi per
ricondurre la condotta del D.V. alla sua posizione di
dipendente.."), di non aver ritenuto applicabile la
norma medesima alla concreta fattispecie dedotta in
giudizio, in ragione dell'errata valutazione delle
risultanze istruttorie. 3.2) Escluso, dunque, che la
censura sia volta a denunciare un error in iudicando ai
sensi dell'art. 360 I comma n. 3 c.p.c., va rilevato
come, sotto il diverso profilo del vizio di motivazione,
essa difetti del tutto dei requisiti della specificità e
dell'autosufficienza. Va, in proposito, in primo luogo
rilevato che i ricorrenti si sono limitati ad affermare
che era pacifico in causa che il D.V. avesse commesso i
reati all'interno dei locali dell'agenzia XX della
banca, approfittando dell'esercizio delle mansioni ivi
svolte, che gli consentivano di conoscere la situazione
dei clienti, ma non hanno richiamato nel motivo neppure
un passo delle difese dell'istituto di credito dal quale
la Corte territoriale avrebbe dovuto evincere l'avvenuto
riconoscimento da parte dell'appellante delle predette
circostanze, ritenendoli conseguentemente esonerati
dall'onere della prova ad esse relativo.
Ancor più assiomatica (in mancanza
della trascrizione delle parti, a tal fine rilevanti,
tanto della sentenza di primo grado, quanto dei motivi
d'appello illustrati dalla banca) è l'affermazione del
passaggio in giudicato della decisione del Tribunale in
ordine all'accertamento, in fatto, della sussistenza del
nesso di occasionalità necessaria fra gli illeciti
compiuti dal D.V. e la sua posizione di dipendente. Ciò
senza contare che, in tale ipotesi, i ricorrenti
avrebbero dovuto denunciare con apposito motivo l’error
in procedendo compiuto dalla Corte d'appello, per aver
travalicato i limiti della cognizione devolutale col
gravame.
Nella censura, inoltre, non risulta
in alcun modo contestato l'assunto del giudice del
merito secondo cui la qualifica, le funzioni e le
mansioni svolte dal D.V. erano rimaste ignote, in quanto
non solo non provate, ma neppure allegate dai
danneggiati: la circostanza era di per sé dirimente,
posto che non può configurarsi responsabilità datoriale
se manchi la prova dei legame tra l'atto produttivo del
danno e lo scopo in vista del cui raggiungimento siano
state affidate al dipendente le mansioni in occasione
delle quali l'illecito è stato compiuto (fra molte,
Cass. n. 1530/010). Ne consegue la piena correttezza
della conclusione della Corte territoriale in ordine
alla mancanza degli elementi conoscitivi indispensabili
per poter ritenere, in concreto, applicabile alla
fattispecie in esame l'art. 2049 c.c.. 4) Col secondo
motivo, deducendo violazione degli artt. 2043, 2049,
2909, 2697 c.c. e 116 c.p.c., nonché vizio di
motivazione, i ricorrenti lamentano che il giudice
d'appello non abbia ritenuto raggiunta la prova del
comportamento delittuoso del P. , nonostante la teste G.
avesse riferito che il funzionario non aveva
contabilizzato un assegno consegnatogli dalla Z. .
Osservano che tale fatto era sufficiente a configurare
un illecito, sicuramente commesso in costanza del
rapporto da essi intrattenuto con la banca. Assumono,
inoltre, che la nella sentenza di primo grado era
precisato che la teste aveva personalmente constatato
che la somma portata dall'assegno era di 5 milioni delle
vecchie lire e deducono che il giudice d'appello, oltre
a non tener conto di tale circostanza, ha omesso di
apprezzare come incontestata, e comunque coperta da
giudicato, la censurabilità dei contegni materiali posti
in essere in loro danno dal P. . 5) Il motivo va
respinto per ragioni analoghe a quelle già illustrate
sub. 3.1) e 3.2): i ricorrenti, infatti, lungi
dall'evidenziare violazioni di norme di diritto,
lamentano che la Corte territoriale, nell'escludere che
vi fosse prova della condotta illecita del P. , abbia
malamente valutato la deposizione della G. e non abbia
considerato che le circostanze ritenute non provate
erano in realtà incontroverse o addirittura coperte da
giudicato. Sennonché, quanto al primo punto, la censura
si risolve nella richiesta, inammissibile nella presente
sede di legittimità, di ottenere un diverso
apprezzamento di una testimonianza che il giudice del
merito, con motivazione congrua e immune da vizi logici,
ha ritenuto del tutto inidonea a provare i fatti
addebitati al P. (ciò senza contare che, contrariamente
a quanto preteso dai ricorrenti, l'eventuale
accertamento di tali fatti non avrebbe condotto, in via
automatica, al riconoscimento della responsabilità ex
art. 2049 c.c. della banca). Quanto al secondo punto,
invece, la censura, al pari di quella precedente,
difetta dei requisiti della specificità e
dell'autosufficienza: a sostegno del preteso
riconoscimento da parte del Banco di Roma dell'illiceità
della condotta del dipendente, il motivo si limita a
riportare un periodo della comparsa conclusionale di
primo grado della banca ("..In ogni caso, appare
pacifico che il detto P. , anziché agire nell'ambito
delle normali mansioni bancarie, avrebbe svolto
un'attività assolutamente estranea ed addirittura
contraria agli interessi della banca..”) dal quale può
unicamente desumersi che l'istituto contestava di dover
rispondere degli eventuali fatti delittuosi commessi dal
funzionario; del tutto apodittica (siccome priva di
qualsivoglia richiamo al contenuto dell'atto d'appello)
è, poi, l'affermazione dell'avvenuto passaggio in
giudicato del capo della sentenza non definitiva del
Tribunale che ha ritenuto provato che il P. avesse
tenuto comportamenti illegali nell'esercizio delle sue
funzioni ed all'interno dell'ufficio. 6) Va infine
dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, con
il quale D.M. e Z. lamentano la contraddittorietà e
l'insufficienza della motivazione della sentenza
impugnata, senza però riportare in ricorso il contenuto
testuale ed integrale delle dichiarazioni testimoniali e
delle ulteriori risultanze processuali (atti del
procedimento penale) asseritamente ignorate o
erroneamente valutate dalla Corte di merito e senza
chiarire perché le circostanze dalla stessa trascurate
sarebbero state decisive per giungere ad una diversa
soluzione della controversia. 7) Inammissibile, prima
ancora che assorbito dal rigetto del ricorso principale,
è anche il ricorso incidentale condizionato con il quale
la Banca di Roma denuncia un vizio di omessa pronuncia
della sentenza impugnata, che non avrebbe statuito sul
motivo d'appello con il quale essa aveva lamentato la
mancanza di idonea prova in ordine al quantum
dell'avversa pretesa.
La ricorrente, infatti, é priva di
interesse a dolersi del mancato esame di una questione
che risultava assorbita dall'accoglimento dei motivi
d'appello sull'an e sulla quale, nel caso di
accoglimento del ricorso principale, sarebbe stato
eventualmente tenuto a pronunciare il giudice del
rinvio. Le spese del giudizio seguono la soccombenza
sostanziale e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte: riunisce i ricorsi;
rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile
il ricorso incidentale condizionato; condanna M.F..D.M.
e L..Z. , in via fra loro solidale, al pagamento delle
spese processuali, che liquida in Euro 10.000 per
onorari ed Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed
accessori di legge.
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