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Concordato preventivo: anche in assenza di transazione fiscale non occorre il consenso dell’Amministrazione. L’IVA sfugge comunque alla falcidia.-Cassazione civile, sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932

 

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Concordato crediti tributari ivaIl concordato preventivo correttamente omologato obbliga tutti i creditori, incluso l’erario, con conseguente falcidia dei crediti tributari – eccezion fatta che per i crediti IVA – pur in assenza dell’attivazione, da parte del proponente il concordato, dello specifico procedimento che regola la transazione fiscale (art. 182-ter L.F.).

Secondo i giudici del Palazzaccio non solo il consenso del fisco non è indispensabile per l’omologazione del concordato ma la falcidia del credito fiscale può intervenire anche in presenza del voto contrario dell’Amministrazione.

Alla conclusione di cui sopra – ovviamente di segno opposto alla posizione dell’Agenzia delle Entrate che in proposito si era pronunciata con la circolare n. 40/E del 2008 – si perviene dalla lettura delle disposizioni della Legge Fallimentare, segnatamente degli articoli 160 e, soprattutto, 184 del R.D. 267/42. Se il primo consente a che l’imprenditore che si trova in stato di crisi possa proporre ai creditori un concordato preventivo il secondo, enunciando gli effetti della procedura, sancisce che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato”.

Secondo la Corte «La tassatività della disposizione, e quindi l’affermazione del principio secondo il quale l’assetto dei crediti (inteso quale definizione della percentuale di pagamento o delle modalità alternative di soddisfacimento) quale emerge dalla proposta omologata obbliga tutti i creditori indipendentemente non solo dal loro voto favorevole o contrario ma dalla stessa loro partecipazione al procedimento, porta ad escludere la possibilità di un particolare statuto per il fisco, non essendo revocabile in dubbio che un’eccezione al principio, se voluta e per le conseguenze pratiche che comporta, sarebbe stata espressamente inserita dal legislatore in occasione della formulazione della disposizione dedicata alla materia».

Ma nel corpo motivazionale della sentenza sono individuate ulteriori considerazioni che rafforazano una tale conclusione:

 

    il voto negativo del fisco che escludesse di per sé la possibilità di omologazione del concordato contrasterebbe con i principi del giusto processo, che vogliono vengano evitate attività processuali non necessarie;

    costituirebbe una palese incongruenza l’attribuzione di un peso determinante alla volontà dell’Amministrazione finanziaria pur quando, ad esempio, dovesse votare contro anche in presenza di una proposta conforme alle sue aspettative semplicemente per la ritenuta non fattibilità del piano;

    la sostanziale attribuzione del diritto di veto al fisco renderebbe assai più difficile l’accesso al concordato in quanto il debitore sarebbe tenuto ad accettare in toto le pretese fiscali per poter accedere alla transazione e ciò in contrasto con la volontà del legislatore di valorizzare e favorire la soluzione concordataria;

 

In conclusione è stato affermato che «la votazione contraria da parte dell’Amministrazione finanziara non impedisce l’omologazione del concordato se è comunque raggiunta la prescritta maggioranza».

 

Diversamente, con riguardo all'imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento.

Con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 32, è stato modificato l’art. 182 ter, comma 1 L.F., tra l’altro introducendo la precisazione secondo la quale “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione dei pagamento”, disposizione in seguito estesa anche alla ritenute previdenziali effettuate e non versate.

La disposizione ha troncato ogni discussione in corso circa la ricomprensione o meno dell’IVA tra “i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea” esclusi dalla possibilità di falcidia fin dall’originaria formulazione della norma.

La norma, che sostanzialmente esclude il credito IVA da quelli che possono formare oggetto di transazione quanto meno in ordine all’ammontare del pagamento, è una disposizione eccezionale che attribuisce al credito in questione un trattamento peculiare e inderogabile.

L’intangibilità dell’IVA sussiste non solo se viene attivato il peculiare procedimento della transazione fiscale di cui all’art. 183 L.F. ma anche nel caso in cui la transazione speciale non venga perseguita ma la proposta di concordato tratti il fisco come ogni altro creditore (cosa che è avvenuta nella fattispecie).

Non avrebbe alcuna giustificazione logica che il legislatore abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del debitore di assoggettarsi o meno all’onere dell’integrale pagamento dell’IVA optando per la transazione fiscale oppure avvalendosi della possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo per il concordato senza transazione e quindi rimanendo vincolato solo all’obbligo di pagare integralmente il debito nei limiti del valore dei beni sui quali grava la garanzia, peraltro spesso insussistenti come nel caso di imposta gravante sul valore della prestazione di servizi.

 

Avv. Gianluca Lanciano

 

Cassazione civile, sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932-testo

 

Svolgimento del processo

 

L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello che ha rigettato il suo reclamo nei confronti del decreto con il quale il Tribunale ha omologato la proposta di concordato preventivo presentata da Il Guercino s.r.l. nonostante l’opposizione proposta dalla stessa Agenzia.

Il ricorso è affidato a due motivi: con il primo si deduce violazione della L. Fall., artt. 160 e 182 ter, per avere la Corte ritenuto ammissibile la proposta di concordato contenente, tra l’altro, la falcidia dei crediti tributari benchè non fosse stato effettuato io specifico interpello dell’ufficio fiscale previsto nella L. Fall., art. 182 ter; con il secondo si deduce violazione ancora della L. Fall., artt. 160 e 182 ter, per avere la Corte territoriale ritenuto ammissibile la falcidia anche del credito per IVA, costituente risorsa propria della Comunità Europea e possibile oggetto di transazione unicamente quanto ai tempi di pagamento.

Resiste la sola società proponente il concordato che ha anche depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Deve essere preliminarmente valutata la questione sollevata dalla controricorrente, ma in ogni caso rilevabile d’ufficio, attinente all’ammissibilità e comunque alla tempestività del ricorso.

A differenza di quanto previsto in tema di reclamo avverso il decreto di omologazione del concordato fallimentare (L. Fall., art. 131), il legislatore non ha disciplinato compiutamente l’analogo procedimento nell’ambito del concordato preventivo, limitandosi a disporre che “Contro il decreto del tribunale può essere proposto reclamo alla corte di appello, la quale pronuncia in camera di consiglio.

Con lo stesso reclamo è impugnabile la sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente emessa a norma dell’art. 180, comma 7” (art. 183).

Deve innanzitutto escludersi che possa essere applicata per analogia la particolare disciplina dettata per il concordato fallimentare (L. Fall., art. 131) secondo la quale il decreto della corte d’appello è ricorribile per cassazione entro il termine di trenta giorni dal compimento delle formalità di cui alla L. Fall., art. 17, in quanto il legislatore ha dettato una specifica disposizione sul punto per il concordato preventivo e non è pensabile che, nel momento in cui è intervenuto con lo stesso provvedimento (il D.Lgs. n. 169 del 2007) sia sull’art. 131 che sull’art. 183, non si sia avveduto della diversa formulazione e si sia affidato solo al richiamato canone ermeneutico per unificare i procedimenti.

Ciò posto, non vi può essere comunque dubbio in ordine alla ricorribilità del provvedimento ai sensi dell’art. 111 Cost., in quanto il decreto della corte d’appello ha natura di sentenza, avendo l’attitudine alla definitività ed incidendo su diritti soggettivi, dal momento che, se comporta l’omologazione del concordato, determina un diverso assetto dei diritti di credito coinvolti nella procedura (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3585 del 14/02/2011; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15699 del 15/7/2011).

Quanto al termine, una volta accertata l’inapplicabilità in via analogica del procedimento di cui alla L. Fall., art. 131, e quindi dato per ammesso che la diversità dei presupposti oggettivi in cui interviene l’omologazione (impresa soggetta a procedura fallimentare in un caso; impresa in bonis nell’altro) abbia indotto il legislatore, in assenza di particolari esigenze di sollecitudine, a ricorrere nel concordato preventivo agli strumenti ordinari, deve concludersi che il procedimento di omologazione si svolge secondo il comune rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., e di conseguenza che il termine per il ricorso per cassazione è quello ordinario di sessanta giorni; in tale fattispecie, detto termine decorre dalla data di notificazione, così come già stabilito dalla Corte che ha enunciato il principio secondo cui: “L’art. 739 c.p.c. - secondo il quale il provvedimento emesso in camera di consiglio dai tribunale, se pronunziato in confronto di più parti, è reclamabile entro dieci giorni dalla notificazione - non deroga alla regola generale dettata dall’art. 326 del codice medesimo per le impugnazioni in genere, con la conseguenza che anche il termine per proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso i decreti pronunziati in camera di consiglio decorre dalla notificazione del provvedimento: ad un tal riguardo, ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 325 c.p.c., occorre che la notificazione sia eseguita ad istanza di parte, non essendo sufficiente che la notificazione sia stata effettuata a cura della cancelleria del giudice, nel qual caso il ricorso per cassazione resta soggetto al termine annuale di cui” (Cassazione civile, sez. 1^, 4/12/2003, n. 18514).

Poiché la notifica del decreto della Corte d’appello è intervenuta in data 14 aprile 2010 è dunque tempestivo il ricorso notificato in data 11 giugno 2010.

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione della L. Fall., artt. 160 e 182 ter, per avere la Corte d’appello ritenuto possibile la falcidia dei crediti tributari pur in assenza dell’attivazione, da parte del proponente il concordato, dello specifico procedimento che regola la transazione fiscale.

La censura non è fondata anche se, per le ragioni di cui all’esame del secondo motivo, deve essere in parte corretta la motivazione del giudice del reclamo laddove predica la possibilità di falcidia dell’IVA. La questione, che viene affrontata per la prima volta dalla Corte e che è stata oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di merito e della dottrina, in maggioranza schierate per la facoltatività della transazione fiscale, contestata invece dell’Amministrazione che sul punto si è pronunciata con la Circolare n. 40/E del 2008, non può certo essere risolta nel senso della non obbligatorietà dello speciale rito sulla base del mero dato letterale secondo il quale “con il piano di cui all’art. 160 il debitore può proporre il pagamento... dei tributi” (corsivo dell’estensore) che altro non è che la ripetizione della formula contenuta nel citato art. 160 secondo la quale “L’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo” che chiarisce unicamente che l’accesso all’indicato istituto è una facoltà per il debitore e non è quindi sufficiente a supportare un giudizio di alternatività della transazione fiscale rispetto ad altro rito volto anch’esso alla falcidia del credito tributario.

Prima di affrontare la questione è necessario innanzitutto evidenziare quali variazioni all’ordinario procedimento concordatario comporti il ricorso al sub procedimento della transazione fiscale.

Diversi sono innanzitutto gli obblighi imposti alle parti direttamente interessate e cioè al debitore e al fisco.

Il primo deve provvedere nei confronti dell’Amministrazione fiscale (inteso ricompreso in questa termine per semplicità espositiva anche il concessionario per la riscossione, ora agente per la riscossione) ad una formalità alla quale non è tenuto nei confronti degli altri creditori e cioè alla comunicazione, contestualmente al deposito del ricorso per il concordato presso la cancelleria del tribunale, della copia della domanda e della relativa documentazione. Tale adempimento è finalizzato a sollecitare l’ufficio fiscale ad un’attività anch’essa peculiare che non è invece richiesta agli altri creditori e cioè a certificare l’ammontare complessivo del debito tributario mediante la comunicazione di quello già accertato e di quello conseguente alla liquidazione delle dichiarazioni, compresa la dichiarazione integrativa relativa al periodo sino alla data di presentazione della domanda, “al fine di consentire il consolidamento del debito fiscale”.

Ben diversi sono anche gli affetti dell’omologazione del concordato contenente la raggiunta transazione fiscale.

In primo luogo si “consolida” il debito tributario. Tale formulazione, che è evidentemente atecnica in quanto nel tessuto normativo con detta espressione viene definita una modalità opzionale di calcolo della tassazione dei redditi di un gruppo di imprese (art. 117 e segg. TUIR), ha di conseguenza nella disposizione in esame un significato, che può essere anche complesso, non ancora univocamente definito. Certamente e come è unanimemente riconosciuto la prima accezione è quella di quadro di insieme del debito tributario, tale da consentire di valutare la congruità della proposta con riferimento alle risorse necessarie a far fronte al complesso dei debiti ed è certamente utile a fronteggiare l’incognita fiscale che normalmente grava sui concordati. Altro e concorrente possibile significato dell’espressione sul quale si è interrogata la dottrina e che viene qui richiamato solo per completezza espositiva, non essendo materia del contendere, è quello secondo cui tale quadro del debito complessivo cristallizzerebbe la pretesa tributaria alla data di presentazione della domanda così come quantificata dall’ufficio con esclusione da una parte della facoltà del medesimo di procedere ad ulteriori accertamenti anche se non sia ancora maturata la decadenza e dall’altra del debitore di contestare pretese anche se non ancora definitive.

Positivamente fissata dalla norma, invece, quale conseguenza dell’omologazione dell’accordo anche sul debito tributario, è l’estinzione dei giudizi in corso aventi ad oggetto i tributi concordati, effetto, questo, che non si verifica per gli altri creditori i quali quando votano sulla proposta concordataria sostanzialmente formulano il loro consenso solo in relazione alla percentuale o alle modalità di soddisfacimento prospettate ma possono non solo proseguire l’eventuale contenzioso in corso ma iniziarlo anche ex novo se in disaccordo con l’ammontare o la qualità dei crediti indicati nella domanda.

In definitiva, dunque, ben diverse sono le conseguenze tra un concordato senza transazione fiscale nel quale il fisco sia trattato come qualunque altro creditore ed uno, invece, in cui la transazione venga perseguita con le modalità indicate e quindi ben diversi sono vantaggi e svantaggi delle due soluzioni.

Con la transazione fiscale il debitore ottiene il vantaggio della apprezzabile o assoluta certezza sull’ammontare del “debito (a seconda del significato che si vuole attribuire al consolidamento) e quindi una maggiore trasparenza e leggibilità della proposta con conseguente maggiore probabilità di ottenere, oltre all’assenso del fisco, anche quello degli altri creditori. Tutto ciò ha però un costo che è dato dalla sostanziale necessità di accogliere tutte le pretese dell’Amministrazione, non essendo plausibile che la stessa, dopo aver indicato il proprio credito, accetti in questa sede di discuterlo e ridurlo.

Escludendo il ricorso alla transazione fiscale il debitore non ottiene i richiamati benefici ma può optare per la contestazione della pretesa erariale in vista di un minore esborso se gli importi in contestazione non incidono in modo rilevante e se quindi il consenso del fisco non è decisivo ai fini del raggiungimento della maggioranza.

Ma non vi è dubbio che l’esame della possibilità dell’alternativa presuppone innanzitutto che si accerti se il consenso del fisco sia comunque indispensabile per l’omologazione del concordato o se la falcidia del credito fiscale possa intervenire anche in presenza del voto contrario dell’Amministrazione.

Il quesito deve essere risolto nel senso della seconda alternativa.

Decisivo è in proposito il disposto della L. Fall., art. 184, laddove, enunciando gli effetti del concordato, sancisce che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato. La tassatività della disposizione, e quindi l’affermazione del principio secondo il quale l’assetto dei crediti (inteso quale definizione della percentuale di pagamento o delle modalità alternative di soddisfacimento) quale emerge dalla proposta omologata obbliga tutti i creditori indipendentemente non solo dal loro voto favorevole o contrario ma dalla stessa loro partecipazione al procedimento, porta ad escludere la possibilità di un particolare statuto per il fisco, non essendo revocabile in dubbio che un’eccezione al principio, se voluta e per le conseguenze pratiche che comporta, sarebbe stata espressamente inserita dal legislatore in occasione della formulazione della disposizione dedicata alla materia.

D’altra parte ulteriori considerazioni portano alla stessa conclusione e in primo luogo quella secondo cui se il voto negativo del fisco escludesse di per sé la possibilità di omologazione del concordato non avrebbe senso e contrasterebbe con i principi del giusto processo, che vogliono anche che vengano evitate attività processuali non necessarie, far votare l’Amministrazione unitamente a tutti gli altri creditori quando la sua volontà e quindi l’eventuale veto ben potrebbero essere accertati preliminarmente rendendo inutile l’ulteriore corso.

Oltre a ciò, e senza considerare l’incongruenza di attribuire un peso determinante alla volontà dell’Amministrazione pur quando, ad esempio, voti contro anche in presenza di una proposta conforme alle sue aspettative semplicemente per la ritenuta non fattibilità del piano, non può ignorarsi una considerazione di carattere generale e cioè che la sostanziale attribuzione del diritto di veto al fisco renderebbe assai più difficile l’accesso al concordato in quanto il debitore sarebbe tenuto ad accettare in toto ie pretese fiscali per poter accedere alla transazione e questo non si concilia con l’evidente volontà del legislatore di valorizzare e favorire la soluzione concordataria anche sacrificando forme di tutela prima presenti, come dimostra, ad esempio, l’eliminazione della doppia maggioranza.

Accertato dunque che la votazione non favorevole da parte dell’Amministrazione non impedisce l’omologazione del concordato se è comunque raggiunta la prescritta maggioranza e prima di trame le conseguenze in ordine al quesito in discussione è opportuno rilevare che il richiamo alla preferenza per il ricorso al concordato quale mezzo per affrontare la crisi dell’impresa sarebbe di per sè sufficiente a porre in dubbio l’obbligatorietà della transazione fiscale in quanto era assolutamente pacifico nella vigenza della disciplina del concordato antecedente alla stagione delle riforme che anche il credito tributario potesse essere oggetto di falcidia (ovviamente se chirografario) e che, più in generale, il fisco potesse essere trattato come qualunque altro creditore. Se dunque si predicasse l’obbligatorietà della transazione fiscale con ciò che comporta in termini di sostanziale assoggettamento alla pretesa erariale la possibilità del debitore di accesso al concordato ne verrebbe grandemente pregiudicata in stridente contrasto con le intenzioni del legislatore.

A parte tale considerazione è comunque l’accertata irrilevanza (nei termini sopra chiariti) del voto dell’ufficio che convince della facoltatività dei ricorso alla transazione fiscale.

A riprova è sufficiente valutare i possibili sviluppi della procedura nell’ipotesi in cui lo speciale subprocedimento venga invece attivato.

In primo luogo è possibile che, pur sollecitata dalla comunicazione di copia della domanda di concordato, l’Amministrazione semplicemente non si attivi trasmettendo la richiesta documentazione. Poiché evidentemente il procedimento non può subire un’interruzione per l’inadempienza dell’ufficio si deve procedere ugualmente agli ulteriori adempimenti e quindi alla votazione e, se la maggioranza è comunque raggiunta, al giudizio di omologazione il cui esito, come chiarito, non può essere condizionato dalla mancanza dei voto favorevole dell’erario.

Un esito analogo si verifica se l’ufficio adempie al proprio obbligo ma il contribuente debitore ritiene di non doversi adeguare alla pretesa e quindi non modifica la proposta (se non appostando una congrua riserva) manifestando l’intenzione di proseguire nell’eventuale contenzioso in corso e di volersi opporre ad eventuali ulteriori pretese. Tale atteggiamento sarebbe infatti perfettamente lecito, non potendosi evidentemente subordinare ex lege l’omologabilità del concordato alla rinuncia del debitore a difendersi nei confronti del creditore-fisco né potendo tale rinuncia ritenersi implicita nella richiesta di transazione fiscale quando ancora il quadro delle pretese (consolidamento) non è definito.

Stesso esito, infine, se i conteggi del debitore e del fisco coincidono o se il secondo comunque si adegua alla pretesa risultante dal consolidamento ma l’erario esprime ugualmente voto non favorevole, ipotesi, questa, possibile in quanto non può negarsi al fisco la facoltà di non aderire alla proposta vuoi perché ritiene non soddisfacente il trattamento prospettato e più favorevole l’ipotesi fallimentare, vuoi perché giudica non fattibile il piano.

In tutti questi casi, non essendo dirimente il voto erariale, il concordato, sussistendo gli altri presupposti, può comunque essere omologato con la conseguenza che il fisco deve accettare l’esito del procedimento come ogni altro creditore, fermo restando che la mancata adesione al concordato comporta il non verificarsi dei particolari effetti della transazione fiscale (consolidamento del debito inteso come non modificabile manifestazione della pretesa ed estinzione dei giudizi in corso) che sono chiaramente subordinati all’omologazione, in uno con il concordato, della connessa transazione fiscale, non potendo né il debitore né il fisco rimanere pregiudicati nei rispettivi diritti se non hanno concordemente accettato l’assetto degli interessi che tale pregiudizio giustifica.

Ma se così è, e se quindi pur in presenza di un tentativo di transazione fiscale non riuscito il concordato può essere ugualmente omologato, non è dato intendere perché un tale tentativo debba comunque essere effettuato se il debitore ritiene ab origine di non voler perseguire alcun accordo particolare col fisco perché già ne conosce le pretese, le ritiene infondate ed è disposto a correre il rischio del voto contrario dell’ufficio.

La ritenuta obbligatorietà della transazione fiscale, intesa come necessario interpello dell’erario, pur in presenza della volontà del debitore di non voler accettare di pagare un debito superiore a quello già considerato nella proposta presuppone la dimostrazione dell’esistenza di un interesse concreto e degno di tutela dell’Amministrazione ad essere comunque sollecitata a svolgere le attività previste dall’art. 182 ter, interesse che non è dato ravvisare, posto che l’ufficio, pur in assenza dell’interpello, non viene minimamente pregiudicato nel suo diritto di evidenziare compiutamente le sue pretese (anche in sede di adunanza e ai fini del voto) e di perseguirne l’accertamento prima e il soddisfacimento poi.

Né vale, infine, il richiamo al principio dell’indisponibilità del credito tributario dal momento che tale indisponibilità esiste nella misura in cui la legge non vi deroghi e non sono certo estranei all’ordinamento ipotesi di rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento (condoni c.d. tombali) o alla completa esazione dell’accertato in vista di finalità particolari, fermo restando che la richiamata carenza di interesse alla particolare modalità procedimentale di cui all’art. 182 ter, esclude la necessaria connessione tra detta modalità e la falcidia.

Il primo motivo deve dunque essere rigettato.

Con il secondo motivo si deduce violazione della L. Fall., artt. 160 e 182 ter, per avere ritenuto ammissibile il giudice del merito la falcidia del credito relativo all’imposta sul valore aggiunto (IVA) nell’ambito di un concordato senza transazione fiscale.

La censura è fondata.

Con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 32, è stato modificato la L. Fall., art. 182 ter, comma 1, e tra l’altro è stata introdotta la precisazione secondo la quale “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione dei pagamento”, disposizione in seguito estesa anche alla ritenute previdenziali effettuate e non versate.

La disposizione ha troncato la discussione in corso circa la ricomprensione o no dell’IVA tra “i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea” esclusi dalla possibilità di falcidia fin dall’originaria formulazione della norma e ritiene il Collegio che la stessa, in realtà, si ponga su di un piano di continuità con il primitivo dettato legislativo (per l’analogo rapporto tra riforma e decreto correttivo: Cass. civ. sent. n. 22150/10) chiarendone e confermandone l’interpretazione e che quindi pure questo si riferisse anche all’IVA, dovendosi intendere il richiamo a tributo come risorsa riferito non già al gettito effettivo (venendo in realtà il contributo per IVA calcolato prescindendo da questo) bensì alla specie di tributo individuata quale parametro per il trasferimento di risorse all’Unione e la cui gestione, sia normativa che esecutiva, è di interesse comunitario e come tale sottoposta a vincoli. Da ciò consegue la non predicabilità della esclusione della falcidia dell’IVA anche per i concordati cui non sia applicabile ratione temporis la recente modifica legislativa sul punto.

Poiché tuttavia la proposta di concordato di cui si tratta non ha seguito la via della transazione fiscale (in relazione alla quale la disposizione espressamente si applica) la questione che si pone è se l’intangibilità dell’IVA sussista solo se viene attivato detto procedimento oppure se sia indipendente dell’opzione del debitore e quindi si imponga anche nel caso in cui la transazione speciale non venga perseguita ma la proposta tratti il fisco come ogni altro creditore, come è avvenuto nella fattispecie.

La soluzione è ravvisabile nel secondo corno del dilemma.

Innanzitutto può osservarsi, in linea generale, che non avrebbe alcuna giustificazione logica e che quindi non sia credibile che il legislatore abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del debitore assoggettarsi all’onere dell’integrale pagamento dell’IVA, imposta armonizzata a livello comunitario sulla cui gestione, si ribadisce, gli Stati non sono esenti da vincoli (si veda Corte giustizia CE, sez. 5^, 11/12/2008, n. 174), optando per la transazione fiscale oppure avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo per il concordato senza transazione e quindi rimanendo vincolato solo all’obbligo di pagare integralmente il debito nei limiti del valore dei beni sui quali grava la garanzia, peraltro spesso insussistenti come nel caso di imposta gravante sul valore della prestazione di servizi.

A parte tale considerazione, ciò che convince dell’inderogabilità della disposizione qualunque sia l’opzione del creditore è la natura della stessa in quanto non si tratta di norma processuale come tale connessa allo specifico procedimento di transazione fiscale ma di norma sostanziale in quanto attiene al trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi.

In proposito, ed in ciò deve correggersi la motivazione dell’impugnata decisione, deve escludersi che la necessità dell’integrale pagamento dell’IVA comporti quella dell’integrale pagamento di tutti i crediti privilegiati con grado anteriore in ossequio al principio secondo cui “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione” (L. Fall., art. 160, comma 2, u.p.).

Prescindendo dalla considerazione che dando decisiva rilevanza a tale disposizione la questione non si porrebbe nel concordato senza classi in quanto la falcidia dei crediti privilegiati non comporta necessariamente la suddivisione dei creditori in classi se per la parte in chirografo il trattamento è identico per tutti ed uguale a quello dei crediti originariamente chirografari per il solo fatto che vi sono crediti da pagarsi integralmente (perché in prededuzione o privilegiati capienti), ciò che rileva è l’erroneo richiamo alla disciplina della graduazione dei crediti. La disposizione che sostanzialmente esclude il credito IVA da quelli che possono formare oggetto di transazione, quanto meno in ordine all’ammontare del pagamento, è una disposizione eccezionale che, come si è osservato, attribuisce al credito in questione un trattamento peculiare e inderogabile. La norma invocata dalla Corte d’appello (art. 160, comma 2) attiene, per contro, unicamente al trattamento aggiuntivo rispetto a quello imposto ex lege (ancorato al valore dei beni oggetto della garanzia) che viene deciso discrezionalmente dal debitore ma che trova appunto un limite nel rispetto del grado di rilevanza attribuito dal legislatore ai diversi crediti in ragione del valore sociale della loro causa. Il vincolo, per contro, non astringe il legislatore che può, come nella fattispecie e per cause discrezionalmente individuate, attribuire un trattamento particolare a determinati crediti come avviene per la prededuzione, senza che ciò incida automaticamente sul trattamento degli altri.

Diversamente opinando, tra l’altro, si dovrebbe attribuire al legislatore se non l’intento quantomeno l’accettazione del rischio di rendere in molti casi sostanzialmente inattuabile il percorso concordatario in quanto, tenuto conto del basso grado di privilegio dell’IVA, la necessità di proporne l’integrale pagamento comporterebbe l’analoga necessità per tutti i crediti privilegiati, anche non tributari, rendendo oltretutto priva di contenuto la stessa transazione fiscale.

È appena il caso di ribadire, infine, che l’obbligo dell’integrale (anche se dilazionato) pagamento dell’IVA non comporta l’inderogabile accoglimento della pretesa fiscale in quanto nell’ambito del concordato senza transazione fiscale resta ferma la facoltà del contribuente di opporsi alla stessa, così che è solo l’imposta definitivamente accertata che è soggetta al vincolo richiamato.

Il motivo deve dunque essere accolto e in relazione allo stesso cassata la sentenza impugnata.

La circostanza che la proposta concordataria, pur ammissibile sotto il profilo del mancato ricorso alla transazione fiscale, sia invece inammissibile a causa della previsione del parziale pagamento del debito per IVA, rimasta immodificata in corso di procedura, consente di decidere la causa nel merito e quindi di dichiarare inammissibile la domanda di concordato.

La novità delle questioni trattate induce all’integrale compensazione delle spese dell’intero giudizio.

 

P.Q.M.

 

fa Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara inammissibile la domanda di concordato preventivo proposta dalla Il Guercino s.r.l.; compensa le spese dell’intero giudizio.

 

 

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