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Concordato crediti tributari ivaIl
concordato preventivo correttamente omologato obbliga
tutti i creditori, incluso l’erario, con conseguente
falcidia dei crediti tributari – eccezion fatta che per
i crediti IVA – pur in assenza dell’attivazione, da
parte del proponente il concordato, dello specifico
procedimento che regola la transazione fiscale (art.
182-ter L.F.).
Secondo i giudici del Palazzaccio
non solo il consenso del fisco non è indispensabile per
l’omologazione del concordato ma la falcidia del credito
fiscale può intervenire anche in presenza del voto
contrario dell’Amministrazione.
Alla conclusione di cui sopra –
ovviamente di segno opposto alla posizione dell’Agenzia
delle Entrate che in proposito si era pronunciata con la
circolare n. 40/E del 2008 – si perviene dalla lettura
delle disposizioni della Legge Fallimentare,
segnatamente degli articoli 160 e, soprattutto, 184 del
R.D. 267/42. Se il primo consente a che l’imprenditore
che si trova in stato di crisi possa proporre ai
creditori un concordato preventivo il secondo,
enunciando gli effetti della procedura, sancisce che “il
concordato omologato è obbligatorio per tutti i
creditori anteriori al decreto di apertura della
procedura di concordato”.
Secondo la Corte «La tassatività
della disposizione, e quindi l’affermazione del
principio secondo il quale l’assetto dei crediti (inteso
quale definizione della percentuale di pagamento o delle
modalità alternative di soddisfacimento) quale emerge
dalla proposta omologata obbliga tutti i creditori
indipendentemente non solo dal loro voto favorevole o
contrario ma dalla stessa loro partecipazione al
procedimento, porta ad escludere la possibilità di un
particolare statuto per il fisco, non essendo revocabile
in dubbio che un’eccezione al principio, se voluta e per
le conseguenze pratiche che comporta, sarebbe stata
espressamente inserita dal legislatore in occasione
della formulazione della disposizione dedicata alla
materia».
Ma nel corpo motivazionale della
sentenza sono individuate ulteriori considerazioni che
rafforazano una tale conclusione:
il voto negativo del fisco che
escludesse di per sé la possibilità di omologazione del
concordato contrasterebbe con i principi del giusto
processo, che vogliono vengano evitate attività
processuali non necessarie;
costituirebbe una palese
incongruenza l’attribuzione di un peso determinante alla
volontà dell’Amministrazione finanziaria pur quando, ad
esempio, dovesse votare contro anche in presenza di una
proposta conforme alle sue aspettative semplicemente per
la ritenuta non fattibilità del piano;
la sostanziale attribuzione del
diritto di veto al fisco renderebbe assai più difficile
l’accesso al concordato in quanto il debitore sarebbe
tenuto ad accettare in toto le pretese fiscali per poter
accedere alla transazione e ciò in contrasto con la
volontà del legislatore di valorizzare e favorire la
soluzione concordataria;
In conclusione è stato affermato
che «la votazione contraria da parte
dell’Amministrazione finanziara non impedisce
l’omologazione del concordato se è comunque raggiunta la
prescritta maggioranza».
Diversamente, con riguardo
all'imposta sul valore aggiunto ed alle ritenute operate
e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente
la dilazione del pagamento.
Con il D.L. 29 novembre 2008, n.
185, art. 32, è stato modificato l’art. 182 ter, comma 1
L.F., tra l’altro introducendo la precisazione secondo
la quale “con riguardo all’imposta sul valore aggiunto,
la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione
dei pagamento”, disposizione in seguito estesa anche
alla ritenute previdenziali effettuate e non versate.
La disposizione ha troncato ogni
discussione in corso circa la ricomprensione o meno
dell’IVA tra “i tributi costituenti risorse proprie
dell’Unione Europea” esclusi dalla possibilità di
falcidia fin dall’originaria formulazione della norma.
La norma, che sostanzialmente
esclude il credito IVA da quelli che possono formare
oggetto di transazione quanto meno in ordine
all’ammontare del pagamento, è una disposizione
eccezionale che attribuisce al credito in questione un
trattamento peculiare e inderogabile.
L’intangibilità dell’IVA sussiste
non solo se viene attivato il peculiare procedimento
della transazione fiscale di cui all’art. 183 L.F. ma
anche nel caso in cui la transazione speciale non venga
perseguita ma la proposta di concordato tratti il fisco
come ogni altro creditore (cosa che è avvenuta nella
fattispecie).
Non avrebbe alcuna giustificazione
logica che il legislatore abbia inteso lasciare alla
scelta discrezionale del debitore di assoggettarsi o
meno all’onere dell’integrale pagamento dell’IVA optando
per la transazione fiscale oppure avvalendosi della
possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo
per il concordato senza transazione e quindi rimanendo
vincolato solo all’obbligo di pagare integralmente il
debito nei limiti del valore dei beni sui quali grava la
garanzia, peraltro spesso insussistenti come nel caso di
imposta gravante sul valore della prestazione di
servizi.
Avv. Gianluca Lanciano
Cassazione civile, sez. I, 4
novembre 2011, n. 22932-testo
Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate ricorre per
cassazione avverso la decisione della Corte d’appello
che ha rigettato il suo reclamo nei confronti del
decreto con il quale il Tribunale ha omologato la
proposta di concordato preventivo presentata da Il
Guercino s.r.l. nonostante l’opposizione proposta dalla
stessa Agenzia.
Il ricorso è affidato a due motivi:
con il primo si deduce violazione della L. Fall., artt.
160 e 182 ter, per avere la Corte ritenuto ammissibile
la proposta di concordato contenente, tra l’altro, la
falcidia dei crediti tributari benchè non fosse stato
effettuato io specifico interpello dell’ufficio fiscale
previsto nella L. Fall., art. 182 ter; con il secondo si
deduce violazione ancora della L. Fall., artt. 160 e 182
ter, per avere la Corte territoriale ritenuto
ammissibile la falcidia anche del credito per IVA,
costituente risorsa propria della Comunità Europea e
possibile oggetto di transazione unicamente quanto ai
tempi di pagamento.
Resiste la sola società proponente
il concordato che ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione
Deve essere preliminarmente
valutata la questione sollevata dalla controricorrente,
ma in ogni caso rilevabile d’ufficio, attinente
all’ammissibilità e comunque alla tempestività del
ricorso.
A differenza di quanto previsto in
tema di reclamo avverso il decreto di omologazione del
concordato fallimentare (L. Fall., art. 131), il
legislatore non ha disciplinato compiutamente l’analogo
procedimento nell’ambito del concordato preventivo,
limitandosi a disporre che “Contro il decreto del
tribunale può essere proposto reclamo alla corte di
appello, la quale pronuncia in camera di consiglio.
Con lo stesso reclamo è impugnabile
la sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente
emessa a norma dell’art. 180, comma 7” (art. 183).
Deve innanzitutto escludersi che
possa essere applicata per analogia la particolare
disciplina dettata per il concordato fallimentare (L.
Fall., art. 131) secondo la quale il decreto della corte
d’appello è ricorribile per cassazione entro il termine
di trenta giorni dal compimento delle formalità di cui
alla L. Fall., art. 17, in quanto il legislatore ha
dettato una specifica disposizione sul punto per il
concordato preventivo e non è pensabile che, nel momento
in cui è intervenuto con lo stesso provvedimento (il
D.Lgs. n. 169 del 2007) sia sull’art. 131 che sull’art.
183, non si sia avveduto della diversa formulazione e si
sia affidato solo al richiamato canone ermeneutico per
unificare i procedimenti.
Ciò posto, non vi può essere
comunque dubbio in ordine alla ricorribilità del
provvedimento ai sensi dell’art. 111 Cost., in quanto il
decreto della corte d’appello ha natura di sentenza,
avendo l’attitudine alla definitività ed incidendo su
diritti soggettivi, dal momento che, se comporta
l’omologazione del concordato, determina un diverso
assetto dei diritti di credito coinvolti nella procedura
(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3585 del 14/02/2011; Cass.
Sez. 1, Sentenza n. 15699 del 15/7/2011).
Quanto al termine, una volta
accertata l’inapplicabilità in via analogica del
procedimento di cui alla L. Fall., art. 131, e quindi
dato per ammesso che la diversità dei presupposti
oggettivi in cui interviene l’omologazione (impresa
soggetta a procedura fallimentare in un caso; impresa in
bonis nell’altro) abbia indotto il legislatore, in
assenza di particolari esigenze di sollecitudine, a
ricorrere nel concordato preventivo agli strumenti
ordinari, deve concludersi che il procedimento di
omologazione si svolge secondo il comune rito camerale
di cui all’art. 737 c.p.c. e ss., e di conseguenza che
il termine per il ricorso per cassazione è quello
ordinario di sessanta giorni; in tale fattispecie, detto
termine decorre dalla data di notificazione, così come
già stabilito dalla Corte che ha enunciato il principio
secondo cui: “L’art. 739 c.p.c. - secondo il quale il
provvedimento emesso in camera di consiglio dai
tribunale, se pronunziato in confronto di più parti, è
reclamabile entro dieci giorni dalla notificazione - non
deroga alla regola generale dettata dall’art. 326 del
codice medesimo per le impugnazioni in genere, con la
conseguenza che anche il termine per proporre ricorso
per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso i
decreti pronunziati in camera di consiglio decorre dalla
notificazione del provvedimento: ad un tal riguardo, ai
fini della decorrenza del termine breve ex art. 325
c.p.c., occorre che la notificazione sia eseguita ad
istanza di parte, non essendo sufficiente che la
notificazione sia stata effettuata a cura della
cancelleria del giudice, nel qual caso il ricorso per
cassazione resta soggetto al termine annuale di cui”
(Cassazione civile, sez. 1^, 4/12/2003, n. 18514).
Poiché la notifica del decreto
della Corte d’appello è intervenuta in data 14 aprile
2010 è dunque tempestivo il ricorso notificato in data
11 giugno 2010.
Con il primo motivo di ricorso si
deduce violazione della L. Fall., artt. 160 e 182 ter,
per avere la Corte d’appello ritenuto possibile la
falcidia dei crediti tributari pur in assenza
dell’attivazione, da parte del proponente il concordato,
dello specifico procedimento che regola la transazione
fiscale.
La censura non è fondata anche se,
per le ragioni di cui all’esame del secondo motivo, deve
essere in parte corretta la motivazione del giudice del
reclamo laddove predica la possibilità di falcidia
dell’IVA. La questione, che viene affrontata per la
prima volta dalla Corte e che è stata oggetto di
attenzione da parte della giurisprudenza di merito e
della dottrina, in maggioranza schierate per la
facoltatività della transazione fiscale, contestata
invece dell’Amministrazione che sul punto si è
pronunciata con la Circolare n. 40/E del 2008, non può
certo essere risolta nel senso della non obbligatorietà
dello speciale rito sulla base del mero dato letterale
secondo il quale “con il piano di cui all’art. 160 il
debitore può proporre il pagamento... dei tributi”
(corsivo dell’estensore) che altro non è che la
ripetizione della formula contenuta nel citato art. 160
secondo la quale “L’imprenditore che si trova in stato
di crisi può proporre ai creditori un concordato
preventivo” che chiarisce unicamente che l’accesso
all’indicato istituto è una facoltà per il debitore e
non è quindi sufficiente a supportare un giudizio di
alternatività della transazione fiscale rispetto ad
altro rito volto anch’esso alla falcidia del credito
tributario.
Prima di affrontare la questione è
necessario innanzitutto evidenziare quali variazioni
all’ordinario procedimento concordatario comporti il
ricorso al sub procedimento della transazione fiscale.
Diversi sono innanzitutto gli
obblighi imposti alle parti direttamente interessate e
cioè al debitore e al fisco.
Il primo deve provvedere nei
confronti dell’Amministrazione fiscale (inteso
ricompreso in questa termine per semplicità espositiva
anche il concessionario per la riscossione, ora agente
per la riscossione) ad una formalità alla quale non è
tenuto nei confronti degli altri creditori e cioè alla
comunicazione, contestualmente al deposito del ricorso
per il concordato presso la cancelleria del tribunale,
della copia della domanda e della relativa
documentazione. Tale adempimento è finalizzato a
sollecitare l’ufficio fiscale ad un’attività anch’essa
peculiare che non è invece richiesta agli altri
creditori e cioè a certificare l’ammontare complessivo
del debito tributario mediante la comunicazione di
quello già accertato e di quello conseguente alla
liquidazione delle dichiarazioni, compresa la
dichiarazione integrativa relativa al periodo sino alla
data di presentazione della domanda, “al fine di
consentire il consolidamento del debito fiscale”.
Ben diversi sono anche gli affetti
dell’omologazione del concordato contenente la raggiunta
transazione fiscale.
In primo luogo si “consolida” il
debito tributario. Tale formulazione, che è
evidentemente atecnica in quanto nel tessuto normativo
con detta espressione viene definita una modalità
opzionale di calcolo della tassazione dei redditi di un
gruppo di imprese (art. 117 e segg. TUIR), ha di
conseguenza nella disposizione in esame un significato,
che può essere anche complesso, non ancora univocamente
definito. Certamente e come è unanimemente riconosciuto
la prima accezione è quella di quadro di insieme del
debito tributario, tale da consentire di valutare la
congruità della proposta con riferimento alle risorse
necessarie a far fronte al complesso dei debiti ed è
certamente utile a fronteggiare l’incognita fiscale che
normalmente grava sui concordati. Altro e concorrente
possibile significato dell’espressione sul quale si è
interrogata la dottrina e che viene qui richiamato solo
per completezza espositiva, non essendo materia del
contendere, è quello secondo cui tale quadro del debito
complessivo cristallizzerebbe la pretesa tributaria alla
data di presentazione della domanda così come
quantificata dall’ufficio con esclusione da una parte
della facoltà del medesimo di procedere ad ulteriori
accertamenti anche se non sia ancora maturata la
decadenza e dall’altra del debitore di contestare
pretese anche se non ancora definitive.
Positivamente fissata dalla norma,
invece, quale conseguenza dell’omologazione dell’accordo
anche sul debito tributario, è l’estinzione dei giudizi
in corso aventi ad oggetto i tributi concordati,
effetto, questo, che non si verifica per gli altri
creditori i quali quando votano sulla proposta
concordataria sostanzialmente formulano il loro consenso
solo in relazione alla percentuale o alle modalità di
soddisfacimento prospettate ma possono non solo
proseguire l’eventuale contenzioso in corso ma iniziarlo
anche ex novo se in disaccordo con l’ammontare o la
qualità dei crediti indicati nella domanda.
In definitiva, dunque, ben diverse
sono le conseguenze tra un concordato senza transazione
fiscale nel quale il fisco sia trattato come qualunque
altro creditore ed uno, invece, in cui la transazione
venga perseguita con le modalità indicate e quindi ben
diversi sono vantaggi e svantaggi delle due soluzioni.
Con la transazione fiscale il
debitore ottiene il vantaggio della apprezzabile o
assoluta certezza sull’ammontare del “debito (a seconda
del significato che si vuole attribuire al
consolidamento) e quindi una maggiore trasparenza e
leggibilità della proposta con conseguente maggiore
probabilità di ottenere, oltre all’assenso del fisco,
anche quello degli altri creditori. Tutto ciò ha però un
costo che è dato dalla sostanziale necessità di
accogliere tutte le pretese dell’Amministrazione, non
essendo plausibile che la stessa, dopo aver indicato il
proprio credito, accetti in questa sede di discuterlo e
ridurlo.
Escludendo il ricorso alla
transazione fiscale il debitore non ottiene i richiamati
benefici ma può optare per la contestazione della
pretesa erariale in vista di un minore esborso se gli
importi in contestazione non incidono in modo rilevante
e se quindi il consenso del fisco non è decisivo ai fini
del raggiungimento della maggioranza.
Ma non vi è dubbio che l’esame
della possibilità dell’alternativa presuppone
innanzitutto che si accerti se il consenso del fisco sia
comunque indispensabile per l’omologazione del
concordato o se la falcidia del credito fiscale possa
intervenire anche in presenza del voto contrario
dell’Amministrazione.
Il quesito deve essere risolto nel
senso della seconda alternativa.
Decisivo è in proposito il disposto
della L. Fall., art. 184, laddove, enunciando gli
effetti del concordato, sancisce che “il concordato
omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori
al decreto di apertura della procedura di concordato. La
tassatività della disposizione, e quindi l’affermazione
del principio secondo il quale l’assetto dei crediti
(inteso quale definizione della percentuale di pagamento
o delle modalità alternative di soddisfacimento) quale
emerge dalla proposta omologata obbliga tutti i
creditori indipendentemente non solo dal loro voto
favorevole o contrario ma dalla stessa loro
partecipazione al procedimento, porta ad escludere la
possibilità di un particolare statuto per il fisco, non
essendo revocabile in dubbio che un’eccezione al
principio, se voluta e per le conseguenze pratiche che
comporta, sarebbe stata espressamente inserita dal
legislatore in occasione della formulazione della
disposizione dedicata alla materia.
D’altra parte ulteriori
considerazioni portano alla stessa conclusione e in
primo luogo quella secondo cui se il voto negativo del
fisco escludesse di per sé la possibilità di
omologazione del concordato non avrebbe senso e
contrasterebbe con i principi del giusto processo, che
vogliono anche che vengano evitate attività processuali
non necessarie, far votare l’Amministrazione unitamente
a tutti gli altri creditori quando la sua volontà e
quindi l’eventuale veto ben potrebbero essere accertati
preliminarmente rendendo inutile l’ulteriore corso.
Oltre a ciò, e senza considerare
l’incongruenza di attribuire un peso determinante alla
volontà dell’Amministrazione pur quando, ad esempio,
voti contro anche in presenza di una proposta conforme
alle sue aspettative semplicemente per la ritenuta non
fattibilità del piano, non può ignorarsi una
considerazione di carattere generale e cioè che la
sostanziale attribuzione del diritto di veto al fisco
renderebbe assai più difficile l’accesso al concordato
in quanto il debitore sarebbe tenuto ad accettare in
toto ie pretese fiscali per poter accedere alla
transazione e questo non si concilia con l’evidente
volontà del legislatore di valorizzare e favorire la
soluzione concordataria anche sacrificando forme di
tutela prima presenti, come dimostra, ad esempio,
l’eliminazione della doppia maggioranza.
Accertato dunque che la votazione
non favorevole da parte dell’Amministrazione non
impedisce l’omologazione del concordato se è comunque
raggiunta la prescritta maggioranza e prima di trame le
conseguenze in ordine al quesito in discussione è
opportuno rilevare che il richiamo alla preferenza per
il ricorso al concordato quale mezzo per affrontare la
crisi dell’impresa sarebbe di per sè sufficiente a porre
in dubbio l’obbligatorietà della transazione fiscale in
quanto era assolutamente pacifico nella vigenza della
disciplina del concordato antecedente alla stagione
delle riforme che anche il credito tributario potesse
essere oggetto di falcidia (ovviamente se chirografario)
e che, più in generale, il fisco potesse essere trattato
come qualunque altro creditore. Se dunque si predicasse
l’obbligatorietà della transazione fiscale con ciò che
comporta in termini di sostanziale assoggettamento alla
pretesa erariale la possibilità del debitore di accesso
al concordato ne verrebbe grandemente pregiudicata in
stridente contrasto con le intenzioni del legislatore.
A parte tale considerazione è
comunque l’accertata irrilevanza (nei termini sopra
chiariti) del voto dell’ufficio che convince della
facoltatività dei ricorso alla transazione fiscale.
A riprova è sufficiente valutare i
possibili sviluppi della procedura nell’ipotesi in cui
lo speciale subprocedimento venga invece attivato.
In primo luogo è possibile che, pur
sollecitata dalla comunicazione di copia della domanda
di concordato, l’Amministrazione semplicemente non si
attivi trasmettendo la richiesta documentazione. Poiché
evidentemente il procedimento non può subire
un’interruzione per l’inadempienza dell’ufficio si deve
procedere ugualmente agli ulteriori adempimenti e quindi
alla votazione e, se la maggioranza è comunque
raggiunta, al giudizio di omologazione il cui esito,
come chiarito, non può essere condizionato dalla
mancanza dei voto favorevole dell’erario.
Un esito analogo si verifica se
l’ufficio adempie al proprio obbligo ma il contribuente
debitore ritiene di non doversi adeguare alla pretesa e
quindi non modifica la proposta (se non appostando una
congrua riserva) manifestando l’intenzione di proseguire
nell’eventuale contenzioso in corso e di volersi opporre
ad eventuali ulteriori pretese. Tale atteggiamento
sarebbe infatti perfettamente lecito, non potendosi
evidentemente subordinare ex lege l’omologabilità del
concordato alla rinuncia del debitore a difendersi nei
confronti del creditore-fisco né potendo tale rinuncia
ritenersi implicita nella richiesta di transazione
fiscale quando ancora il quadro delle pretese
(consolidamento) non è definito.
Stesso esito, infine, se i conteggi
del debitore e del fisco coincidono o se il secondo
comunque si adegua alla pretesa risultante dal
consolidamento ma l’erario esprime ugualmente voto non
favorevole, ipotesi, questa, possibile in quanto non può
negarsi al fisco la facoltà di non aderire alla proposta
vuoi perché ritiene non soddisfacente il trattamento
prospettato e più favorevole l’ipotesi fallimentare,
vuoi perché giudica non fattibile il piano.
In tutti questi casi, non essendo
dirimente il voto erariale, il concordato, sussistendo
gli altri presupposti, può comunque essere omologato con
la conseguenza che il fisco deve accettare l’esito del
procedimento come ogni altro creditore, fermo restando
che la mancata adesione al concordato comporta il non
verificarsi dei particolari effetti della transazione
fiscale (consolidamento del debito inteso come non
modificabile manifestazione della pretesa ed estinzione
dei giudizi in corso) che sono chiaramente subordinati
all’omologazione, in uno con il concordato, della
connessa transazione fiscale, non potendo né il debitore
né il fisco rimanere pregiudicati nei rispettivi diritti
se non hanno concordemente accettato l’assetto degli
interessi che tale pregiudizio giustifica.
Ma se così è, e se quindi pur in
presenza di un tentativo di transazione fiscale non
riuscito il concordato può essere ugualmente omologato,
non è dato intendere perché un tale tentativo debba
comunque essere effettuato se il debitore ritiene ab
origine di non voler perseguire alcun accordo
particolare col fisco perché già ne conosce le pretese,
le ritiene infondate ed è disposto a correre il rischio
del voto contrario dell’ufficio.
La ritenuta obbligatorietà della
transazione fiscale, intesa come necessario interpello
dell’erario, pur in presenza della volontà del debitore
di non voler accettare di pagare un debito superiore a
quello già considerato nella proposta presuppone la
dimostrazione dell’esistenza di un interesse concreto e
degno di tutela dell’Amministrazione ad essere comunque
sollecitata a svolgere le attività previste dall’art.
182 ter, interesse che non è dato ravvisare, posto che
l’ufficio, pur in assenza dell’interpello, non viene
minimamente pregiudicato nel suo diritto di evidenziare
compiutamente le sue pretese (anche in sede di adunanza
e ai fini del voto) e di perseguirne l’accertamento
prima e il soddisfacimento poi.
Né vale, infine, il richiamo al
principio dell’indisponibilità del credito tributario
dal momento che tale indisponibilità esiste nella misura
in cui la legge non vi deroghi e non sono certo estranei
all’ordinamento ipotesi di rinuncia dell’Amministrazione
all’accertamento (condoni c.d. tombali) o alla completa
esazione dell’accertato in vista di finalità
particolari, fermo restando che la richiamata carenza di
interesse alla particolare modalità procedimentale di
cui all’art. 182 ter, esclude la necessaria connessione
tra detta modalità e la falcidia.
Il primo motivo deve dunque essere
rigettato.
Con il secondo motivo si deduce
violazione della L. Fall., artt. 160 e 182 ter, per
avere ritenuto ammissibile il giudice del merito la
falcidia del credito relativo all’imposta sul valore
aggiunto (IVA) nell’ambito di un concordato senza
transazione fiscale.
La censura è fondata.
Con il D.L. 29 novembre 2008, n.
185, art. 32, è stato modificato la L. Fall., art. 182
ter, comma 1, e tra l’altro è stata introdotta la
precisazione secondo la quale “con riguardo all’imposta
sul valore aggiunto, la proposta può prevedere
esclusivamente la dilazione dei pagamento”, disposizione
in seguito estesa anche alla ritenute previdenziali
effettuate e non versate.
La disposizione ha troncato la
discussione in corso circa la ricomprensione o no
dell’IVA tra “i tributi costituenti risorse proprie
dell’Unione Europea” esclusi dalla possibilità di
falcidia fin dall’originaria formulazione della norma e
ritiene il Collegio che la stessa, in realtà, si ponga
su di un piano di continuità con il primitivo dettato
legislativo (per l’analogo rapporto tra riforma e
decreto correttivo: Cass. civ. sent. n. 22150/10)
chiarendone e confermandone l’interpretazione e che
quindi pure questo si riferisse anche all’IVA, dovendosi
intendere il richiamo a tributo come risorsa riferito
non già al gettito effettivo (venendo in realtà il
contributo per IVA calcolato prescindendo da questo)
bensì alla specie di tributo individuata quale parametro
per il trasferimento di risorse all’Unione e la cui
gestione, sia normativa che esecutiva, è di interesse
comunitario e come tale sottoposta a vincoli. Da ciò
consegue la non predicabilità della esclusione della
falcidia dell’IVA anche per i concordati cui non sia
applicabile ratione temporis la recente modifica
legislativa sul punto.
Poiché tuttavia la proposta di
concordato di cui si tratta non ha seguito la via della
transazione fiscale (in relazione alla quale la
disposizione espressamente si applica) la questione che
si pone è se l’intangibilità dell’IVA sussista solo se
viene attivato detto procedimento oppure se sia
indipendente dell’opzione del debitore e quindi si
imponga anche nel caso in cui la transazione speciale
non venga perseguita ma la proposta tratti il fisco come
ogni altro creditore, come è avvenuto nella fattispecie.
La soluzione è ravvisabile nel
secondo corno del dilemma.
Innanzitutto può osservarsi, in
linea generale, che non avrebbe alcuna giustificazione
logica e che quindi non sia credibile che il legislatore
abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del
debitore assoggettarsi all’onere dell’integrale
pagamento dell’IVA, imposta armonizzata a livello
comunitario sulla cui gestione, si ribadisce, gli Stati
non sono esenti da vincoli (si veda Corte giustizia CE,
sez. 5^, 11/12/2008, n. 174), optando per la transazione
fiscale oppure avvalersi della possibilità di proporne
un pagamento parziale decidendo per il concordato senza
transazione e quindi rimanendo vincolato solo
all’obbligo di pagare integralmente il debito nei limiti
del valore dei beni sui quali grava la garanzia,
peraltro spesso insussistenti come nel caso di imposta
gravante sul valore della prestazione di servizi.
A parte tale considerazione, ciò
che convince dell’inderogabilità della disposizione
qualunque sia l’opzione del creditore è la natura della
stessa in quanto non si tratta di norma processuale come
tale connessa allo specifico procedimento di transazione
fiscale ma di norma sostanziale in quanto attiene al
trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione
concorsuale dettata da motivazioni che attengono alla
peculiarità del credito e prescindono dalle particolari
modalità con cui si svolge la procedura di crisi.
In proposito, ed in ciò deve
correggersi la motivazione dell’impugnata decisione,
deve escludersi che la necessità dell’integrale
pagamento dell’IVA comporti quella dell’integrale
pagamento di tutti i crediti privilegiati con grado
anteriore in ossequio al principio secondo cui “il
trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere
l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di
prelazione” (L. Fall., art. 160, comma 2, u.p.).
Prescindendo dalla considerazione
che dando decisiva rilevanza a tale disposizione la
questione non si porrebbe nel concordato senza classi in
quanto la falcidia dei crediti privilegiati non comporta
necessariamente la suddivisione dei creditori in classi
se per la parte in chirografo il trattamento è identico
per tutti ed uguale a quello dei crediti originariamente
chirografari per il solo fatto che vi sono crediti da
pagarsi integralmente (perché in prededuzione o
privilegiati capienti), ciò che rileva è l’erroneo
richiamo alla disciplina della graduazione dei crediti.
La disposizione che sostanzialmente esclude il credito
IVA da quelli che possono formare oggetto di
transazione, quanto meno in ordine all’ammontare del
pagamento, è una disposizione eccezionale che, come si è
osservato, attribuisce al credito in questione un
trattamento peculiare e inderogabile. La norma invocata
dalla Corte d’appello (art. 160, comma 2) attiene, per
contro, unicamente al trattamento aggiuntivo rispetto a
quello imposto ex lege (ancorato al valore dei beni
oggetto della garanzia) che viene deciso
discrezionalmente dal debitore ma che trova appunto un
limite nel rispetto del grado di rilevanza attribuito
dal legislatore ai diversi crediti in ragione del valore
sociale della loro causa. Il vincolo, per contro, non
astringe il legislatore che può, come nella fattispecie
e per cause discrezionalmente individuate, attribuire un
trattamento particolare a determinati crediti come
avviene per la prededuzione, senza che ciò incida
automaticamente sul trattamento degli altri.
Diversamente opinando, tra l’altro,
si dovrebbe attribuire al legislatore se non l’intento
quantomeno l’accettazione del rischio di rendere in
molti casi sostanzialmente inattuabile il percorso
concordatario in quanto, tenuto conto del basso grado di
privilegio dell’IVA, la necessità di proporne
l’integrale pagamento comporterebbe l’analoga necessità
per tutti i crediti privilegiati, anche non tributari,
rendendo oltretutto priva di contenuto la stessa
transazione fiscale.
È appena il caso di ribadire,
infine, che l’obbligo dell’integrale (anche se
dilazionato) pagamento dell’IVA non comporta
l’inderogabile accoglimento della pretesa fiscale in
quanto nell’ambito del concordato senza transazione
fiscale resta ferma la facoltà del contribuente di
opporsi alla stessa, così che è solo l’imposta
definitivamente accertata che è soggetta al vincolo
richiamato.
Il motivo deve dunque essere
accolto e in relazione allo stesso cassata la sentenza
impugnata.
La circostanza che la proposta
concordataria, pur ammissibile sotto il profilo del
mancato ricorso alla transazione fiscale, sia invece
inammissibile a causa della previsione del parziale
pagamento del debito per IVA, rimasta immodificata in
corso di procedura, consente di decidere la causa nel
merito e quindi di dichiarare inammissibile la domanda
di concordato.
La novità delle questioni trattate
induce all’integrale compensazione delle spese
dell’intero giudizio.
P.Q.M.
fa Corte accoglie il secondo motivo
di ricorso, rigetta il primo, cassa il decreto impugnato
in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito,
dichiara inammissibile la domanda di concordato
preventivo proposta dalla Il Guercino s.r.l.; compensa
le spese dell’intero giudizio.
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Cassazione civile, sez. I, 4 novembre 2011, n. 22932 |