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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 16 dicembre 2010 - 5
aprile 2011, n. 13626
Svolgimento del processo
1. Le sentenze di merito.
1.1. Oggetto del presente
procedimento è la partecipazione degli imputati ad una
associazione finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti, operante dalla fine degli anni ottanta al
mese di luglio del 1994 tra la Calabria, la Campania ed
il Lazio, che ruotava intorno alla figura di L.U.G.,
coadiuvato dai fratelli Fr. e Pa.Cl., nonchè la
commissione da parte degli imputati dei reati-fine della
predetta associazione.
L'esistenza dell'illecito sodalizio
era stata accertata nel processo a carico di L. e dei
Pa., definito, all'esito del rito abbreviato, con
sentenza del 16 giugno 1999, dal Giudice della udienza
preliminare del Tribunale di Reggio Calabria, confermata
in appello il 23 aprile 2001 e divenuta esecutiva il 19
luglio 2001;
tale sentenza veniva acquisita agli
atti del presente processo ai sensi dell'art. 238-bis
cod. proc. pen..
Nel procedimento a carico degli
imputati, il L. e i Pa., divenuti collaboratori di
giustizia, venivano escussi a norma dell'art. 197-bis
c.p.p., comma 1.
A seguito dell'accoglimento da
parte del Presidente del tribunale della dichiarazione
di astensione operata dai componenti del collegio che
aveva fino ad allora condotto il dibattimento, alla
udienza del 21 febbraio 2003, il Tribunale di Locri, in
diversa composizione, disponeva la rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale mediante lettura, ex
art. 511 cod. proc. pen., degli atti di prova orale già
espletati, in assenza della dichiarazione di
conservazione di efficacia degli atti ex art. 42 c.p.p.,
comma 2.
Successivamente si verificava un
altro mutamento del collegio ed il Tribunale, nella
diversa composizione, disponeva rinnovazione della
istruttoria dibattimentale mediante lettura degli atti
di prova orale in precedenza espletati.
1.2. Con sentenza emessa il 21
gennaio 2001, il Tribunale di Locri dichiarava gli
imputati colpevoli del reato associativo - ad eccezione
dello S., assolto per non aver commesso il fatto - e
degli altri reati rispettivamente ascritti per
detenzione, acquisto e cessione di sostanze
stupefacenti.
1.3. In parziale riforma della
sentenza di primo grado, in data 14 marzo 2007, la Corte
di appello di Reggio Calabria, dopo avere rigettato
alcune eccezioni processuali concernenti la nullità
della sentenza di primo grado per inutilizzabilità degli
atti assunti dallo iudex suspectus, non essendovi stata
la declaratoria di efficacia di cui all'art. 42 c.p.p.,
comma 2, e di inutilizzabilità delle intercettazioni
telefoniche, effettuate in altro procedimento, per
mancanza dei decreti autorizzativi, rigettava l'appello
del P., assolveva T.S. dai reati di cui ai capi C3 e D3
per insussistenza del fatto, determinando la pena per i
residui reati, e riduceva la pena inflitta agli altri
imputati.
2. I motivi dei ricorsi.
2.1. D.M. deduceva:
a) la violazione dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione all'art.
42 c.p.p., comma 2, art. 525 c.p.p., comma 2 e art.
190-bis cod. proc. pen. e, con riferimento agli artt.
178 e 179 cod. proc. pen., perchè il Presidente del
tribunale, nell'accogliere la dichiarazione di
astensione, aveva omesso di dichiarare, ai sensi
dell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2, quali atti già
compiuti dal giudice astenutosi conservassero efficacia;
cosicchè il collegio del Tribunale di Locri che
conduceva il dibattimento non avrebbe potuto ritenere,
sia pure con il consenso delle parti, utilizzabili atti
per i quali era stata omessa la declaratoria di
efficacia da parte del presidente del tribunale.
Deduceva, inoltre, il ricorrente
che alla udienza del 22 gennaio 2003, nel corso della
quale furono acquisiti e dichiarati utilizzabili ai fini
della decisione gli atti, era privo di difensore sia di
fiducia che di ufficio. b) la violazione dell'art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione agli artt. 192 e
238-bis cod. proc. pen. ed al D.P.R. n. 309 del 1990,
artt. 73 e 74 e della L. n. 685 del 1975, art. 71 nonchè
art. 81 cod. pen., perchè, per ritenere il delitto
associativo, la corte di merito avrebbe valorizzato sic
et simpliciter, senza alcuna ulteriore indagine e senza
l'acquisizione di riscontri, la sentenza passata in
giudicato, con la quale era stata accertata l'esistenza
di una associazione dedita al traffico di sostanze
stupefacenti composta da L. e dai due fratelli Pa., i
quali, peraltro, esaminati nel presente processo,
avevano smentito di essersi associati, affermando che
"ciascuno agiva per se".
Inoltre il ricorrente lamentava: 1)
la omessa motivazione sulla esistenza di legami con tale
M.N., che aveva inviato vaglia postali a (OMISSIS)
ritenuti pagamento di partite di droga, 2) la
irrilevanza dell'arresto di esso ricorrente in data 5
settembre 1989 per possesso di modeste quantità di
cocaina, trattandosi di tossicodipendente, 3) la omessa
motivazione sul luogo di costituzione dell'associazione
ed il fatto che non fosse stata ritenuta, tutto al più,
una ipotesi di concorso continuato in cessioni di droga
e non di delitto associativo, 4) la inattendibilità
delle dichiarazioni del L., 5) la contraddittorietà
della motivazione laddove in una parte si sosteneva che
la partecipazione al sodalizio criminale non poteva
essere desunta da una serie di operazioni compiute con
le stesse persone, ma dalla coscienza di fare parte di
una associazione, ed in un'altra che nel caso in esame
la partecipazione era desunta dalla straordinaria
stabilità e continuità dei rapporti, 6) la omessa
motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i
reati-fine. c) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma
1, lett. e), in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod.
pen., per non avere la corte di merito tenuto conto
dello stato di tossicodipendenza, cui andava attribuito
rilievo maggiore rispetto ai precedenti penali.
2.2. T.S. deduceva i seguenti
motivi di impugnazione:
a) la erronea applicazione della L.
n. 685 del 1975, art. 75 e D.P.R. n. 309 del 1990, art.
74 perchè era stato ritenuto il delitto associativo pur
in assenza dei caratteri della organicità e stabilità
del vincolo. b) la violazione degli articoli indicati
nel precedente motivo in relazione ai requisiti della
condotta partecipativa, avendo i giudici del merito
ritenuto penalmente rilevante una mera adesione
psicologica alla associazione in difetto del riscontro
costituito dalla partecipazione a reati-fine; le
condotte accertate potrebbero piuttosto configurare il
delitto di favoreggiamento. c) la manifesta illogicità
della motivazione in relazione agli artt. citati nel
primo motivo di impugnazione, nonchè all'art. 192 cod.
proc. pen. per essersi i giudici del merito limitati a
recepire, quanto alla esistenza della associazione, le
conclusioni cui era pervenuta la sentenza resa dal
G.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria il 16 giugno
1999 ed a richiamare per relationem le considerazioni
del primo giudice; lamentava, inoltre, il ricorrente le
numerose contraddizioni ravvisabili nelle dichiarazioni
dei collaboratori di giustizia.
2.3. C.T. deduceva:
a) il vizio di motivazione e la
inosservanza dell'art. 511 c.p.p., comma 2 e art. 525
c.p.p., comma 2, perchè sia alla udienza del 21 febbraio
2003 che a quella del 21 aprile 2004, nelle quali,
essendo mutato il collegio, veniva disposta la
rinnovazione della istruttoria dibattimentale e, previo
consenso delle parti, veniva dichiarata la
utilizzabilità degli atti assunti in precedenza, il
difensore di fiducia della ricorrente era assente per
legittimo impedimento. b) il vizio della motivazione e
la violazione dell'art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p.,
commi 1 e 3, perchè i risultati delle intercettazioni
telefoniche della utenza (OMISSIS), assunte in altro
processo, erano inutilizzabili per omesso deposito da
parte della procura della Repubblica dei decreti
autorizzativi e dei verbali, essendo stati, peraltro,
dichiarati inutilizzabili con sentenza del Tribunale di
Roma del 3 ottobre 1996; la Corte di merito sul punto si
era limitata ad affermare che la prova della
inutilizzabilità avrebbe dovuto essere fornita dalla
appellante. c) il vizio di motivazione e la inosservanza
di norme penali perchè le dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia L. e fratelli Pa. erano
contraddittorie e nelle stesse non erano contenute
accuse nei confronti della C.; inoltre non vi era la
prova della coscienza e volontà della C. di far parte di
una associazione per delinquere. Infine la ricorrente si
doleva della omessa motivazione in ordine alla richiesta
di revoca della misura di sicurezza della libertà
vigilata per insussistenza della pericolosità sociale.
2.4. S.R. deduceva:
la violazione dell'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), per mancanza e manifesta illogicità
della motivazione, risultando il vizio dal testo del
provvedimento impugnato e dagli altri atti
specificamente indicati nel gravame, perchè la corte di
merito aveva dato rilevanza alle dichiarazioni dei
fratelli Pa. non adeguatamente valutate quanto a
precisione e coerenza, tenuto conto delle numerose
lacune e discrasie riscontrabili nel narrato dei due
collaboratori di giustizia puntualmente indicate dal
ricorrente ed in assenza di validi riscontri esterni.
2.5. P.P. deduceva:
a) la violazione di legge ed il
vizio di motivazione in relazione all'art. 192 c.p.p. e
art. 125 c.p.p., comma 3, nonchè art. 111 Cost., con
riferimento alla L. n. 685 del 1975, art. 75 e D.P.R. n.
309 del 1990, art. 74 nonchè con riferimento alla L. n.
685 del 1975, art. 71, perchè la corte di merito aveva
acriticamente recepito la motivazione del primo giudice.
Il ricorrente denunciava, inoltre,
una serie di illogicità quanto alla valutazione delle
contraddittorie dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia.
Con memoria difensiva del 14
settembre 2010 il ricorrente lamentava anche
"l'improprio utilizzo della sentenza irrevocabile del
G.u.p. di Reggio Calabria del 16 giugno 1999". b) il
vizio di motivazione in relazione all'art. 133 cod. pen.
per la eccessività della pena in relazione alla
evanescenza del quadro probatorio ed alla notevole
risalenza nel tempo delle vicende in discussione.
3. L'ordinanza di rimessione.
3.1. La Sesta sezione penale, alla
quale era stato assegnato il procedimento in
discussione, con ordinanza del 24 settembre 2010,
rimetteva i ricorsi alle Sezioni unite penali.
L'ordinanza di rimessione, con
riferimento al primo motivo di ricorso del D.,
concernente, come già messo in evidenza, la nullità
della sentenza di primo grado perchè fondata sugli atti
dichiarati utilizzabili ai sensi dell'art. 525 c.p.p.,
comma 2 e art. 511 cod. proc. pen., senza previa
dichiarazione del Presidente del tribunale, che aveva
accolto la richiesta di astensione, della efficacia
degli atti compiuti precedentemente dal giudice
astenutosi, ritenuto di "carattere preliminare ed
estensibile a tutti i ricorrenti", segnalava la
esistenza di un contrasto di giurisprudenza.
Secondo un primo indirizzo (Sez. 1,
n. 2799 del 1997, Rv. 207741, Zuccotti, investita per la
soluzione di un conflitto di competenza e Sez. 1, n.
32800 del 2005, Rv. 231889, Di Mauro) "spetta al
presidente di un tribunale che abbia autorizzato
l'astensione di un giudice del medesimo tribunale e non
al nuovo collegio giudicante indicare, ai sensi
dell'art. 42 c.p.p., comma 2, se ed in quale parte gli
atti compiuti precedentemente dal giudice astenuto
conservino efficacia, cioè possano essere mantenuti nel
fascicolo per il dibattimento, ferma restando, poi, la
competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire
in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini
del decidere, sulla scorta di quanto previsto dall'art.
511 cod. proc. pen. in relazione all'art. 525 c.p.p.".
In motivazione la predetta sentenza
distingueva il piano della efficacia degli atti
precedentemente compiuti dal giudice ricusato o
astenutosi di competenza del giudice della ricusazione o
della astensione da quello della utilizzabilità degli
stessi mediante il meccanismo di acquisizione e recupero
delineato dall'art. 511 cod. proc. pen. riguardante le
letture consentite di competenza del collegio giudicante
e concludeva affermando che "il riconoscimento della
efficacia degli atti compiuti nel primo dibattimento
costituisce la premessa logica e giuridica alla quale è
subordinata l'applicazione dell'art. 511 cod. proc.
pen.".
Secondo altro indirizzo (Sez. 1, n.
4227 del 1997, Rv. 208409, Barreca, in fattispecie
relativa a provvedimento di sospensione dei termini di
custodia cautelare adottato dal collegio del quale
faceva parte il giudice astenutosi), che sembra avere
recuperato un precedente giurisprudenziale maturato in
vigenza del precedente codice di procedura penale e con
riferimento all'art. 70 c.p.p. 1930, comma 2, che
affrontava il problema in termini di validità e non di
efficacia degli atti (Sez. 2, n. 12233 del 1978, Rv.
140129, Governatori), invece, "sono validi gli atti
compiuti dal giudice astenutosi, della cui sorte
(validità o invalidità) non è fatta menzione nel
provvedimento che accoglie la dichiarazione di
astensione" (così anche Sez. 1, n. 27604 del 2001, Rv.
219145, Sciarabba).
I giudici rimettenti, dopo avere
rilevato che, in mancanza di una espressa dichiarazione
di conservazione di efficacia degli atti compiuti dal
giudice della ricusazione e/o dell'astensione,
sembrerebbe esclusa la possibilità delle parti di
consentire alla lettura dei verbali degli atti assunti,
esclusione definita singolare in materia probatoria,
preso atto del contrasto e della delicatezza della
questione, rimettevano la soluzione del problema alle
Sezioni Unite Penali.
3.2. Il Primo presidente, con
decreto in data 21 ottobre 2010, assegnava il ricorso
alle Sezioni unite, fissandone la trattazione
all'odierna udienza.
Motivi della decisione
1. La questione controversa.
Le Sezioni unite debbono, pertanto,
stabilire "se, in assenza di una espressa dichiarazione
di conservazione di efficacia nel provvedimento che
accoglie la dichiarazione di astensione o di
ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice
astenutosi o ricusato possano essere utilizzati". 1.1.
In punto di fatto, come si è già rilevato, è accaduto
che il Presidente del Tribunale di Locri, ai sensi
dell'art. 42 c.p.p., comma 1, ha accolto la
dichiarazione di astensione di alcuni componenti del
collegio, a cui era stato assegnato il processo contro
D. + 4, ma ha omesso di dichiarare, ai sensi dello
stesso art. 42, comma 2, quali atti compiuti
precedentemente dal giudice astenutosi conservassero
efficacia.
Il nuovo collegio, su accordo delle
parti, dichiarava utilizzabili gli atti probatori
assunti in precedenza da altro collegio e ne dava
lettura ai sensi dell'art. 511 cod. proc. pen..
Mutato ancora il collegio, si dava
di nuovo lettura degli atti, assunti in precedenza,
dichiarati utilizzabili sempre previo accordo delle
parti.
Il ricorrente D.M., con il primo
motivo di ricorso, ha dedotto la nullità della sentenza
di primo grado perchè fondata su atti probatori
inutilizzabili, non essendo stata previamente dichiarata
la efficacia degli atti dai Presidente del tribunale che
aveva accolto la dichiarazione di astensione,
provvedimento che costituisce il presupposto logico per
la successiva dichiarazione di utilizzabilità, da parte
del collegio giudicante, degli atti assunti dallo iudex
suspectus.
La tesi del ricorrente non è
condivisibile, e ciò anche a voler prescindere dalla
considerazione che il motivo presenta un tasso di
genericità non avendo il ricorrente indicato in modo
specifico gli estremi del provvedimento, nè quali
sarebbero gli atti affetti da inefficacia nè quali
effetti concreti essi avrebbero prodotto sulla decisione
impugnata.
1.2. Va premesso che gli istituti
della incompatibilità, della astensione e della
ricusazione tutelano specificamente il principio
fondamentale della imparzialità del giudice.
Principio che implica, come
chiarito da autorevole dottrina, non soltanto l'assenza
di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi
delle parti in causa, ma, in una prospettiva più ampia,
la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che
possano prevalere sulla necessità di accertamenti e
valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo
scopo di decidere secondo diritto e giustizia.
E' indubbio che tale principio
trovi un preciso fondamento costituzionale a seguito
della revisione con la legge costituzionale n. 2 del
1999 dell'art. 111 Cost., che ha fatto riferimento al
concetto di terzietà del giudice, che costituisce un
corollario di quello di imparzialità, implicando che il
giudice si trovi in una posizione di estraneità alle
funzioni sia dell'accusa che della difesa.
Sulla astensione di un giudice di
tribunale decide, come è noto, il presidente dello
stesso tribunale, al quale la dichiarazione sia
presentata, con decreto e senza formalità di procedura
(art. 36 c.p.p., comma 3), mentre sulla ricusazione
decide la corte di appello (art. 40 c.p.p., comma 1) a
norma dell'art. 127 c.p.p., dopo aver assunto, se
necessario, le opportune informazioni.
Quando la dichiarazione di
astensione o di ricusazione venga accolta, "il giudice
non può compiere alcun atto del procedimento" (art. 42
c.p.p., comma 2).
Prescindendo dalla sanzione -
nullità assoluta o inutilizzabilità - che colpisce gli
atti eventualmente compiuti dal giudice dopo
l'accoglimento della dichiarazione di astensione o
ricusazione, perchè non interessa ai fini della
decisione sul motivo di ricorso in discussione, deve
essere esaminato l'art. 42 cod. proc. pen., comma 2,
secondo il quale "il provvedimento che accoglie la
dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se
e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal
giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia".
Come già detto il provvedimento
presidenziale in discussione ha omesso la declaratoria
di efficacia degli atti assunti prima dell'accoglimento
della dichiarazione di astensione anche con il concorso
dello iudex suspectus.
La Corte di appello di Reggio
Calabria, nel respingere l'eccezione di nullità del D.
analoga al motivo di ricorso, aveva ritenuto che "la
fondatezza dell'eccezione è inficiata dalla circostanza
(...) che la successiva acquisizione da parte del nuovo
collegio di tutti i verbali delle prove precedentemente
acquisite è avvenuta con il consenso delle difese". Ha
concluso sul punto la corte territoriale che "il
consenso in questione, lungi dal cadere su atti
inefficaci (e perciò irrecuperabili), e quindi
inefficace esso stesso, abbia l'effetto di sanare ogni
possibile nullità (non assoluta, che qui non ricorre) ai
sensi dell'art. 183 c.p.p., comma 1, lett. a)". 1.3. Sul
punto, come correttamente rilevato dai giudici
rimettenti, esiste un contrasto di giurisprudenza.
Secondo un primo indirizzo, che
appare prevalente (Sez. 1, n. 2799, 16 aprile - 27
maggio 1997, Zuccotti ed altri, Rv. 207741, che ha
risolto un conflitto di competenza insorto tra il
presidente del tribunale che aveva accolto la
dichiarazione di astensione ed il collegio giudicante),
"qualora il presidente di un tribunale abbia accolto la
dichiarazione di astensione formulata dal presidente del
collegio giudicante costituito nell'ambito del medesimo
tribunale, spetta allo stesso presidente del tribunale,
e non al nuovo collegio giudicante, indicare, ai sensi
dell'art. 42 c.p.p., comma 2, se e in quale parte gli
atti compiuti precedentemente conservino efficacia, cioè
possano essere mantenuti nel fascicolo per il
dibattimento, ferma restando, poi, la competenza
esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito
alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del
decidere, sulla scorta di quanto previsto dall'art. 511
cod. proc. pen., in relazione all'art. 525 c.p.p.".
Nella motivazione la Corte
distingueva il piano della efficacia degli atti
precedentemente compiuti, al quale fa riferimento l'art.
42, comma 2, con quello della utilizzabilità degli
stessi, mediante il meccanismo di acquisizione e di
recupero delineato dall'art. 511 cod. proc. pen.,
riguardante le letture consentite. Insomma il nuovo
collegio potrebbe dichiarare utilizzabili soltanto gli
atti previamente ritenuti efficaci dal presidente del
tribunale, "costituendo il riconoscimento dell'efficacia
degli atti compiuti nel primo dibattimento la necessaria
premessa logica e giuridica alla quale è subordinata
l'applicazione dell'art. 511".
L'indirizzo risulta confermato da
Sez. 1, n. 32800, 7 luglio - 30 agosto 2005, Di Mauro,
Rv, 225756, che ha stabilito che spetta al giudice della
ricusazione e non al nuovo collegio giudicante,
indicare, se ed in quale parte gli atti compiuti
precedentemente conservino efficacia, e da altre
decisioni (Sez. 6, n. 23657, 16 maggio - 11 giugno 2001,
Calabrò, Rv. 219004; Sez. 2, n. 21831, 28 gennaio - 5
giugno 2002, Tripodi, Rv. 221986; Sez. 1, n. 4824, 18
aprile - 22 maggio 1997, Galli, Rv. 207588; Sez. 1, n.
25096, 26 febbraio - 3 giugno 2004, Alampi; e, in via
incidentale, dal momento che il tema essenziale della
decisione era costituito dalla ritenuta non
impugnabilita del provvedimento di cui all'art. 42 cod.
proc. pen., comma 2, Sez. 6, n. 1391, 26 ottobre 2006 -
19 gennaio 2007, Cremonesi).
1.4. Altro orientamento,
inizialmente formatosi sotto la vigenza dell'abrogato
codice di rito, il cui art. 70, comma 2, disponeva che
"l'ordinanza (che accoglie l'astensione o la
ricusazione) determina se ed in quale parte gli atti
compiuti precedentemente dal magistrato astenutosi o
ricusato o con il concorso di lui, conservano validità",
ha, invece, affermato che gli atti precedentemente
compiuti sono validi se non sia diversamente disposto
nel provvedimento presidenziale che accoglie l'istanza
di astensione (Sez. 2, n. 12233, 4 aprile - 12 ottobre
1978, Governatori, Rv.
140129, che, però, affrontava la
questione in termini di validità e non di efficacia
degli atti).
Tale orientamento, dopo l'entrata
in vigore del nuovo codice, è stato espresso da Sez. 1,
n. 4227, 19 giugno - 16 luglio 1997, Barreca, Rv.
208409, che ha fondato la decisione sui principi di
conservazione degli atti e dell'economia processuale,
"particolarmente sentiti in processi di notevole
complessità, in cui sarebbe troppo macchinoso elencare
le attività processuali ritenute ancora valide".
L'indirizzo è stato poi ribadito da
altra decisione (Sez. 1, n. 27604, 4 giugno - 9 luglio
2001, Sciarabba, Rv. 219145).
In tali ultime decisioni, entrambe
pronunciate in fattispecie relative a provvedimento di
sospensione dei termini di custodia cautelare adottato
dal collegio del quale faceva parte un giudice poi
astenutosi, si faceva, tra l'altro, notare che l'atto in
discussione non aveva carattere contenutistico, ma
procedurale, legato ad una valutazione di carattere
esclusivamente formale.
1.5. E' fondato il prevalente
indirizzo giurisprudenziale.
In primo luogo la interpretazione
letterale dell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2 non da
adito a dubbi.
La disposizione, infatti, nello
stabilire che "il provvedimento che accoglie la
dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se
e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal
giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia"
determina in primo luogo con precisione il giudice che
deve adottare il provvedimento.
Si tratta, invero, del giudice
dell'astensione o della ricusazione, come affermato
dalla richiamata sentenza Zuccotti, e come si desume
dalla lettera della disposizione.
Del resto è proprio il giudice che
decide sulla astensione che conosce i profili di
incompatibilità del giudice astenutosi e che può quindi
valutare con precisione gli effetti di tale rilevata
incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti
in precedenza.
Inoltre, proprio perchè si tratta
di un profilo molto delicato perchè attiene alla
imparzialità e terzietà del giudice, il provvedimento
che decide la sorte degli atti posti in essere dal
giudice astenuto deve essere adottato con la maggiore
celerità possibile al fine di evitare dubbi sulla
parzialità del giudizio.
In effetti hanno affermato la
esclusiva competenza del giudice della ricusazione e
della astensione ad adottare il provvedimento sulla
conservazione di efficacia degli atti in precedenza
assunti dal giudice astenuto anche le numerose sentenze
che, pur riconoscendo la necessaria tempestività del
provvedimento stesso, hanno giustificato, per la
complessità delle valutazioni da compiere, la non
contestualità del provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma
2, all'accoglimento della dichiarazione di astensione,
da adottarsi, comunque, in sequenza ravvicinata a
quest'ultima (tra le tante, Sez. 6, n. 23261, 18 marzo -
27 maggio 2003, Matteucci, Rv. 225756, che aveva
ritenuto legittimo il provvedimento di efficacia degli
atti depositato il giorno successivo a quello
dell'accoglimento della dichiarazione di astensione).
1.6. Ma se su tale questione non
sembra esservi contrasto, e d'altra parte nemmeno il
ricorrente pone problemi sul punto, vi è, come già
rilevato, contrasto in ordine alla necessità o meno
della declaratoria di efficacia degli atti
precedentemente assunti dal giudice astenuto.
Ancora una volta la interpretazione
letterale della disposizione non lascia adito a dubbi
perchè l'art. 42 cod. proc. pen., comma 2 precisa che
"il provvedimento (...) dichiara se e in quale parte gli
atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o
ricusato conservano efficacia".
E' vero che la disposizione in
discussione, che sostanzialmente riproduce quella
dell'art. 70 codice previgente, viene tradizionalmente
considerata espressione del principio di conservazione
degli atti (vedi Relazione al Progetto preliminare del
cod. proc. pen., 29), ma, come è stato attentamente
osservato da autorevole dottrina, ove si fosse voluto
attagliare la disposizione al principio di conservazione
degli atti la si sarebbe dovuta formulare secondo uno
schema antitetico del tipo "se e in quale parte gli atti
compiuti perdano efficacia".
Del resto la prevalente dottrina,
anche se qualche Autore ha avuto dei ripensamenti, si è
pronunciata per la necessità di una espressa
declaratoria di conservazione di efficacia degli atti,
in difetto della quale gli atti compiuti dal giudice
astenutosi e/o ricusato sono da ritenere improduttivi di
effetti.
Vi è quindi una sorta di
presunzione di inefficacia degli atti posti in essere
dallo iudex suspectus prima dell'accoglimento della
dichiarazione di astensione o della ricusazione, che può
essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tutti
o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che
abbia verificato se malgrado la riconosciuta carenza di
imparzialità del giudice, vi siano atti che non abbiano
subito alterazione, così da poter essere conservati.
La necessità di una tale pronuncia,
peraltro già affermata dall'art. 70 c.p.p. 1930, deriva
anche da una interpretazione logico- sistematica
dell'istituto in discussione.
Come si è già accennato, la
disciplina delle incompatibilità, della astensione e
della ricusazione è preordinata alla tutela del
principio di imparzialità del giudice, coessenziale alla
funzione dello ius dicere ed alla attuazione del giusto
processo richiesto dalla Costituzione, come chiarito
dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 20
maggio 1996, n. 155), che ha precisato che "tra i
principi del "giusto processo", posto centrale occupa
l'imparzialità del giudice, in carenza della quale le
regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di
significato e che l'imparzialità è perciò connaturata
all'essenza della giurisdizione".
Ed anche la Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata con la L. 4 agosto 1955, n.
848, all'art. 6, comma 1, dispone che "ogni persona ha
diritto che la sua causa sia esaminata equamente (...)
da parte di un tribunale indipendente e imparziale".
E' allora perfettamente
comprensibile che in presenza di situazioni nelle quali
l'imparzialità è violata o, semplicemente, appare
compromessa, la legge processuale disponga il controllo
dell'efficacia degli atti compiuti dal giudice
astenutosi o ricusato quale ineliminabile garanzia che
il loro contenuto non è stato pregiudicato dalla
situazione di sospetto che ha motivato l'accoglimento
della richiesta di astensione o di ricusazione (tali
argomenti sono contenuti nella motivazione della
sentenza Zuccotti ed altri già richiamata).
L'obbligatorietà della declaratoria
di efficacia degli atti ex art. 42 c.p.p., comma 2,
trova significativa conferma nella disposizione di cui
al D.L. 23 ottobre 1996, n. 553, art. 1, convertito
nella L. 23 dicembre 1996, n. 652, come correttamente
rilevato nella ordinanza di rimessione.
Tale decreto-legge intervenne
subito dopo la sentenza della Corte cost. n. 371 del
1996, con cui fu dichiarata l'illegittimità dell'art. 34
c.p.p., comma 2, "nella parte in cui non prevede che non
possa partecipare al giudizio nei confronti di un
imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a
pronunciare una precedente sentenza nei confronti di
altri soggetti, nella quale la posizione di quello
stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale
sia stata compiutamente valutata".
L'art. 1, comma 2, del citato
decreto-legge dispose che conservano efficacia gli atti
compiuti anteriormente al provvedimento che accoglie la
dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice
per una delle cause di incompatibilità stabilite
dall'art. 34 c.p.p., comma 2, quando sia già stata
dichiarata l'apertura del dibattimento.
Si tratta di una norma transitoria
e perciò eccezionale che deroga all'art. 42 c.p.p.,
comma 2, cosicchè risulta confermato che la regola non è
quella della conservazione di efficacia degli atti,
bensì quella contraria della inefficacia degli atti,
salva la diversa espressa dichiarazione di cui all'art.
42 c.p.p., comma 2.
La soluzione raggiunta comporta,
però, alcuni rilevanti problemi.
1.7. La mancanza di una
declaratoria di efficacia degli atti determina, come si
è detto, la inefficacia di tutti gli atti compiuti dal
giudice prima dell'accoglimento della dichiarazione di
astensione o dell'accoglimento della istanza di
ricusazione; le parti potrebbero non essere d'accordo
con tale decisione.
Anche sull'apprezzamento negativo,
o parzialmente negativo, del giudice che ha accolto la
ricusazione o ha autorizzato l'astensione le parti
potrebbero dissentire sia subito dopo l'adozione del
provvedimento, sia, a maggior ragione, dopo
l'espletamento della istruttoria dibattimentale e,
quindi, causa cognita.
Le norme procedurali prevedono la
impugnabilità della ricusazione e la inoppugnabilità del
provvedimento sulla dichiarazione di astensione.
In ogni caso, però, non è prevista
la impugnabilità del provvedimento emesso ex art. 42
c.p.p., comma 2, (Sez. 2, n. 25724 del 2004, Rv. 229029,
Contaldo; Sez. 6, n. 1391 del 2007, Rv. 235728,
Cremonesi).
In effetti, come emerge dalla
relazione al codice di rito, i rilievi della Commissione
parlamentare, secondo i quali la previsione dell'art. 42
cod. proc. pen., comma 2 avrebbe assegnato una
discrezionalità troppo ampia al giudice della astensione
o della ricusazione, non furono condivisi dal Governo,
in quanto si osservò che, nella applicazione
dell'abrogato art. 70, comma 2, la giurisprudenza aveva
evidenziato che scopo dell'ampio potere discrezionale
conferito al giudice nel vagliare l'attività
precedentemente compiuta dal giudice astenutosi o
ricusato, è quella di consentirgli di verificare "con
apprezzamento insindacabile" se nonostante la astensione
o la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice
ricusato, vi fossero in concreto atti che, non
risultando in alcun modo influenzati dalle situazioni
descritte negli artt. 36 e 37 cod. proc. pen., non
perdessero il loro valore processuale.
La inoppugnabilità del
provvedimento in discussione, però, se non temperata da
un sistema di rivedibilità o di sindacabilità della
decisione del giudice dell'astensione e della
ricusazione, finirebbe con il sottrarre definitivamente
gli atti a contenuto probatorio dichiarati erroneamente
inefficaci, o ritenuti tali per mancata pronuncia da
parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione,
all'apprezzamento del giudice del dibattimento che,
fondandosi sul contraddittorio tra le parti, è il vero
dominus nel sistema processuale vigente degli atti a
contenuto probatorio.
Del resto, se la decisione del
giudice dell'astensione e della ricusazione non fosse
sindacabile dal giudice del processo, le norme
processuali, che prevedono la inoppugnabilità del
provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, non si
sottrarrebbero ad una censura di illegittimità
costituzionale.
Tale problema si è, infatti, posto
in sede civile, ove è stata dichiarata manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 53 cod. proc. civ. nella parte in cui non
prevede l'impugnabilità con il rimedio del ricorso
straordinario per cassazione dell'ordinanza che decide
sulla ricusazione del giudice, in quanto il principio di
imparzialità è sufficientemente garantito dalla
possibilità per la parte, che abbia visto rigettata la
propria istanza di ricusazione, di chiedere al giudice
di appello un riesame di tale pronuncia impugnando la
sentenza conclusiva resa dal giudice invano ricusato
(Sez. U civ., n. 17636 del 20 novembre 2003).
La Suprema Corte ha, altresì,
precisato che in materia civile la ordinanza di
inammissibilità dell'istanza di ricusazione non è
impugnabile perchè manca del necessario carattere della
definitività, in quanto la non impugnabilità ex se
dell'ordinanza non esclude che il suo contenuto sia
suscettibile di essere riesaminato nel corso dello
stesso processo attraverso il controllo sulla pronuncia
resa con il concorso dello iudex suspectus (Sez. 1^
civ., 23 aprile 2005, n. 8569).
Da quanto detto si desume che la
illegittimità costituzionale derivante dalla
inoppugnabilità dei provvedimenti in materia di
astensione e ricusazione è stata esclusa soltanto perchè
il contenuto del provvedimento è suscettibile di essere
riesaminato nel corso del processo; un siffatto
principio di portata generale non può non essere valido
anche in materia penale; da ciò discende la necessità di
una sindacabilità della declaratoria di efficacia, o
della mancata declaratoria, ad opera del giudice del
processo proprio per evitare, con una interpretazione
costituzionalmente orientata dell'istituto, una
illegittimità costituzionale per violazione degli artt.
3, 24, 25 e 111 Cost..
1.8. Esaminando con maggiore
precisione il provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2,
deve dirsi che, come è stato correttamente osservato, si
tratta di un provvedimento di natura non decisoria, ma
dichiarativa perchè fondato su una ricognizione degli
atti a contenuto probatorio compiuta, inaudita altera
parte, dal giudice della ricusazione, che ha in materia
una competenza per così dire interinale (Sez. 6, n. 1391
del 2006, Cremonesi, cit.), che non può frustrare la
competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire
in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini
del decidere.
Posto che non bisogna confondere il
piano della efficacia degli atti precedentemente
compiuti, al quale fa riferimento l'art. 42 cod. proc.
pen., comma 2, con quello della utilizzabilità degli
stessi mediante il meccanismo di acquisizione e di
recupero delineato dall'art. 511 c.p.p.riguardante le
letture consentite, è necessario chiarire il significato
della espressione "efficacia degli atti" contenuta
nell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2.
Il legislatore mentre definisce con
precisione i concetti di inutilizzabilità e nullità
degli atti a contenuto probatorio, non chiarisce cosa
debba intendersi per inefficacia degli atti.
Orbene l'atto a contenuto
probatorio ritenuto efficace è quello in grado di
produrre effetti giuridici, e, quindi, in materia
processuale penale è l'atto che può essere
legittimamente mantenuto nel fascicolo per il
dibattimento, fatto che costituisce il presupposto
logico per una successiva, ed eventuale, utilizzazione
dello stesso per la decisione.
Nel senso indicato si è espressa
esplicitamente la Suprema Corte (Sez. 2, n. 21831, 28
gennaio - 5 giugno 2002, Rv. 221987), che ha affermato
che la indicazione degli atti che conservano efficacia
ex art. 42 cod. proc. pen. ha il significato di
precisare quali atti possano essere mantenuti nel
fascicolo del dibattimento, ferma la competenza
esclusiva del collegio giudicante a stabilire la loro
utilizzabilità o meno ai fini della decisione sulla
scorta di quanto previsto dagli artt. 525 e 511 cod.
proc. pen..
E anche la Corte costituzionale
(ord. n. 25 del 2010) ha stabilito che il provvedimento
ex art. 42, comma 2, "vale (...) a delimitare l'area del
possibile "recupero" dell'attività istruttoria già
espletata", recupero che può avvenire soltanto se gli
atti a contenuto probatorio siano stati inseriti nel
fascicolo del dibattimento.
Quindi sono efficaci gli atti che
legittimamente possono essere inseriti nel fascicolo del
dibattimento; tali atti possono in una fase successiva
essere dichiarati utilizzabili ai fini della decisione.
Tuttavia la discussione
sull'inserimento o meno degli atti dichiarati efficaci
ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 2, non soffre la
preclusione di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1, che
riguarda la selezione degli atti e dei documenti che
possono essere conosciuti preventivamente dal giudice
del dibattimento, ma non le valutazioni del giudice
circa l'ammissibilità della prova desumibile sia da atti
inseriti nel fascicolo del dibattimento sia da atti che
erroneamente non vi siano stati inseriti (Sez. 5, 18
aprile - 22 maggio 2000, n. 5944, Benvenuto e Sez. 6, 6
febbraio - 27 maggio 2003, n. 23246).
Ciò perchè il giudice del
dibattimento ha una competenza generale in ordine alla
valutazione di ammissibilità delle prove ed alla
assunzione delle stesse e sarà, pertanto, tale giudice a
verificare in ultima analisi anche la efficacia o meno
degli atti a contenuto probatorio compiuti dallo iudex
suspectus prima della autorizzazione alla astensione ed
a determinare la definitiva inclusione o esclusione di
tali atti dal fascicolo per il dibattimento, attività
che deve necessariamente precedere la valutazione di
utilizzabilità o meno delle prove.
1.9. In effetti, approfondendo
l'analisi della situazione processuale in esame, non vi
è dubbio che quando venga autorizzata l'astensione o
accolta la istanza di ricusazione si assiste
necessariamente ad un mutamento dell'organo giudicante,
monocratico o collegiale che sia.
Ebbene in siffatta ipotesi, in
ossequio al principio della immutabilità del giudice di
cui all'art. 525 c.p.p., comma 2, il dibattimento deve
essere rinnovato e deve essere riproposta tutta la
sequenza procedimentale prevista, a meno che le parti
non consentano, o meglio non si oppongano (Sez. 5, 16
maggio - 19 settembre 2008, n. 35975, Rv. 241583) alla
lettura dei verbali relativi alle prove in precedenza
acquisite.
Ed è esattamente questo il momento
in cui il provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, può
essere sindacato, perchè le parti, prima di prestare il
consenso alla lettura dei verbali delle prove già
acquisite, ed il giudice, prima di dichiarare
utilizzabili le prove stesse secondo il combinato
disposto degli artt. 525 e 511 cod. proc. pen.,
valuteranno le prove acquisite anche per i profili che
potrebbero determinarne la inefficacia ai sensi
dell'art. 42 c.p.p., comma 2. 1.10. Per concludere sul
punto la soluzione prospettata di sindacabilità del
provvedimento di declaratoria di efficacia degli atti a
contenuto probatorio assunti dal giudice poi astenutosi
o ricusato elimina i dubbi di costituzionalità dell'art.
42 c.p.p., comma 2, e restituisce alle parti ed al
giudice del dibattimento la piena disponibilità del
materiale probatorio conformemente alla previsione del
sistema processuale vigente.
Da tutto quanto precede risulta la
infondatezza del primo motivo di impugnazione del D.
perchè sia a seguito del primo mutamento del Collegio
che del secondo i difensori consentirono alla lettura
dei verbali degli atti probatori assunti; nella seconda
occasione, infatti, risulta dal verbale di udienza che
il consenso venne prestato dal difensore di ufficio,
ritualmente presente, e già nominato come sostituto
processuale dai difensori di altri due coimputati.
2. Gli altri motivi di impugnazione
di D.M..
2.1. E' infondato, ed anzi ai
limiti della ammissibilità, il secondo motivo di
ricorso.
Come si è già sottolineato la prova
della responsabilità del ricorrente è fondata
essenzialmente su quanto emerge dalla sentenza, divenuta
definitiva, che aveva condannato il L. ed i fratelli Cl.
e Pa.Fr. per il delitto associativo e per diversi
episodi di cessione di sostanze stupefacenti.
La detta sentenza è stata acquisita
agli atti ai sensi dell'art. 238- bis cod. proc. pen. ed
è stata valutata secondo i criteri di cui all'art. 187
c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3.
Il ricorrente nell'atto di appello
non si è doluto della utilizzazione della sentenza
passata in giudicato e della violazione dell'art.
238-bis cod. proc. pen. e ciò determina la
inammissibilità del motivo ai sensi dell'art. 606 cod.
proc. pen., comma 3.
In ogni caso va detto che i giudici
del merito hanno correttamente ritenuti accertati i
fatti contestati al ricorrente perchè nella predetta
sentenza si fa riferimento a numerosi elementi di
riscontro, costituiti dagli esami del L. e di Pa.Cl.,
ritenuti intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili,
dagli arresti del D. per possesso di sostanze
stupefacenti, uno in compagnia di Pa.Cl. e l'altro in
compagnia del coimputato P.P., e dal fatto che una sua
compaesana di (OMISSIS) aveva inviato per suo conto
vaglia postali a (OMISSIS) per pagamento di partite di
droga.
I giudici del merito hanno posto in
evidenza che il ricorrente agiva come stabile
cessionario di partite di sostanza stupefacente, anche
di rilevante entità, che poi cedeva agli spacciatori al
minuto, ed hanno descritto le modalità di
approvvigionamento; sotto tale profilo, tenuto anche
conto della stabilità e continuatività dei rapporti di
affari, e, quindi, del contributo dato dal ricorrente
alla vita dell'associazione, i giudici dei primi due
gradi hanno ritenuto, conformemente agli indirizzi
giurisprudenziali sul punto della Corte di legittimità,
la partecipazione del D. ad una associazione dedita al
traffico di sostanze stupefacenti facente capo al L. ed
ai Pa..
Gli ulteriori rilievi del
ricorrente sul punto sono sostanzialmente di merito.
In ordine ai singoli episodi di
cessione di sostanze stupefacenti il ricorrente non ha
dedotto rilievi specifici; sul punto la sentenza
impugnata ha fatto legittimamente riferimento per
relationem alla motivazione della sentenza di primo
grado, tenuto conto della natura dei rilievi
dell'appellante.
Non è, infine, ravvisabile nel caso
di specie una ipotesi di concorso di persone in un reato
continuato di cessione di sostanze stupefacenti perchè
non vi è stato un accordo diretto alla commissione di
uno o più reati determinati, ma un accordo diretto alla
attuazione di un più vasto programma criminoso per la
commissione di una serie indeterminata di delitti.
2.2. Di merito, oltre che generico,
è il terzo motivo di impugnazione perchè è immune da
censure in punto legittimità il diniego delle attenuanti
generiche in ragione della presenza di numerosi
precedenti penali.
3. I motivi di ricorso di T.S..
3.1. Il difensore dell'imputato,
presente alla odierna udienza, ha insistito per
l'accoglimento del primo motivo di ricorso del D., che
non era stato oggetto nè di un proprio motivo di appello
nè di analogo motivo di ricorso.
Secondo un risalente indirizzo
della giurisprudenza di legittimità il riconoscimento, a
seguito di ricusazione, di una causa di incompatibilità
del magistrato non produce effetti nei confronti dei
coimputati che non l'abbiano invocata e non determina
perciò per questi ultimi l'inefficacia - eventualmente
dichiarata nel provvedimento di accoglimento della
ricusazione - degli atti in precedenza compiuti dal
giudice ricusato (Sez. 6, 1 luglio 1997, Aquino, Rv.
208555); cosicchè la parte privata che non abbia
presentato la istanza di ricusazione, atto definito di
natura personalissima, non sarebbe legittimata nemmeno a
partecipare alla relativa udienza di discussione (Sez.
6, 6 aprile - 8 maggio 1998, n. 1280).
Secondo altro e più recente
indirizzo è stato però affermato che le parti
processuali, che pure non hanno proposto dichiarazione
di ricusazione, hanno diritto di intervenire alla
relativa udienza di discussione, fissata per iniziativa
di altra parte, perchè hanno comunque interesse alla
verifica, in effettivo contraddittorio, della condizione
di imparzialità e di effettiva terzietà del giudice
ricusato (Sez. 1, 20 gennaio - 2 marzo 2010, n. 8212,
Rv. 246625).
Orbene, a parte il fatto che appare
fondato il più recente indirizzo, tenuto conto che, come
già detto, le norme sulla astensione e ricusazione
tendono a dare attuazione ai principi costituzionali di
imparzialità e terzietà del giudice e ad assicurare il
giusto processo, e che, pertanto, le relative questioni
sollevate da una parte hanno natura oggettiva e sono
estensibili a tutti i coimputati, come del resto
rilevato dalla ordinanza di rimessione, va detto che nel
caso di specie si tratta di un provvedimento di
autorizzazione alla astensione del giudice per
incompatibilità per precedenti funzioni svolte,
riferibile, pertanto, a tutti gli imputati.
Inoltre le questioni concernenti la
efficacia e la conseguente utilizzabilità degli atti
compiuti dal giudice prima della dichiarazione di
astensione o ricusazione sono deducibili in ogni stato e
grado del processo.
Ritenuta, pertanto, la legittimità
dei rilievi del difensore del T., va detto che gli
stessi sono infondati per tutte le ragioni esposte nel
paragrafo 1, alle quali si rinvia.
3.2. Infondati, ed anzi ai limiti
della ammissibilità, sono i primi due motivi di ricorso
del T..
Non è affatto vero che i giudici
del merito abbiano ritenuto il delitto associativo anche
in assenza dei caratteri della organicità e stabilità
del vincolo (primo motivo).
Ed infatti nella motivazione della
sentenza impugnata si è posto in evidenza non solo la
esistenza di una associazione dedita al traffico di
sostanze stupefacenti, desunta, come si è già detto, da
una sentenza irrevocabile pronunciata nei confronti del
L. e dei fratelli Pa., elemento corroborato da validi e
già esposti riscontri, oltre che dalle dichiarazioni
rese nel corso del presente processo dal L. e da Pa.Cl.,
ma anche il fatto che il ricorrente, "anche se per un
limitato ma intenso periodo della loro attività e
precisamente dall'estate (OMISSIS) all'arresto del L. a
(OMISSIS) di quello stesso anno e per pochi mesi dopo",
affiancò Pa.Cl. nei suoi traffici a (OMISSIS) con il D.
e lo S..
Tanto i giudici dei primi due gradi
lo hanno desunto dalle dichiarazioni di Pa.Cl., ritenuto
attendibile intrinsecamente ed estrinsecamente, dal
fatto che venne visto in più occasioni in compagnia
della coimputata C., e dall'esito di alcune
intercettazioni telefoniche.
Non è poi vero che i giudici
abbiano ritenuto la consumazione del delitto associativo
sulla mera adesione psicologica del T. alle attività del
Pa., fatto che avrebbe consentito di qualificare la sua
condotta come quella di un favoreggiatore, dal momento
che il T. è stato condannato anche per episodi di
cessione di sostanze stupefacenti in concorso con altri
associati indicati al capo P1, fatto sul quale nulla ha
osservato il ricorrente.
Infondato è, quindi, anche il
secondo motivo di ricorso.
3.3. Di merito è il terzo motivo di
impugnazione, con il quale il ricorrente si è doluto del
rilievo dato alle conclusioni della sentenza
irrevocabile acquisita agli atti, e della quale si è già
detto, e del fatto che nel racconto di Pa.Cl. e di altri
collaboratori fossero ravvisagli numerose
contraddizioni, perchè la Corte di merito, con
motivazione immune da vizi logici e richiamando anche la
motivazione della sentenza di primo grado, ha chiarito
che le pretese contraddizioni dei collaboratori erano
relative a fatti marginali, mentre chiara era la
indicazione della partecipazione del ricorrente alla
attività del gruppo e del contributo causale fornito
dallo stesso al raggiungimento degli scopi della
associazione.
Anche le censure concernenti le
presunte discrasie circa il percorso compiuto dai
corrieri per il trasporto della droga dalla Calabria a
Roma sono di merito, avendo i giudici dei primi due
gradi ricostruito con chiarezza e precisione il
suindicato percorso, non apparendo per nulla rilevanti
alcune supposte imprecisioni sulle strade effettivamente
percorse.
4. La posizione di C.T..
4.1. Il primo motivo di
impugnazione è manifestamente infondato perchè dal
verbale della udienza del 21 febbraio 2003 non si desume
che sia pervenuta - nè conseguentemente valutata -
alcuna richiesta di rinvio per legittimo impedimento del
difensore di fiducia, che risulta costituito come
assente, e sostituito da un difensore di ufficio
ritualmente designato; quest'ultimo, essendo mutata la
composizione del collegio giudicante, prestò il consenso
alla lettura dei verbali delle prove assunte.
La identica situazione ebbe a
verificarsi alla udienza del 21 aprile 2004, allorchè,
verificatosi altro mutamento del collegio, il difensore
di ufficio nominato, stante l'assenza del difensore di
fiducia, che non aveva presentato alcuna istanza di
rinvio per legittimo impedimento, prestò il suo consenso
alla lettura dei verbali delle prove orali assunte in
precedenza.
Non risulta che l'imputata abbia
formulato doglianza in appello e/o in cassazione in
ordine alla eventuale omessa valutazione di una istanza
di rinvio per legittimo impedimento relativa alle
udienze predette.
Cosicchè del tutto rituale fu in
entrambi i casi la nomina di un difensore di ufficio, il
quale validamente prestò il suo consenso alla lettura
degli atti, al fine del "recupero" delle prove orali
assunte dal collegio nella precedente composizione
secondo il meccanismo di cui agli artt. 525 e 511 cod.
proc. pen..
4.2. E' infondato anche il secondo
motivo di impugnazione concernente la pretesa
inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni
telefoniche disposte ed eseguite in procedimento diverso
ed il vizio di motivazione della Corte di merito sul
punto.
In effetti la parte aveva prodotto
una sentenza del Tribunale di Roma emessa il 3 ottobre
1996 relativa a fatti di droga commessi in Roma nel
1993, dalla quale risultava che i decreti autorizzativi
delle intercettazioni telefoniche non erano stati
trasmessi al Tribunale dalla locale Procura; non sembra
che le predette intercettazioni siano state dichiarate
formalmente inutilizzabili.
In ogni caso, tenuto conto dei
tempi diversi dei reati contestati, non è dato sapere se
le intercettazioni menzionate nella sentenza del
Tribunale di Roma fossero le stesse di questo processo.
La parte non ha prodotto alcunchè e
neppure ha indicato con precisione i tempi e le modalità
delle intercettazioni contestate.
Corretta, pertanto, è la
motivazione resa dalla Corte di merito che, nel
rigettare l'eccezione, si è uniformata ad un principio
più volte affermato dalla Suprema Corte, secondo il
quale nel caso in cui una parte deduca il verificarsi di
cause di nullità o inutilizzabilità collegate ad atti
non rinvenibili nel fascicolo processuale (perchè
appartenenti ad altro procedimento o anche - qualora si
proceda con le forme del dibattimento - al fascicolo del
pubblico ministero), al generale onere di precisa
indicazione che incombe su chi solleva l'eccezione si
accompagna l'ulteriore onere di formale produzione delle
risultanze documentali - positive o negative - addotte a
fondamento del vizio processuale (da ultimo Sez. U., n.
39061 del 16 luglio - 8 ottobre 2009, De Iorio, Rv.
244329).
In ogni caso la motivazione della
sentenza impugnata non fonda la responsabilità della C.
sull'esito delle intercettazioni telefoniche in
discussione perchè, nella individuazione degli elementi
di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaborante
Pa.Cl., ha chiarito che dette dichiarazioni risultavano
confermate dalla parola di Pa.Fr., in parte da quella
del L. ed in pieno dalla testimonianza del maresciallo
A. e solo "ad abbondanza" dalle intercettazioni
telefoniche.
E' evidente allora che, anche a
volere espungere dalla motivazione della sentenza
impugnata il riferimento agli esiti di tali
intercettazioni (cd. prova di resistenza), risulta
ampiamente e logicamente motivata la responsabilità
della C. in ordine ai reati che le sono stati
contestati.
4.3. Da quanto detto emerge anche
la infondatezza del terzo motivo di impugnazione, con il
quale è stato dedotto il vizio di motivazione in ordine
alla ritenuta responsabilità della C..
Ed infatti la Corte di merito ha
messo in evidenza che dalle dichiarazioni di Pa.Cl.
emergeva che la C., che aveva una relazione con il
fratello Fr., si era adoperata in più occasioni per
consentire che operazioni di cessione di sostanze
stupefacenti andassero a buon fine e più volte aveva
ospitato nella sua abitazione anche altri esponenti del
gruppo, tra i quali il capo L..
Le dichiarazioni di Pa.Cl.
risultano riscontrate da quelle rese, a seguito di
contestazioni e pur tra alcune reticenze, da Pa.Fr.,
nonchè dalle dichiarazioni di L. e dalla testimonianza
di A..
A fronte di tali elementi,
illustrati dalla Corte di merito con una motivazione
immune da vizi logici, la ricorrente ha sottoposto al
vaglio della Corte di cassazione alcuni stralci delle
dichiarazioni di Pa.Fr. e di L. sostenendo che una
corretta interpretazione delle stesse avrebbe condotto a
soluzioni del tutto diverse.
Il motivo per questa parte si
palesa di merito e mira, inammissibilmente, ad ottenere
dalla Corte di cassazione una diversa valutazione del
materiale probatorio.
4.4. Quanto, infine, alla
denunciata omessa motivazione in ordine alla richiesta
di revoca della misura di sicurezza della libertà
vigilata, va detto che da tutto il contesto
motivazionale emerge con chiarezza la pericolosità
sociale dei ricorrenti, e quindi anche della C., e che,
comunque, il motivo di appello sul punto era del tutto
generico, cosicchè la sentenza di appello risulta
integrata in ordine a tale statuizione da quella di
primo grado.
5. Il motivo di ricorso di S.R..
Lo St., conosciuto nell'ambiente
come "il poliziotto", riproponendo il primo motivo di
appello, ha dedotto il vizio di motivazione in ordine
alla ritenuta responsabilità per alcuni episodi di
acquisto di sostanze stupefacenti, essendo stato,
invece, assolto dal reato associativo.
Il ricorrente si è doluto che non
fossero state esaminate tutte le doglianze proposte con
l'atto di appello e che non fosse stata correttamente
valutata la attendibilità intrinseca ed estrinseca dei
due collaboratori di giustizia Cl. e Pa.Fr..
Quanto alla prima osservazione si
deve rilevare che il giudice deve tenere conto di tutte
le osservazioni della difesa, cosa che risulta essere
avvenuta nel caso di specie, posto che è stato
puntualmente richiamato in motivazione l'atto di appello
dello S., ma non deve confutare tutti gli argomenti
posti dalla difesa a sostegno delle proprie tesi,
dovendo essere indicati in motivazione soltanto gli
argomenti che legittimano la soluzione adottata.
Ebbene nel caso di specie la
motivazione impugnata risulta immune dai rilievi
indicati perchè la Corte di merito, con una motivazione
precisa, ha riportato tutti gli elementi, peraltro già
esposti dal giudice di primo grado, che imponevano una
affermazione di responsabilità del ricorrente per i
fatti di acquisto a fine di cessione di sostanza
stupefacente in rilevante quantità - cinque o seicento
grammi di cocaina per volta - da Pa.Cl. e Fr., da L., da
T.e.d.Capoccia.
L.C.i.r.i.c.d.d.r.
d.f. P., che avevano indicato "il
poliziotto", identificato nello S., come l'acquirente di
sostanze stupefacenti che avevano conosciuto tramite
tale " P. di (OMISSIS)" in un bar di tale quartiere.
A parte l'attendibilità intrinseca
dei due collaboratori, più volte affermata nella
sentenza impugnata, la Corte ha posto in evidenza che le
dichiarazioni dei due Pa., che è bene dire sono autonome
perchè i due hanno deciso di collaborare in tempi
diversi quando si trovavano detenuti in località
distanti, si riscontrano reciprocamente e risultano
riscontrate anche dagli esiti delle indagini sul " P. da
(OMISSIS)", riferite dal maresciallo A., e dai contatti
telefonici di " R." con la C., presso la quale talvolta
il ricorrente si riforniva di droga.
A fronte di tali imponenti elementi
il ricorrente si è doluto del fatto che le dichiarazioni
dei due Pa. presentavano imprecisioni e contraddizioni.
Ma di tale obiezione la Corte ha
tenuto conto spiegando che alcune imprecisioni erano
comprensibili e giustificabili, considerato che i due
Pa. avevano deposto a distanza di dodici anni dai fatti
e che, comunque, esse non intaccavano il nucleo
fondamentale della deposizione dei due collaboratori di
giustizia, che appariva preciso e puntuale.
Del tutto rispettosa dei canoni
interpretativi delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia è, pertanto, la motivazione della sentenza
impugnata.
Le ulteriori osservazioni del
ricorrente sono di merito perchè mirano ad ottenere una
diversa valutazione del materiale probatorio.
6. La posizione di P.P..
Anche il P. si è lamentato che i
due collaboratori Fr. e Pa.Cl. fossero stati ritenuti
attendibili intrinsecamente ed estrinsecamente; ha
aggiunto che le loro propalazioni apparivano equivoche.
Si è doluto il ricorrente anche del
fatto che la Corte di merito avesse reso una motivazione
per relationem alla motivazione della sentenza del primo
giudice.
I rilievi sono infondati.
6.1. A parte il fatto che, come
meglio si dirà, la motivazione impugnata non può
considerarsi per relationem, va detto che tale tipo di
motivazione è pienamente legittimo quando vengano
dedotte dall'appellante questioni già esaminate e
risolte dal giudice di primo grado (Sez. 5, n. 3751 del
15 febbraio - 23 marzo 2000, Re Carlo, Rv. 215722;
conforme Sez. 6, n. 31080 del 14 giugno - 15 luglio
2004, Cerrone, Rv. 229299).
Ebbene questa è esattamente la
situazione in esame, perchè il ricorrente aveva proposto
in appello questioni relative alla attendibilità
intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia,
già sottoposte al vaglio del giudice di primo grado e da
questi risolte, senza che le censure contenessero
elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e
disattesi.
In ogni caso la motivazione in
discussione non può ritenersi per relationem perchè la
Corte di merito ha chiarito che i due fratelli Pa.
avevano riferito che il P., che era sostanzialmente
socio di Cl. e con il quale la collaborazione era
proseguita anche dopo l'arresto del L., si occupava del
trasporto di sostanze stupefacenti dalla Calabria a Roma
e provvedeva poi alla distribuzione ai vari acquirenti,
tra i quali il D., insieme al quale venne arrestato in
casa di questo il 4 settembre 1989 per una questione di
cento grammi di cocaina.
In ordine alla ritenuta
attendibilità intrinseca dei due fratelli Pa. non può
farsi altro che rinviare a quanto già si è detto nel
trattare la posizione dello S.; è sufficiente aggiungere
che secondo la Corte di merito nel caso del P. le
dichiarazioni dei due Pa. sono particolarmente univoche,
e quindi prive di contraddizioni.
I riscontri esterni sono stati
individuati dai giudici del merito nel già ricordato
arresto del P. insieme al D., nell'invio di danaro,
ritenuto pagamento di partite di stupefacenti, a mezzo
vaglia a (OMISSIS) dall'ufficio postale di (OMISSIS),
ove risiedeva D., oltre agli altri specificamente
indicati dal teste A. e nemmeno contestati dal
ricorrente.
Infine non è vero che il L. non
abbia parlato del P., dal momento che questo
collaboratore lo indicò come persona molto vicina ai
Pa., che venne arrestato a casa del D. per un fatto di
droga.
6.2. Con la memoria difensiva, a
parte la riproposizione di argomenti già contenuti nel
ricorso, il ricorrente si è doluto "dell'improprio
utilizzo della sentenza irrevocabile del G.u.p. di
Reggio Calabria del 16 giugno 1999", acquisita ai sensi
dell'art. 238- bis cod. proc. pen..
La censura è inammissibile sia
perchè investe un punto della decisione che non era
stato oggetto del ricorso (Sez. U, n. 4683 del 25
febbraio - 20 aprile 1998, Bono), sia perchè su tale
aspetto non erano stati mossi rilievi nell'atto di
appello.
In ogni caso si rinvia alle
considerazioni svolte a proposito di analogo motivo
proposto dal D..
6.3. Contiene censure di merito il
secondo motivo di impugnazione concernente la misura
della pena inflitta al P., tenuto conto della
valutazione di gravità della condotta operata dai
giudici di merito, che emerge da entrambe le
motivazioni.
Del resto la eccessività della pena
viene ritenuta dal ricorrente per la "evanescenza" della
prova, considerazione che è infondata per le ragioni
indicate e che, comunque, legittimerebbe, se fondata,
una pronuncia assolutoria, ma non certo una pena
contenuta, e per la risalenza nel tempo dei fatti
contestati, circostanza che nulla toglie alla ritenuta
gravità dei fatti stessi, elemento di cui si deve tenere
conto ai sensi dell'art. 133 cod. pen. ai fini della
determinazione della pena.
7. Conclusioni.
In conclusione le Sezioni unite
penali della Corte di cassazione, nel rigettare tutti i
ricorsi e nel condannare i ricorrenti al pagamento delle
spese del procedimento, hanno stabilito il seguente
principio di diritto: "in assenza di una espressa
dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti
nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di
astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in
precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono
considerarsi inefficaci".
Le Sezioni unite hanno, altresì,
stabilito che "la dichiarazione di inefficacia degli
atti può essere sindacata, nel contraddicono tra le
parti, dal giudice della cognizione, con conseguente
eventuale utilizzazione degli atti medesimi".
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. |