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Giudice penale si astiene: quali atti si salvano?Cassazione penale , SS.UU., sentenza 05.04.2011 n° 13626

 

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONI UNITE PENALI

 

Sentenza 16 dicembre 2010 - 5 aprile 2011, n. 13626

 

Svolgimento del processo

 

1. Le sentenze di merito.

 

1.1. Oggetto del presente procedimento è la partecipazione degli imputati ad una associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, operante dalla fine degli anni ottanta al mese di luglio del 1994 tra la Calabria, la Campania ed il Lazio, che ruotava intorno alla figura di L.U.G., coadiuvato dai fratelli Fr. e Pa.Cl., nonchè la commissione da parte degli imputati dei reati-fine della predetta associazione.

 

L'esistenza dell'illecito sodalizio era stata accertata nel processo a carico di L. e dei Pa., definito, all'esito del rito abbreviato, con sentenza del 16 giugno 1999, dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria, confermata in appello il 23 aprile 2001 e divenuta esecutiva il 19 luglio 2001;

 

tale sentenza veniva acquisita agli atti del presente processo ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen..

 

Nel procedimento a carico degli imputati, il L. e i Pa., divenuti collaboratori di giustizia, venivano escussi a norma dell'art. 197-bis c.p.p., comma 1.

 

A seguito dell'accoglimento da parte del Presidente del tribunale della dichiarazione di astensione operata dai componenti del collegio che aveva fino ad allora condotto il dibattimento, alla udienza del 21 febbraio 2003, il Tribunale di Locri, in diversa composizione, disponeva la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale mediante lettura, ex art. 511 cod. proc. pen., degli atti di prova orale già espletati, in assenza della dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti ex art. 42 c.p.p., comma 2.

 

Successivamente si verificava un altro mutamento del collegio ed il Tribunale, nella diversa composizione, disponeva rinnovazione della istruttoria dibattimentale mediante lettura degli atti di prova orale in precedenza espletati.

 

1.2. Con sentenza emessa il 21 gennaio 2001, il Tribunale di Locri dichiarava gli imputati colpevoli del reato associativo - ad eccezione dello S., assolto per non aver commesso il fatto - e degli altri reati rispettivamente ascritti per detenzione, acquisto e cessione di sostanze stupefacenti.

 

1.3. In parziale riforma della sentenza di primo grado, in data 14 marzo 2007, la Corte di appello di Reggio Calabria, dopo avere rigettato alcune eccezioni processuali concernenti la nullità della sentenza di primo grado per inutilizzabilità degli atti assunti dallo iudex suspectus, non essendovi stata la declaratoria di efficacia di cui all'art. 42 c.p.p., comma 2, e di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, effettuate in altro procedimento, per mancanza dei decreti autorizzativi, rigettava l'appello del P., assolveva T.S. dai reati di cui ai capi C3 e D3 per insussistenza del fatto, determinando la pena per i residui reati, e riduceva la pena inflitta agli altri imputati.

 

2. I motivi dei ricorsi.

 

2.1. D.M. deduceva:

 

a) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione all'art. 42 c.p.p., comma 2, art. 525 c.p.p., comma 2 e art. 190-bis cod. proc. pen. e, con riferimento agli artt. 178 e 179 cod. proc. pen., perchè il Presidente del tribunale, nell'accogliere la dichiarazione di astensione, aveva omesso di dichiarare, ai sensi dell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2, quali atti già compiuti dal giudice astenutosi conservassero efficacia; cosicchè il collegio del Tribunale di Locri che conduceva il dibattimento non avrebbe potuto ritenere, sia pure con il consenso delle parti, utilizzabili atti per i quali era stata omessa la declaratoria di efficacia da parte del presidente del tribunale.

 

Deduceva, inoltre, il ricorrente che alla udienza del 22 gennaio 2003, nel corso della quale furono acquisiti e dichiarati utilizzabili ai fini della decisione gli atti, era privo di difensore sia di fiducia che di ufficio. b) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione agli artt. 192 e 238-bis cod. proc. pen. ed al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 e della L. n. 685 del 1975, art. 71 nonchè art. 81 cod. pen., perchè, per ritenere il delitto associativo, la corte di merito avrebbe valorizzato sic et simpliciter, senza alcuna ulteriore indagine e senza l'acquisizione di riscontri, la sentenza passata in giudicato, con la quale era stata accertata l'esistenza di una associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti composta da L. e dai due fratelli Pa., i quali, peraltro, esaminati nel presente processo, avevano smentito di essersi associati, affermando che "ciascuno agiva per se".

 

Inoltre il ricorrente lamentava: 1) la omessa motivazione sulla esistenza di legami con tale M.N., che aveva inviato vaglia postali a (OMISSIS) ritenuti pagamento di partite di droga, 2) la irrilevanza dell'arresto di esso ricorrente in data 5 settembre 1989 per possesso di modeste quantità di cocaina, trattandosi di tossicodipendente, 3) la omessa motivazione sul luogo di costituzione dell'associazione ed il fatto che non fosse stata ritenuta, tutto al più, una ipotesi di concorso continuato in cessioni di droga e non di delitto associativo, 4) la inattendibilità delle dichiarazioni del L., 5) la contraddittorietà della motivazione laddove in una parte si sosteneva che la partecipazione al sodalizio criminale non poteva essere desunta da una serie di operazioni compiute con le stesse persone, ma dalla coscienza di fare parte di una associazione, ed in un'altra che nel caso in esame la partecipazione era desunta dalla straordinaria stabilità e continuità dei rapporti, 6) la omessa motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati-fine. c) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., per non avere la corte di merito tenuto conto dello stato di tossicodipendenza, cui andava attribuito rilievo maggiore rispetto ai precedenti penali.

 

2.2. T.S. deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

 

a) la erronea applicazione della L. n. 685 del 1975, art. 75 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 perchè era stato ritenuto il delitto associativo pur in assenza dei caratteri della organicità e stabilità del vincolo. b) la violazione degli articoli indicati nel precedente motivo in relazione ai requisiti della condotta partecipativa, avendo i giudici del merito ritenuto penalmente rilevante una mera adesione psicologica alla associazione in difetto del riscontro costituito dalla partecipazione a reati-fine; le condotte accertate potrebbero piuttosto configurare il delitto di favoreggiamento. c) la manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. citati nel primo motivo di impugnazione, nonchè all'art. 192 cod. proc. pen. per essersi i giudici del merito limitati a recepire, quanto alla esistenza della associazione, le conclusioni cui era pervenuta la sentenza resa dal G.u.p. del Tribunale di Reggio Calabria il 16 giugno 1999 ed a richiamare per relationem le considerazioni del primo giudice; lamentava, inoltre, il ricorrente le numerose contraddizioni ravvisabili nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

 

2.3. C.T. deduceva:

 

a) il vizio di motivazione e la inosservanza dell'art. 511 c.p.p., comma 2 e art. 525 c.p.p., comma 2, perchè sia alla udienza del 21 febbraio 2003 che a quella del 21 aprile 2004, nelle quali, essendo mutato il collegio, veniva disposta la rinnovazione della istruttoria dibattimentale e, previo consenso delle parti, veniva dichiarata la utilizzabilità degli atti assunti in precedenza, il difensore di fiducia della ricorrente era assente per legittimo impedimento. b) il vizio della motivazione e la violazione dell'art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, perchè i risultati delle intercettazioni telefoniche della utenza (OMISSIS), assunte in altro processo, erano inutilizzabili per omesso deposito da parte della procura della Repubblica dei decreti autorizzativi e dei verbali, essendo stati, peraltro, dichiarati inutilizzabili con sentenza del Tribunale di Roma del 3 ottobre 1996; la Corte di merito sul punto si era limitata ad affermare che la prova della inutilizzabilità avrebbe dovuto essere fornita dalla appellante. c) il vizio di motivazione e la inosservanza di norme penali perchè le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia L. e fratelli Pa. erano contraddittorie e nelle stesse non erano contenute accuse nei confronti della C.; inoltre non vi era la prova della coscienza e volontà della C. di far parte di una associazione per delinquere. Infine la ricorrente si doleva della omessa motivazione in ordine alla richiesta di revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata per insussistenza della pericolosità sociale.

 

2.4. S.R. deduceva:

 

la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza e manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato e dagli altri atti specificamente indicati nel gravame, perchè la corte di merito aveva dato rilevanza alle dichiarazioni dei fratelli Pa. non adeguatamente valutate quanto a precisione e coerenza, tenuto conto delle numerose lacune e discrasie riscontrabili nel narrato dei due collaboratori di giustizia puntualmente indicate dal ricorrente ed in assenza di validi riscontri esterni.

 

2.5. P.P. deduceva:

 

a) la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all'art. 192 c.p.p. e art. 125 c.p.p., comma 3, nonchè art. 111 Cost., con riferimento alla L. n. 685 del 1975, art. 75 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 nonchè con riferimento alla L. n. 685 del 1975, art. 71, perchè la corte di merito aveva acriticamente recepito la motivazione del primo giudice.

 

Il ricorrente denunciava, inoltre, una serie di illogicità quanto alla valutazione delle contraddittorie dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

 

Con memoria difensiva del 14 settembre 2010 il ricorrente lamentava anche "l'improprio utilizzo della sentenza irrevocabile del G.u.p. di Reggio Calabria del 16 giugno 1999". b) il vizio di motivazione in relazione all'art. 133 cod. pen. per la eccessività della pena in relazione alla evanescenza del quadro probatorio ed alla notevole risalenza nel tempo delle vicende in discussione.

 

3. L'ordinanza di rimessione.

 

3.1. La Sesta sezione penale, alla quale era stato assegnato il procedimento in discussione, con ordinanza del 24 settembre 2010, rimetteva i ricorsi alle Sezioni unite penali.

 

L'ordinanza di rimessione, con riferimento al primo motivo di ricorso del D., concernente, come già messo in evidenza, la nullità della sentenza di primo grado perchè fondata sugli atti dichiarati utilizzabili ai sensi dell'art. 525 c.p.p., comma 2 e art. 511 cod. proc. pen., senza previa dichiarazione del Presidente del tribunale, che aveva accolto la richiesta di astensione, della efficacia degli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi, ritenuto di "carattere preliminare ed estensibile a tutti i ricorrenti", segnalava la esistenza di un contrasto di giurisprudenza.

 

Secondo un primo indirizzo (Sez. 1, n. 2799 del 1997, Rv. 207741, Zuccotti, investita per la soluzione di un conflitto di competenza e Sez. 1, n. 32800 del 2005, Rv. 231889, Di Mauro) "spetta al presidente di un tribunale che abbia autorizzato l'astensione di un giudice del medesimo tribunale e non al nuovo collegio giudicante indicare, ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 2, se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenuto conservino efficacia, cioè possano essere mantenuti nel fascicolo per il dibattimento, ferma restando, poi, la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere, sulla scorta di quanto previsto dall'art. 511 cod. proc. pen. in relazione all'art. 525 c.p.p.".

 

In motivazione la predetta sentenza distingueva il piano della efficacia degli atti precedentemente compiuti dal giudice ricusato o astenutosi di competenza del giudice della ricusazione o della astensione da quello della utilizzabilità degli stessi mediante il meccanismo di acquisizione e recupero delineato dall'art. 511 cod. proc. pen. riguardante le letture consentite di competenza del collegio giudicante e concludeva affermando che "il riconoscimento della efficacia degli atti compiuti nel primo dibattimento costituisce la premessa logica e giuridica alla quale è subordinata l'applicazione dell'art. 511 cod. proc. pen.".

 

Secondo altro indirizzo (Sez. 1, n. 4227 del 1997, Rv. 208409, Barreca, in fattispecie relativa a provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare adottato dal collegio del quale faceva parte il giudice astenutosi), che sembra avere recuperato un precedente giurisprudenziale maturato in vigenza del precedente codice di procedura penale e con riferimento all'art. 70 c.p.p. 1930, comma 2, che affrontava il problema in termini di validità e non di efficacia degli atti (Sez. 2, n. 12233 del 1978, Rv. 140129, Governatori), invece, "sono validi gli atti compiuti dal giudice astenutosi, della cui sorte (validità o invalidità) non è fatta menzione nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione" (così anche Sez. 1, n. 27604 del 2001, Rv. 219145, Sciarabba).

 

I giudici rimettenti, dopo avere rilevato che, in mancanza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti compiuti dal giudice della ricusazione e/o dell'astensione, sembrerebbe esclusa la possibilità delle parti di consentire alla lettura dei verbali degli atti assunti, esclusione definita singolare in materia probatoria, preso atto del contrasto e della delicatezza della questione, rimettevano la soluzione del problema alle Sezioni Unite Penali.

 

3.2. Il Primo presidente, con decreto in data 21 ottobre 2010, assegnava il ricorso alle Sezioni unite, fissandone la trattazione all'odierna udienza.

 

Motivi della decisione

 

1. La questione controversa.

 

Le Sezioni unite debbono, pertanto, stabilire "se, in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato possano essere utilizzati". 1.1. In punto di fatto, come si è già rilevato, è accaduto che il Presidente del Tribunale di Locri, ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 1, ha accolto la dichiarazione di astensione di alcuni componenti del collegio, a cui era stato assegnato il processo contro D. + 4, ma ha omesso di dichiarare, ai sensi dello stesso art. 42, comma 2, quali atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi conservassero efficacia.

 

Il nuovo collegio, su accordo delle parti, dichiarava utilizzabili gli atti probatori assunti in precedenza da altro collegio e ne dava lettura ai sensi dell'art. 511 cod. proc. pen..

 

Mutato ancora il collegio, si dava di nuovo lettura degli atti, assunti in precedenza, dichiarati utilizzabili sempre previo accordo delle parti.

 

Il ricorrente D.M., con il primo motivo di ricorso, ha dedotto la nullità della sentenza di primo grado perchè fondata su atti probatori inutilizzabili, non essendo stata previamente dichiarata la efficacia degli atti dai Presidente del tribunale che aveva accolto la dichiarazione di astensione, provvedimento che costituisce il presupposto logico per la successiva dichiarazione di utilizzabilità, da parte del collegio giudicante, degli atti assunti dallo iudex suspectus.

 

La tesi del ricorrente non è condivisibile, e ciò anche a voler prescindere dalla considerazione che il motivo presenta un tasso di genericità non avendo il ricorrente indicato in modo specifico gli estremi del provvedimento, nè quali sarebbero gli atti affetti da inefficacia nè quali effetti concreti essi avrebbero prodotto sulla decisione impugnata.

 

1.2. Va premesso che gli istituti della incompatibilità, della astensione e della ricusazione tutelano specificamente il principio fondamentale della imparzialità del giudice.

 

Principio che implica, come chiarito da autorevole dottrina, non soltanto l'assenza di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi delle parti in causa, ma, in una prospettiva più ampia, la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti e valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di decidere secondo diritto e giustizia.

 

E' indubbio che tale principio trovi un preciso fondamento costituzionale a seguito della revisione con la legge costituzionale n. 2 del 1999 dell'art. 111 Cost., che ha fatto riferimento al concetto di terzietà del giudice, che costituisce un corollario di quello di imparzialità, implicando che il giudice si trovi in una posizione di estraneità alle funzioni sia dell'accusa che della difesa.

 

Sulla astensione di un giudice di tribunale decide, come è noto, il presidente dello stesso tribunale, al quale la dichiarazione sia presentata, con decreto e senza formalità di procedura (art. 36 c.p.p., comma 3), mentre sulla ricusazione decide la corte di appello (art. 40 c.p.p., comma 1) a norma dell'art. 127 c.p.p., dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni.

 

Quando la dichiarazione di astensione o di ricusazione venga accolta, "il giudice non può compiere alcun atto del procedimento" (art. 42 c.p.p., comma 2).

 

Prescindendo dalla sanzione - nullità assoluta o inutilizzabilità - che colpisce gli atti eventualmente compiuti dal giudice dopo l'accoglimento della dichiarazione di astensione o ricusazione, perchè non interessa ai fini della decisione sul motivo di ricorso in discussione, deve essere esaminato l'art. 42 cod. proc. pen., comma 2, secondo il quale "il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia".

 

Come già detto il provvedimento presidenziale in discussione ha omesso la declaratoria di efficacia degli atti assunti prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione anche con il concorso dello iudex suspectus.

 

La Corte di appello di Reggio Calabria, nel respingere l'eccezione di nullità del D. analoga al motivo di ricorso, aveva ritenuto che "la fondatezza dell'eccezione è inficiata dalla circostanza (...) che la successiva acquisizione da parte del nuovo collegio di tutti i verbali delle prove precedentemente acquisite è avvenuta con il consenso delle difese". Ha concluso sul punto la corte territoriale che "il consenso in questione, lungi dal cadere su atti inefficaci (e perciò irrecuperabili), e quindi inefficace esso stesso, abbia l'effetto di sanare ogni possibile nullità (non assoluta, che qui non ricorre) ai sensi dell'art. 183 c.p.p., comma 1, lett. a)". 1.3. Sul punto, come correttamente rilevato dai giudici rimettenti, esiste un contrasto di giurisprudenza.

 

Secondo un primo indirizzo, che appare prevalente (Sez. 1, n. 2799, 16 aprile - 27 maggio 1997, Zuccotti ed altri, Rv. 207741, che ha risolto un conflitto di competenza insorto tra il presidente del tribunale che aveva accolto la dichiarazione di astensione ed il collegio giudicante), "qualora il presidente di un tribunale abbia accolto la dichiarazione di astensione formulata dal presidente del collegio giudicante costituito nell'ambito del medesimo tribunale, spetta allo stesso presidente del tribunale, e non al nuovo collegio giudicante, indicare, ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 2, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente conservino efficacia, cioè possano essere mantenuti nel fascicolo per il dibattimento, ferma restando, poi, la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere, sulla scorta di quanto previsto dall'art. 511 cod. proc. pen., in relazione all'art. 525 c.p.p.".

 

Nella motivazione la Corte distingueva il piano della efficacia degli atti precedentemente compiuti, al quale fa riferimento l'art. 42, comma 2, con quello della utilizzabilità degli stessi, mediante il meccanismo di acquisizione e di recupero delineato dall'art. 511 cod. proc. pen., riguardante le letture consentite. Insomma il nuovo collegio potrebbe dichiarare utilizzabili soltanto gli atti previamente ritenuti efficaci dal presidente del tribunale, "costituendo il riconoscimento dell'efficacia degli atti compiuti nel primo dibattimento la necessaria premessa logica e giuridica alla quale è subordinata l'applicazione dell'art. 511".

 

L'indirizzo risulta confermato da Sez. 1, n. 32800, 7 luglio - 30 agosto 2005, Di Mauro, Rv, 225756, che ha stabilito che spetta al giudice della ricusazione e non al nuovo collegio giudicante, indicare, se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente conservino efficacia, e da altre decisioni (Sez. 6, n. 23657, 16 maggio - 11 giugno 2001, Calabrò, Rv. 219004; Sez. 2, n. 21831, 28 gennaio - 5 giugno 2002, Tripodi, Rv. 221986; Sez. 1, n. 4824, 18 aprile - 22 maggio 1997, Galli, Rv. 207588; Sez. 1, n. 25096, 26 febbraio - 3 giugno 2004, Alampi; e, in via incidentale, dal momento che il tema essenziale della decisione era costituito dalla ritenuta non impugnabilita del provvedimento di cui all'art. 42 cod. proc. pen., comma 2, Sez. 6, n. 1391, 26 ottobre 2006 - 19 gennaio 2007, Cremonesi).

 

1.4. Altro orientamento, inizialmente formatosi sotto la vigenza dell'abrogato codice di rito, il cui art. 70, comma 2, disponeva che "l'ordinanza (che accoglie l'astensione o la ricusazione) determina se ed in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal magistrato astenutosi o ricusato o con il concorso di lui, conservano validità", ha, invece, affermato che gli atti precedentemente compiuti sono validi se non sia diversamente disposto nel provvedimento presidenziale che accoglie l'istanza di astensione (Sez. 2, n. 12233, 4 aprile - 12 ottobre 1978, Governatori, Rv.

 

140129, che, però, affrontava la questione in termini di validità e non di efficacia degli atti).

 

Tale orientamento, dopo l'entrata in vigore del nuovo codice, è stato espresso da Sez. 1, n. 4227, 19 giugno - 16 luglio 1997, Barreca, Rv. 208409, che ha fondato la decisione sui principi di conservazione degli atti e dell'economia processuale, "particolarmente sentiti in processi di notevole complessità, in cui sarebbe troppo macchinoso elencare le attività processuali ritenute ancora valide".

 

L'indirizzo è stato poi ribadito da altra decisione (Sez. 1, n. 27604, 4 giugno - 9 luglio 2001, Sciarabba, Rv. 219145).

 

In tali ultime decisioni, entrambe pronunciate in fattispecie relative a provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare adottato dal collegio del quale faceva parte un giudice poi astenutosi, si faceva, tra l'altro, notare che l'atto in discussione non aveva carattere contenutistico, ma procedurale, legato ad una valutazione di carattere esclusivamente formale.

 

1.5. E' fondato il prevalente indirizzo giurisprudenziale.

 

In primo luogo la interpretazione letterale dell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2 non da adito a dubbi.

 

La disposizione, infatti, nello stabilire che "il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia" determina in primo luogo con precisione il giudice che deve adottare il provvedimento.

 

Si tratta, invero, del giudice dell'astensione o della ricusazione, come affermato dalla richiamata sentenza Zuccotti, e come si desume dalla lettera della disposizione.

 

Del resto è proprio il giudice che decide sulla astensione che conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi e che può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza.

 

Inoltre, proprio perchè si tratta di un profilo molto delicato perchè attiene alla imparzialità e terzietà del giudice, il provvedimento che decide la sorte degli atti posti in essere dal giudice astenuto deve essere adottato con la maggiore celerità possibile al fine di evitare dubbi sulla parzialità del giudizio.

 

In effetti hanno affermato la esclusiva competenza del giudice della ricusazione e della astensione ad adottare il provvedimento sulla conservazione di efficacia degli atti in precedenza assunti dal giudice astenuto anche le numerose sentenze che, pur riconoscendo la necessaria tempestività del provvedimento stesso, hanno giustificato, per la complessità delle valutazioni da compiere, la non contestualità del provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, all'accoglimento della dichiarazione di astensione, da adottarsi, comunque, in sequenza ravvicinata a quest'ultima (tra le tante, Sez. 6, n. 23261, 18 marzo - 27 maggio 2003, Matteucci, Rv. 225756, che aveva ritenuto legittimo il provvedimento di efficacia degli atti depositato il giorno successivo a quello dell'accoglimento della dichiarazione di astensione).

 

1.6. Ma se su tale questione non sembra esservi contrasto, e d'altra parte nemmeno il ricorrente pone problemi sul punto, vi è, come già rilevato, contrasto in ordine alla necessità o meno della declaratoria di efficacia degli atti precedentemente assunti dal giudice astenuto.

 

Ancora una volta la interpretazione letterale della disposizione non lascia adito a dubbi perchè l'art. 42 cod. proc. pen., comma 2 precisa che "il provvedimento (...) dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia".

 

E' vero che la disposizione in discussione, che sostanzialmente riproduce quella dell'art. 70 codice previgente, viene tradizionalmente considerata espressione del principio di conservazione degli atti (vedi Relazione al Progetto preliminare del cod. proc. pen., 29), ma, come è stato attentamente osservato da autorevole dottrina, ove si fosse voluto attagliare la disposizione al principio di conservazione degli atti la si sarebbe dovuta formulare secondo uno schema antitetico del tipo "se e in quale parte gli atti compiuti perdano efficacia".

 

Del resto la prevalente dottrina, anche se qualche Autore ha avuto dei ripensamenti, si è pronunciata per la necessità di una espressa declaratoria di conservazione di efficacia degli atti, in difetto della quale gli atti compiuti dal giudice astenutosi e/o ricusato sono da ritenere improduttivi di effetti.

 

Vi è quindi una sorta di presunzione di inefficacia degli atti posti in essere dallo iudex suspectus prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o della ricusazione, che può essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tutti o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che abbia verificato se malgrado la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice, vi siano atti che non abbiano subito alterazione, così da poter essere conservati.

 

La necessità di una tale pronuncia, peraltro già affermata dall'art. 70 c.p.p. 1930, deriva anche da una interpretazione logico- sistematica dell'istituto in discussione.

 

Come si è già accennato, la disciplina delle incompatibilità, della astensione e della ricusazione è preordinata alla tutela del principio di imparzialità del giudice, coessenziale alla funzione dello ius dicere ed alla attuazione del giusto processo richiesto dalla Costituzione, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 20 maggio 1996, n. 155), che ha precisato che "tra i principi del "giusto processo", posto centrale occupa l'imparzialità del giudice, in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di significato e che l'imparzialità è perciò connaturata all'essenza della giurisdizione".

 

Ed anche la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la L. 4 agosto 1955, n. 848, all'art. 6, comma 1, dispone che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente (...) da parte di un tribunale indipendente e imparziale".

 

E' allora perfettamente comprensibile che in presenza di situazioni nelle quali l'imparzialità è violata o, semplicemente, appare compromessa, la legge processuale disponga il controllo dell'efficacia degli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato quale ineliminabile garanzia che il loro contenuto non è stato pregiudicato dalla situazione di sospetto che ha motivato l'accoglimento della richiesta di astensione o di ricusazione (tali argomenti sono contenuti nella motivazione della sentenza Zuccotti ed altri già richiamata).

 

L'obbligatorietà della declaratoria di efficacia degli atti ex art. 42 c.p.p., comma 2, trova significativa conferma nella disposizione di cui al D.L. 23 ottobre 1996, n. 553, art. 1, convertito nella L. 23 dicembre 1996, n. 652, come correttamente rilevato nella ordinanza di rimessione.

 

Tale decreto-legge intervenne subito dopo la sentenza della Corte cost. n. 371 del 1996, con cui fu dichiarata l'illegittimità dell'art. 34 c.p.p., comma 2, "nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia stata compiutamente valutata".

 

L'art. 1, comma 2, del citato decreto-legge dispose che conservano efficacia gli atti compiuti anteriormente al provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione del giudice per una delle cause di incompatibilità stabilite dall'art. 34 c.p.p., comma 2, quando sia già stata dichiarata l'apertura del dibattimento.

 

Si tratta di una norma transitoria e perciò eccezionale che deroga all'art. 42 c.p.p., comma 2, cosicchè risulta confermato che la regola non è quella della conservazione di efficacia degli atti, bensì quella contraria della inefficacia degli atti, salva la diversa espressa dichiarazione di cui all'art. 42 c.p.p., comma 2.

 

La soluzione raggiunta comporta, però, alcuni rilevanti problemi.

 

1.7. La mancanza di una declaratoria di efficacia degli atti determina, come si è detto, la inefficacia di tutti gli atti compiuti dal giudice prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o dell'accoglimento della istanza di ricusazione; le parti potrebbero non essere d'accordo con tale decisione.

 

Anche sull'apprezzamento negativo, o parzialmente negativo, del giudice che ha accolto la ricusazione o ha autorizzato l'astensione le parti potrebbero dissentire sia subito dopo l'adozione del provvedimento, sia, a maggior ragione, dopo l'espletamento della istruttoria dibattimentale e, quindi, causa cognita.

 

Le norme procedurali prevedono la impugnabilità della ricusazione e la inoppugnabilità del provvedimento sulla dichiarazione di astensione.

 

In ogni caso, però, non è prevista la impugnabilità del provvedimento emesso ex art. 42 c.p.p., comma 2, (Sez. 2, n. 25724 del 2004, Rv. 229029, Contaldo; Sez. 6, n. 1391 del 2007, Rv. 235728, Cremonesi).

 

In effetti, come emerge dalla relazione al codice di rito, i rilievi della Commissione parlamentare, secondo i quali la previsione dell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2 avrebbe assegnato una discrezionalità troppo ampia al giudice della astensione o della ricusazione, non furono condivisi dal Governo, in quanto si osservò che, nella applicazione dell'abrogato art. 70, comma 2, la giurisprudenza aveva evidenziato che scopo dell'ampio potere discrezionale conferito al giudice nel vagliare l'attività precedentemente compiuta dal giudice astenutosi o ricusato, è quella di consentirgli di verificare "con apprezzamento insindacabile" se nonostante la astensione o la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice ricusato, vi fossero in concreto atti che, non risultando in alcun modo influenzati dalle situazioni descritte negli artt. 36 e 37 cod. proc. pen., non perdessero il loro valore processuale.

 

La inoppugnabilità del provvedimento in discussione, però, se non temperata da un sistema di rivedibilità o di sindacabilità della decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione, finirebbe con il sottrarre definitivamente gli atti a contenuto probatorio dichiarati erroneamente inefficaci, o ritenuti tali per mancata pronuncia da parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione, all'apprezzamento del giudice del dibattimento che, fondandosi sul contraddittorio tra le parti, è il vero dominus nel sistema processuale vigente degli atti a contenuto probatorio.

 

Del resto, se la decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione non fosse sindacabile dal giudice del processo, le norme processuali, che prevedono la inoppugnabilità del provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, non si sottrarrebbero ad una censura di illegittimità costituzionale.

 

Tale problema si è, infatti, posto in sede civile, ove è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 53 cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede l'impugnabilità con il rimedio del ricorso straordinario per cassazione dell'ordinanza che decide sulla ricusazione del giudice, in quanto il principio di imparzialità è sufficientemente garantito dalla possibilità per la parte, che abbia visto rigettata la propria istanza di ricusazione, di chiedere al giudice di appello un riesame di tale pronuncia impugnando la sentenza conclusiva resa dal giudice invano ricusato (Sez. U civ., n. 17636 del 20 novembre 2003).

 

La Suprema Corte ha, altresì, precisato che in materia civile la ordinanza di inammissibilità dell'istanza di ricusazione non è impugnabile perchè manca del necessario carattere della definitività, in quanto la non impugnabilità ex se dell'ordinanza non esclude che il suo contenuto sia suscettibile di essere riesaminato nel corso dello stesso processo attraverso il controllo sulla pronuncia resa con il concorso dello iudex suspectus (Sez. 1^ civ., 23 aprile 2005, n. 8569).

 

Da quanto detto si desume che la illegittimità costituzionale derivante dalla inoppugnabilità dei provvedimenti in materia di astensione e ricusazione è stata esclusa soltanto perchè il contenuto del provvedimento è suscettibile di essere riesaminato nel corso del processo; un siffatto principio di portata generale non può non essere valido anche in materia penale; da ciò discende la necessità di una sindacabilità della declaratoria di efficacia, o della mancata declaratoria, ad opera del giudice del processo proprio per evitare, con una interpretazione costituzionalmente orientata dell'istituto, una illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 25 e 111 Cost..

 

1.8. Esaminando con maggiore precisione il provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, deve dirsi che, come è stato correttamente osservato, si tratta di un provvedimento di natura non decisoria, ma dichiarativa perchè fondato su una ricognizione degli atti a contenuto probatorio compiuta, inaudita altera parte, dal giudice della ricusazione, che ha in materia una competenza per così dire interinale (Sez. 6, n. 1391 del 2006, Cremonesi, cit.), che non può frustrare la competenza esclusiva del collegio giudicante a statuire in merito alla loro utilizzabilità effettiva, ai fini del decidere.

 

Posto che non bisogna confondere il piano della efficacia degli atti precedentemente compiuti, al quale fa riferimento l'art. 42 cod. proc. pen., comma 2, con quello della utilizzabilità degli stessi mediante il meccanismo di acquisizione e di recupero delineato dall'art. 511 c.p.p.riguardante le letture consentite, è necessario chiarire il significato della espressione "efficacia degli atti" contenuta nell'art. 42 cod. proc. pen., comma 2.

 

Il legislatore mentre definisce con precisione i concetti di inutilizzabilità e nullità degli atti a contenuto probatorio, non chiarisce cosa debba intendersi per inefficacia degli atti.

 

Orbene l'atto a contenuto probatorio ritenuto efficace è quello in grado di produrre effetti giuridici, e, quindi, in materia processuale penale è l'atto che può essere legittimamente mantenuto nel fascicolo per il dibattimento, fatto che costituisce il presupposto logico per una successiva, ed eventuale, utilizzazione dello stesso per la decisione.

 

Nel senso indicato si è espressa esplicitamente la Suprema Corte (Sez. 2, n. 21831, 28 gennaio - 5 giugno 2002, Rv. 221987), che ha affermato che la indicazione degli atti che conservano efficacia ex art. 42 cod. proc. pen. ha il significato di precisare quali atti possano essere mantenuti nel fascicolo del dibattimento, ferma la competenza esclusiva del collegio giudicante a stabilire la loro utilizzabilità o meno ai fini della decisione sulla scorta di quanto previsto dagli artt. 525 e 511 cod. proc. pen..

 

E anche la Corte costituzionale (ord. n. 25 del 2010) ha stabilito che il provvedimento ex art. 42, comma 2, "vale (...) a delimitare l'area del possibile "recupero" dell'attività istruttoria già espletata", recupero che può avvenire soltanto se gli atti a contenuto probatorio siano stati inseriti nel fascicolo del dibattimento.

 

Quindi sono efficaci gli atti che legittimamente possono essere inseriti nel fascicolo del dibattimento; tali atti possono in una fase successiva essere dichiarati utilizzabili ai fini della decisione.

 

Tuttavia la discussione sull'inserimento o meno degli atti dichiarati efficaci ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 2, non soffre la preclusione di cui all'art. 491 c.p.p., comma 1, che riguarda la selezione degli atti e dei documenti che possono essere conosciuti preventivamente dal giudice del dibattimento, ma non le valutazioni del giudice circa l'ammissibilità della prova desumibile sia da atti inseriti nel fascicolo del dibattimento sia da atti che erroneamente non vi siano stati inseriti (Sez. 5, 18 aprile - 22 maggio 2000, n. 5944, Benvenuto e Sez. 6, 6 febbraio - 27 maggio 2003, n. 23246).

 

Ciò perchè il giudice del dibattimento ha una competenza generale in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove ed alla assunzione delle stesse e sarà, pertanto, tale giudice a verificare in ultima analisi anche la efficacia o meno degli atti a contenuto probatorio compiuti dallo iudex suspectus prima della autorizzazione alla astensione ed a determinare la definitiva inclusione o esclusione di tali atti dal fascicolo per il dibattimento, attività che deve necessariamente precedere la valutazione di utilizzabilità o meno delle prove.

 

1.9. In effetti, approfondendo l'analisi della situazione processuale in esame, non vi è dubbio che quando venga autorizzata l'astensione o accolta la istanza di ricusazione si assiste necessariamente ad un mutamento dell'organo giudicante, monocratico o collegiale che sia.

 

Ebbene in siffatta ipotesi, in ossequio al principio della immutabilità del giudice di cui all'art. 525 c.p.p., comma 2, il dibattimento deve essere rinnovato e deve essere riproposta tutta la sequenza procedimentale prevista, a meno che le parti non consentano, o meglio non si oppongano (Sez. 5, 16 maggio - 19 settembre 2008, n. 35975, Rv. 241583) alla lettura dei verbali relativi alle prove in precedenza acquisite.

 

Ed è esattamente questo il momento in cui il provvedimento ex art. 42 c.p.p., comma 2, può essere sindacato, perchè le parti, prima di prestare il consenso alla lettura dei verbali delle prove già acquisite, ed il giudice, prima di dichiarare utilizzabili le prove stesse secondo il combinato disposto degli artt. 525 e 511 cod. proc. pen., valuteranno le prove acquisite anche per i profili che potrebbero determinarne la inefficacia ai sensi dell'art. 42 c.p.p., comma 2. 1.10. Per concludere sul punto la soluzione prospettata di sindacabilità del provvedimento di declaratoria di efficacia degli atti a contenuto probatorio assunti dal giudice poi astenutosi o ricusato elimina i dubbi di costituzionalità dell'art. 42 c.p.p., comma 2, e restituisce alle parti ed al giudice del dibattimento la piena disponibilità del materiale probatorio conformemente alla previsione del sistema processuale vigente.

 

Da tutto quanto precede risulta la infondatezza del primo motivo di impugnazione del D. perchè sia a seguito del primo mutamento del Collegio che del secondo i difensori consentirono alla lettura dei verbali degli atti probatori assunti; nella seconda occasione, infatti, risulta dal verbale di udienza che il consenso venne prestato dal difensore di ufficio, ritualmente presente, e già nominato come sostituto processuale dai difensori di altri due coimputati.

 

2. Gli altri motivi di impugnazione di D.M..

 

2.1. E' infondato, ed anzi ai limiti della ammissibilità, il secondo motivo di ricorso.

 

Come si è già sottolineato la prova della responsabilità del ricorrente è fondata essenzialmente su quanto emerge dalla sentenza, divenuta definitiva, che aveva condannato il L. ed i fratelli Cl. e Pa.Fr. per il delitto associativo e per diversi episodi di cessione di sostanze stupefacenti.

 

La detta sentenza è stata acquisita agli atti ai sensi dell'art. 238- bis cod. proc. pen. ed è stata valutata secondo i criteri di cui all'art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3.

 

Il ricorrente nell'atto di appello non si è doluto della utilizzazione della sentenza passata in giudicato e della violazione dell'art. 238-bis cod. proc. pen. e ciò determina la inammissibilità del motivo ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 3.

 

In ogni caso va detto che i giudici del merito hanno correttamente ritenuti accertati i fatti contestati al ricorrente perchè nella predetta sentenza si fa riferimento a numerosi elementi di riscontro, costituiti dagli esami del L. e di Pa.Cl., ritenuti intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili, dagli arresti del D. per possesso di sostanze stupefacenti, uno in compagnia di Pa.Cl. e l'altro in compagnia del coimputato P.P., e dal fatto che una sua compaesana di (OMISSIS) aveva inviato per suo conto vaglia postali a (OMISSIS) per pagamento di partite di droga.

 

I giudici del merito hanno posto in evidenza che il ricorrente agiva come stabile cessionario di partite di sostanza stupefacente, anche di rilevante entità, che poi cedeva agli spacciatori al minuto, ed hanno descritto le modalità di approvvigionamento; sotto tale profilo, tenuto anche conto della stabilità e continuatività dei rapporti di affari, e, quindi, del contributo dato dal ricorrente alla vita dell'associazione, i giudici dei primi due gradi hanno ritenuto, conformemente agli indirizzi giurisprudenziali sul punto della Corte di legittimità, la partecipazione del D. ad una associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti facente capo al L. ed ai Pa..

 

Gli ulteriori rilievi del ricorrente sul punto sono sostanzialmente di merito.

 

In ordine ai singoli episodi di cessione di sostanze stupefacenti il ricorrente non ha dedotto rilievi specifici; sul punto la sentenza impugnata ha fatto legittimamente riferimento per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado, tenuto conto della natura dei rilievi dell'appellante.

 

Non è, infine, ravvisabile nel caso di specie una ipotesi di concorso di persone in un reato continuato di cessione di sostanze stupefacenti perchè non vi è stato un accordo diretto alla commissione di uno o più reati determinati, ma un accordo diretto alla attuazione di un più vasto programma criminoso per la commissione di una serie indeterminata di delitti.

 

2.2. Di merito, oltre che generico, è il terzo motivo di impugnazione perchè è immune da censure in punto legittimità il diniego delle attenuanti generiche in ragione della presenza di numerosi precedenti penali.

 

3. I motivi di ricorso di T.S..

 

3.1. Il difensore dell'imputato, presente alla odierna udienza, ha insistito per l'accoglimento del primo motivo di ricorso del D., che non era stato oggetto nè di un proprio motivo di appello nè di analogo motivo di ricorso.

 

Secondo un risalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità il riconoscimento, a seguito di ricusazione, di una causa di incompatibilità del magistrato non produce effetti nei confronti dei coimputati che non l'abbiano invocata e non determina perciò per questi ultimi l'inefficacia - eventualmente dichiarata nel provvedimento di accoglimento della ricusazione - degli atti in precedenza compiuti dal giudice ricusato (Sez. 6, 1 luglio 1997, Aquino, Rv. 208555); cosicchè la parte privata che non abbia presentato la istanza di ricusazione, atto definito di natura personalissima, non sarebbe legittimata nemmeno a partecipare alla relativa udienza di discussione (Sez. 6, 6 aprile - 8 maggio 1998, n. 1280).

 

Secondo altro e più recente indirizzo è stato però affermato che le parti processuali, che pure non hanno proposto dichiarazione di ricusazione, hanno diritto di intervenire alla relativa udienza di discussione, fissata per iniziativa di altra parte, perchè hanno comunque interesse alla verifica, in effettivo contraddittorio, della condizione di imparzialità e di effettiva terzietà del giudice ricusato (Sez. 1, 20 gennaio - 2 marzo 2010, n. 8212, Rv. 246625).

 

Orbene, a parte il fatto che appare fondato il più recente indirizzo, tenuto conto che, come già detto, le norme sulla astensione e ricusazione tendono a dare attuazione ai principi costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice e ad assicurare il giusto processo, e che, pertanto, le relative questioni sollevate da una parte hanno natura oggettiva e sono estensibili a tutti i coimputati, come del resto rilevato dalla ordinanza di rimessione, va detto che nel caso di specie si tratta di un provvedimento di autorizzazione alla astensione del giudice per incompatibilità per precedenti funzioni svolte, riferibile, pertanto, a tutti gli imputati.

 

Inoltre le questioni concernenti la efficacia e la conseguente utilizzabilità degli atti compiuti dal giudice prima della dichiarazione di astensione o ricusazione sono deducibili in ogni stato e grado del processo.

 

Ritenuta, pertanto, la legittimità dei rilievi del difensore del T., va detto che gli stessi sono infondati per tutte le ragioni esposte nel paragrafo 1, alle quali si rinvia.

 

3.2. Infondati, ed anzi ai limiti della ammissibilità, sono i primi due motivi di ricorso del T..

 

Non è affatto vero che i giudici del merito abbiano ritenuto il delitto associativo anche in assenza dei caratteri della organicità e stabilità del vincolo (primo motivo).

 

Ed infatti nella motivazione della sentenza impugnata si è posto in evidenza non solo la esistenza di una associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, desunta, come si è già detto, da una sentenza irrevocabile pronunciata nei confronti del L. e dei fratelli Pa., elemento corroborato da validi e già esposti riscontri, oltre che dalle dichiarazioni rese nel corso del presente processo dal L. e da Pa.Cl., ma anche il fatto che il ricorrente, "anche se per un limitato ma intenso periodo della loro attività e precisamente dall'estate (OMISSIS) all'arresto del L. a (OMISSIS) di quello stesso anno e per pochi mesi dopo", affiancò Pa.Cl. nei suoi traffici a (OMISSIS) con il D. e lo S..

 

Tanto i giudici dei primi due gradi lo hanno desunto dalle dichiarazioni di Pa.Cl., ritenuto attendibile intrinsecamente ed estrinsecamente, dal fatto che venne visto in più occasioni in compagnia della coimputata C., e dall'esito di alcune intercettazioni telefoniche.

 

Non è poi vero che i giudici abbiano ritenuto la consumazione del delitto associativo sulla mera adesione psicologica del T. alle attività del Pa., fatto che avrebbe consentito di qualificare la sua condotta come quella di un favoreggiatore, dal momento che il T. è stato condannato anche per episodi di cessione di sostanze stupefacenti in concorso con altri associati indicati al capo P1, fatto sul quale nulla ha osservato il ricorrente.

 

Infondato è, quindi, anche il secondo motivo di ricorso.

 

3.3. Di merito è il terzo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente si è doluto del rilievo dato alle conclusioni della sentenza irrevocabile acquisita agli atti, e della quale si è già detto, e del fatto che nel racconto di Pa.Cl. e di altri collaboratori fossero ravvisagli numerose contraddizioni, perchè la Corte di merito, con motivazione immune da vizi logici e richiamando anche la motivazione della sentenza di primo grado, ha chiarito che le pretese contraddizioni dei collaboratori erano relative a fatti marginali, mentre chiara era la indicazione della partecipazione del ricorrente alla attività del gruppo e del contributo causale fornito dallo stesso al raggiungimento degli scopi della associazione.

 

Anche le censure concernenti le presunte discrasie circa il percorso compiuto dai corrieri per il trasporto della droga dalla Calabria a Roma sono di merito, avendo i giudici dei primi due gradi ricostruito con chiarezza e precisione il suindicato percorso, non apparendo per nulla rilevanti alcune supposte imprecisioni sulle strade effettivamente percorse.

 

4. La posizione di C.T..

 

4.1. Il primo motivo di impugnazione è manifestamente infondato perchè dal verbale della udienza del 21 febbraio 2003 non si desume che sia pervenuta - nè conseguentemente valutata - alcuna richiesta di rinvio per legittimo impedimento del difensore di fiducia, che risulta costituito come assente, e sostituito da un difensore di ufficio ritualmente designato; quest'ultimo, essendo mutata la composizione del collegio giudicante, prestò il consenso alla lettura dei verbali delle prove assunte.

 

La identica situazione ebbe a verificarsi alla udienza del 21 aprile 2004, allorchè, verificatosi altro mutamento del collegio, il difensore di ufficio nominato, stante l'assenza del difensore di fiducia, che non aveva presentato alcuna istanza di rinvio per legittimo impedimento, prestò il suo consenso alla lettura dei verbali delle prove orali assunte in precedenza.

 

Non risulta che l'imputata abbia formulato doglianza in appello e/o in cassazione in ordine alla eventuale omessa valutazione di una istanza di rinvio per legittimo impedimento relativa alle udienze predette.

 

Cosicchè del tutto rituale fu in entrambi i casi la nomina di un difensore di ufficio, il quale validamente prestò il suo consenso alla lettura degli atti, al fine del "recupero" delle prove orali assunte dal collegio nella precedente composizione secondo il meccanismo di cui agli artt. 525 e 511 cod. proc. pen..

 

4.2. E' infondato anche il secondo motivo di impugnazione concernente la pretesa inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni telefoniche disposte ed eseguite in procedimento diverso ed il vizio di motivazione della Corte di merito sul punto.

 

In effetti la parte aveva prodotto una sentenza del Tribunale di Roma emessa il 3 ottobre 1996 relativa a fatti di droga commessi in Roma nel 1993, dalla quale risultava che i decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche non erano stati trasmessi al Tribunale dalla locale Procura; non sembra che le predette intercettazioni siano state dichiarate formalmente inutilizzabili.

 

In ogni caso, tenuto conto dei tempi diversi dei reati contestati, non è dato sapere se le intercettazioni menzionate nella sentenza del Tribunale di Roma fossero le stesse di questo processo.

 

La parte non ha prodotto alcunchè e neppure ha indicato con precisione i tempi e le modalità delle intercettazioni contestate.

 

Corretta, pertanto, è la motivazione resa dalla Corte di merito che, nel rigettare l'eccezione, si è uniformata ad un principio più volte affermato dalla Suprema Corte, secondo il quale nel caso in cui una parte deduca il verificarsi di cause di nullità o inutilizzabilità collegate ad atti non rinvenibili nel fascicolo processuale (perchè appartenenti ad altro procedimento o anche - qualora si proceda con le forme del dibattimento - al fascicolo del pubblico ministero), al generale onere di precisa indicazione che incombe su chi solleva l'eccezione si accompagna l'ulteriore onere di formale produzione delle risultanze documentali - positive o negative - addotte a fondamento del vizio processuale (da ultimo Sez. U., n. 39061 del 16 luglio - 8 ottobre 2009, De Iorio, Rv. 244329).

 

In ogni caso la motivazione della sentenza impugnata non fonda la responsabilità della C. sull'esito delle intercettazioni telefoniche in discussione perchè, nella individuazione degli elementi di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaborante Pa.Cl., ha chiarito che dette dichiarazioni risultavano confermate dalla parola di Pa.Fr., in parte da quella del L. ed in pieno dalla testimonianza del maresciallo A. e solo "ad abbondanza" dalle intercettazioni telefoniche.

 

E' evidente allora che, anche a volere espungere dalla motivazione della sentenza impugnata il riferimento agli esiti di tali intercettazioni (cd. prova di resistenza), risulta ampiamente e logicamente motivata la responsabilità della C. in ordine ai reati che le sono stati contestati.

 

4.3. Da quanto detto emerge anche la infondatezza del terzo motivo di impugnazione, con il quale è stato dedotto il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità della C..

 

Ed infatti la Corte di merito ha messo in evidenza che dalle dichiarazioni di Pa.Cl. emergeva che la C., che aveva una relazione con il fratello Fr., si era adoperata in più occasioni per consentire che operazioni di cessione di sostanze stupefacenti andassero a buon fine e più volte aveva ospitato nella sua abitazione anche altri esponenti del gruppo, tra i quali il capo L..

 

Le dichiarazioni di Pa.Cl. risultano riscontrate da quelle rese, a seguito di contestazioni e pur tra alcune reticenze, da Pa.Fr., nonchè dalle dichiarazioni di L. e dalla testimonianza di A..

 

A fronte di tali elementi, illustrati dalla Corte di merito con una motivazione immune da vizi logici, la ricorrente ha sottoposto al vaglio della Corte di cassazione alcuni stralci delle dichiarazioni di Pa.Fr. e di L. sostenendo che una corretta interpretazione delle stesse avrebbe condotto a soluzioni del tutto diverse.

 

Il motivo per questa parte si palesa di merito e mira, inammissibilmente, ad ottenere dalla Corte di cassazione una diversa valutazione del materiale probatorio.

 

4.4. Quanto, infine, alla denunciata omessa motivazione in ordine alla richiesta di revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata, va detto che da tutto il contesto motivazionale emerge con chiarezza la pericolosità sociale dei ricorrenti, e quindi anche della C., e che, comunque, il motivo di appello sul punto era del tutto generico, cosicchè la sentenza di appello risulta integrata in ordine a tale statuizione da quella di primo grado.

 

5. Il motivo di ricorso di S.R..

 

Lo St., conosciuto nell'ambiente come "il poliziotto", riproponendo il primo motivo di appello, ha dedotto il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per alcuni episodi di acquisto di sostanze stupefacenti, essendo stato, invece, assolto dal reato associativo.

 

Il ricorrente si è doluto che non fossero state esaminate tutte le doglianze proposte con l'atto di appello e che non fosse stata correttamente valutata la attendibilità intrinseca ed estrinseca dei due collaboratori di giustizia Cl. e Pa.Fr..

 

Quanto alla prima osservazione si deve rilevare che il giudice deve tenere conto di tutte le osservazioni della difesa, cosa che risulta essere avvenuta nel caso di specie, posto che è stato puntualmente richiamato in motivazione l'atto di appello dello S., ma non deve confutare tutti gli argomenti posti dalla difesa a sostegno delle proprie tesi, dovendo essere indicati in motivazione soltanto gli argomenti che legittimano la soluzione adottata.

 

Ebbene nel caso di specie la motivazione impugnata risulta immune dai rilievi indicati perchè la Corte di merito, con una motivazione precisa, ha riportato tutti gli elementi, peraltro già esposti dal giudice di primo grado, che imponevano una affermazione di responsabilità del ricorrente per i fatti di acquisto a fine di cessione di sostanza stupefacente in rilevante quantità - cinque o seicento grammi di cocaina per volta - da Pa.Cl. e Fr., da L., da T.e.d.Capoccia.

 

L.C.i.r.i.c.d.d.r.

 

d.f. P., che avevano indicato "il poliziotto", identificato nello S., come l'acquirente di sostanze stupefacenti che avevano conosciuto tramite tale " P. di (OMISSIS)" in un bar di tale quartiere.

 

A parte l'attendibilità intrinseca dei due collaboratori, più volte affermata nella sentenza impugnata, la Corte ha posto in evidenza che le dichiarazioni dei due Pa., che è bene dire sono autonome perchè i due hanno deciso di collaborare in tempi diversi quando si trovavano detenuti in località distanti, si riscontrano reciprocamente e risultano riscontrate anche dagli esiti delle indagini sul " P. da (OMISSIS)", riferite dal maresciallo A., e dai contatti telefonici di " R." con la C., presso la quale talvolta il ricorrente si riforniva di droga.

 

A fronte di tali imponenti elementi il ricorrente si è doluto del fatto che le dichiarazioni dei due Pa. presentavano imprecisioni e contraddizioni.

 

Ma di tale obiezione la Corte ha tenuto conto spiegando che alcune imprecisioni erano comprensibili e giustificabili, considerato che i due Pa. avevano deposto a distanza di dodici anni dai fatti e che, comunque, esse non intaccavano il nucleo fondamentale della deposizione dei due collaboratori di giustizia, che appariva preciso e puntuale.

 

Del tutto rispettosa dei canoni interpretativi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia è, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata.

 

Le ulteriori osservazioni del ricorrente sono di merito perchè mirano ad ottenere una diversa valutazione del materiale probatorio.

 

6. La posizione di P.P..

 

Anche il P. si è lamentato che i due collaboratori Fr. e Pa.Cl. fossero stati ritenuti attendibili intrinsecamente ed estrinsecamente; ha aggiunto che le loro propalazioni apparivano equivoche.

 

Si è doluto il ricorrente anche del fatto che la Corte di merito avesse reso una motivazione per relationem alla motivazione della sentenza del primo giudice.

 

I rilievi sono infondati.

 

6.1. A parte il fatto che, come meglio si dirà, la motivazione impugnata non può considerarsi per relationem, va detto che tale tipo di motivazione è pienamente legittimo quando vengano dedotte dall'appellante questioni già esaminate e risolte dal giudice di primo grado (Sez. 5, n. 3751 del 15 febbraio - 23 marzo 2000, Re Carlo, Rv. 215722; conforme Sez. 6, n. 31080 del 14 giugno - 15 luglio 2004, Cerrone, Rv. 229299).

 

Ebbene questa è esattamente la situazione in esame, perchè il ricorrente aveva proposto in appello questioni relative alla attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, già sottoposte al vaglio del giudice di primo grado e da questi risolte, senza che le censure contenessero elementi di novità rispetto a quelli già esaminati e disattesi.

 

In ogni caso la motivazione in discussione non può ritenersi per relationem perchè la Corte di merito ha chiarito che i due fratelli Pa. avevano riferito che il P., che era sostanzialmente socio di Cl. e con il quale la collaborazione era proseguita anche dopo l'arresto del L., si occupava del trasporto di sostanze stupefacenti dalla Calabria a Roma e provvedeva poi alla distribuzione ai vari acquirenti, tra i quali il D., insieme al quale venne arrestato in casa di questo il 4 settembre 1989 per una questione di cento grammi di cocaina.

 

In ordine alla ritenuta attendibilità intrinseca dei due fratelli Pa. non può farsi altro che rinviare a quanto già si è detto nel trattare la posizione dello S.; è sufficiente aggiungere che secondo la Corte di merito nel caso del P. le dichiarazioni dei due Pa. sono particolarmente univoche, e quindi prive di contraddizioni.

 

I riscontri esterni sono stati individuati dai giudici del merito nel già ricordato arresto del P. insieme al D., nell'invio di danaro, ritenuto pagamento di partite di stupefacenti, a mezzo vaglia a (OMISSIS) dall'ufficio postale di (OMISSIS), ove risiedeva D., oltre agli altri specificamente indicati dal teste A. e nemmeno contestati dal ricorrente.

 

Infine non è vero che il L. non abbia parlato del P., dal momento che questo collaboratore lo indicò come persona molto vicina ai Pa., che venne arrestato a casa del D. per un fatto di droga.

 

6.2. Con la memoria difensiva, a parte la riproposizione di argomenti già contenuti nel ricorso, il ricorrente si è doluto "dell'improprio utilizzo della sentenza irrevocabile del G.u.p. di Reggio Calabria del 16 giugno 1999", acquisita ai sensi dell'art. 238- bis cod. proc. pen..

 

La censura è inammissibile sia perchè investe un punto della decisione che non era stato oggetto del ricorso (Sez. U, n. 4683 del 25 febbraio - 20 aprile 1998, Bono), sia perchè su tale aspetto non erano stati mossi rilievi nell'atto di appello.

 

In ogni caso si rinvia alle considerazioni svolte a proposito di analogo motivo proposto dal D..

 

6.3. Contiene censure di merito il secondo motivo di impugnazione concernente la misura della pena inflitta al P., tenuto conto della valutazione di gravità della condotta operata dai giudici di merito, che emerge da entrambe le motivazioni.

 

Del resto la eccessività della pena viene ritenuta dal ricorrente per la "evanescenza" della prova, considerazione che è infondata per le ragioni indicate e che, comunque, legittimerebbe, se fondata, una pronuncia assolutoria, ma non certo una pena contenuta, e per la risalenza nel tempo dei fatti contestati, circostanza che nulla toglie alla ritenuta gravità dei fatti stessi, elemento di cui si deve tenere conto ai sensi dell'art. 133 cod. pen. ai fini della determinazione della pena.

 

7. Conclusioni.

 

In conclusione le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, nel rigettare tutti i ricorsi e nel condannare i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, hanno stabilito il seguente principio di diritto: "in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato debbono considerarsi inefficaci".

 

Le Sezioni unite hanno, altresì, stabilito che "la dichiarazione di inefficacia degli atti può essere sindacata, nel contraddicono tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi".

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

 

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