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Svolgimento del processo
M.G. ricorre avverso la sentenza di
cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado,
lo ha riconosciuto colpevole del reato di duplice
omicidio colposo in danno di R. S. e Ra.Vi., perchè,
secondo la contestazione, quale proprietario e custode
di due cani di razza pitbull, per colpa, e cioè per
imprudenza e negligenza ed in violazione dell'art. 672
c.p., lasciava liberi o ometteva di custodire i predetti
animali, che assalivano nella campagna di (omissis), i
due uomini, provocandone la morte (fatto del (omissis)).
Si accertava, già in primo grado,
che i cani erano riusciti ad uscire dalla proprietà del
M. e che non vi era alcuna prova del tentativo di furto
che ignoti ladri avrebbero posto in essere
nell'abitazione del ricorrente la notte precedente al
fatto, lasciando aperto il cancello della proprietà.
Il giudice di appello confermava
tale ricostruzione, ribadendo il giudizio di
colpevolezza sul rilievo che non era stata assicurato un
sistema idoneo di chiusura del cancello, che si prestava
a frequenti malfunzionamenti, come si evinceva anche da
altre due precedenti fughe dei cani, pure accertate nel
presente procedimento.
Con il ricorso si deducono tre
motivi.
Con il primo si contesta il
giudizio di responsabilità sostenendosi la manifesta
illogicità della motivazione con riferimento alla
ricostruzione del fatto, laddove non si era tenuto conto
che nessun teste aveva riferito di avere assistito
all'aggressione da parte dei due cani, essendo giunti
sul posto solo quando un uomo era già deceduto e l'altro
agonizzante e che nessuna autopsia aveva accertato che
l'evento morte fosse riconducibile con certezza alla
condotta dei due cani. Si sostiene, inoltre, che il
percorso motivazionale operato dai giudici di merito era
apodittico in quanto non aveva neanche preso in
considerazione la possibilità, con particolare al Ra.,
che il cadavere fosse stato aggredito dai cani
successivamente al decesso. Con il secondo motivo
lamenta la manifesta illogicità della motivazione in
relazione alla confutazione della tesi difensiva volta a
dimostrare che nella notte precedente al fatto ignoti
ladri, nel porre in essere un tentativo di furto
dell'autovettura del ricorrente, avessero lasciato
aperto il cancello della villa.
Con il terzo motivo si lamenta la
mancata assunzione di una prova decisiva costituita
dalla testimonianza del M.llo de Carabinieri che avrebbe
raccolto le dichiarazioni del M. sul tentativo di furto
la mattina del fatto.
Motivi della decisione
Il ricorso è manifestamente
infondato, essendo chiaramente insussistenti le
denunciate violazioni di norme di legge e risolvendosi
in una censura di merito afferente la valutazione dei
mezzi di prova che sfugge al sindacato di legittimità,
in quanto la motivazione in proposito fornita dal
giudice di merito appare logica e congruamente
articolata.
Nessuna delle censure in diritto è
infatti sussistente.
Sull'addebito colposo in questione,
in termini generali, va infatti ricordato che, per
valutare il comportamento del soggetto tenuto alla
custodia ed accertarne "in positivo" la colpa, può e
deve aversi riguardo a quanto stabilito dall'art. 672
c.p., che, a prescindere dall'intervenuta
depenalizzazione, costituisce valido termine di
riferimento per la valutazione della colpa. Con la
precisazione che, in proposito, non sarebbe sufficiente
rifarsi alla presunzione di responsabilità stabilita
dall'art. 2052 c.c., che stabilisce principi che
rilevano solo in sede civile, ma con l'ulteriore,
doverosa precisazione che compete pur sempre al soggetto
onerato della custodia l'onere di fornire la prova del
"caso fortuito", ossia dell'essersi verificato un fatto
assolutamente improvviso, imprevedibile e non evitabile
dal custode, il quale, pur facendo uso di ogni
diligenza, risulti essere stato impedito di adeguare la
propria azione alla situazione creatasi, rendendo fatale
la verificazione dell'evento, in assenza di colpa, anche
minima (cfr., per riferimenti, Sezione 5, 6 agosto 1991,
Moscatelli e Sezione 4, 9 ottobre 2007, Iacovella).
Da ciò deriva, tanto per
esemplificare, la configurabilità della colpa
allorquando l'animale sia custodito in un luogo privato
o recintato, ma in tale luogo risulti possibile
l'introduzione inconsapevole di persone estranee (cfr.
Sezione 4, 1 marzo 1988, Pierleoni; nonchè, Sezione 4,
14 marzo 2006, Proc. gen. App. Roma in proc. Panzarin ed
altro). Da ciò deriva, analogamente, (con argomenti qui
rilevanti) la colpa del custode quando l'animale sia
ricoverato in un luogo inidoneo a prevenirne la fuga
(cfr. Sezione 4; 9 ottobre 2007, Iacovella, che, quindi,
ha ravvisato la responsabilità dell'imputato che aveva
rinchiuso il cane in un cortile da cui peraltro
l'animale era facilmente scappato per un'apertura nella
recinzione, così provocando un sinistro stradale).
La sentenza impugnata è in linea
con la giurisprudenza sopra richiamata.
Ciò premesso, manifestamente
infondato è il profilo di doglianza relativo alla
ricostruzione del fatto.
Vale ricordare, in proposito, che
il motivo di ricorso si risolve in doglianze di merito,
in particolare, in affermazioni di non condivisione
delle valutazioni compiute dai giudici di merito, che
hanno, invece, considerato compiutamente tutti i fatti,
ritenendo accertata la colpa dell'imputato per la
mancata adozione delle cautele e sussistente il rapporto
di causalità tra la sua condotta e l'evento
verificatosi.
In tal senso è sufficiente
evidenziare come la sentenza ha puntualmente evidenziato
le circostanze di fatto in base alle quali non può
essere posto in discussione che la morte di Ra. e R. sia
riconducibile ai due cani di proprietà del ricorrente:
la presenza sul corpo delle vittime di plurime lesioni
da morsi di cane in punti vitali e le concordi
testimonianze delle persone, ivi compresi i Carabinieri
intervenuti sul posto, che hanno assistito alla parte
finale dell'aggressione, quando gli animali stavano
ancora infierendo sul povero R. ancora vivo ma ormai
agonizzante; l'atteggiamento palesemente aggressivo
tenuto dai cani quella mattina del (omissis), quando,
rifugiatisi nell'abitazione dell'imputato, dopo il
fatto, manifestarono palese aggressività nei confronti
di chiunque tentasse avvicinarsi a loro, compreso il
padrone; le due precedenti fughe dei cani
dall'abitazione dell'imputato, pure accertate nel
presente procedimento.
Il ricorrente, per contro, anzichè
svolgere una critica della valutazione dei molteplici e
convergenti indizi, che sarebbe stata compiuta con
inosservanza delle regole preposte alla formazione del
convincimento del giudice, offre una propria diversa
verità processuale, la quale non può essere delibata in
sede di legittimità allorquando la struttura razionale
della sentenza impugnata abbia una sua chiara e puntuale
coerenza argomentativa e sia, senza contraddizioni o
salti logici, saldamente ancorata, nel rispetto delle
regole della logica e delle massime di comune
esperienza, al nucleo fondamentale delle risultanze del
complessivo quadro probatori.
Anche la doglianza relativa alla
affermata mancanza di prova della apertura del cancello
addebitabile ad ignoti ladri che avrebbero posto in
essere nella notte antecedente al fatto un tentativo di
furto dell'autovettura del ricorrente è manifestamente
infondata, trattandosi di considerazioni di merito che
si contrappongono ad una logica valutazione del giudice
di merito. La Corte territoriale, esclude, infatti, con
affermazione non sindacabile in sede di legittimità, che
nella specie fosse stata fornita la prova di tale evento
imprevedibile, evidenziando che la mattina del
(omissis), prima che fossero trovati i corpi di Ra. e
R., il M., presentatosi alla locale stazione dei
Carabinieri per denunciare la scomparsa dei cani, non
aveva fatto alcun accenno al presunto tentativo di
furto.
Alla luce di quanto sopra esposto è
evidente la manifesta infondatezza anche del terzo
motivo di ricorso con il quale si lamenta l'omessa
assunzione di una prova decisiva costituita dalla
testimonianza del M.llo de Carabinieri che avrebbe
raccolto le dichiarazioni del M. sul tentativo di
furto,.
Va in proposito ricordato che, per
assunto pacifico, per prova decisiva, la cui mancata
assunzione può costituire motivo di ricorso per
cassazione, deve intendersi solo quella che, confrontata
con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno
della decisione, risulti "determinante" per un esito
diverso del processo, e non anche quella che possa
incidere solamente su aspetti secondari della
motivazione ovvero sulla valutazione di affermazioni
testimoniali da sole non considerate fondanti della
decisione prescelta. Per l'effetto, tale vizio è
ravvisabile solamente quando la prova richiesta e non
ammessa, confrontata con le argomentazioni formulate in
motivazione a sostegno ed illustrazione della decisione,
risulti tale che, se esperita, avrebbe sicuramente
determinato una diversa pronuncia (cfr. Sezione 6, 2
aprile 2008, Nigro).
Qui, deve escludersi che la prova
indicata dal ricorrente, che, peraltro, non risulta
essere stata ritualmente richiesta ex art. 495 c.p.p.,
rivesta le caratteristiche innanzi richiamate in quanto
è volta a dimostrare circostanza già esclusa dal giudice
di merito con argomentazione desumibile dal contesto
probatorio acquisito, decisivamente risolutiva, che non
ammette censura in questa sede.
Alla inammissibilità del ricorso,
riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte
Cost. 7-13 giugno 2000, n.186), consegue la condanna del
ricorrente medesimo al pagamento delle spese del
procedimento e di una somma, che congruamente si
determina in Euro mille, in favore della cassa delle
ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore
della cassa delle ammende. |