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La sezione lavoro della Suprema
Corte ribadisce un principio essenziale per il diritto
del lavoro, ma forse non da tutti ancora condiviso,
visto il caso sottoposto alla sua attenzione: la
lavoratrice in stato di gravidanza non può essere
licenziata e, se il provvedimento espulsivo, ciò
malgrado, le viene intimato, esso è nullo.
Una commessa si era recata al
Pronto Soccorso lamentando un improvviso malore.
Diagnosticatole uno stato di gravidanza, ella provvedeva
a dare pronta notizia al proprio datore di lavoro.
Qualche giorno dopo, avvertendo un altro malore, la
signora si recava nuovamente all’ospedale, avvisava
dell’emergenza il datore di lavoro ed informava una
collega chiedendone, altresì, la presenza in sua
sostituzione al negozio. Diagnosticatole, questa volta,
una minaccia di aborto, si assentava forzatamente dal
lavoro, inviando il certificato medico alla società. Ciò
malgrado, veniva licenziata per abbandono del posto di
lavoro.
La Corte di Cassazione,
nell’esaminare la singolare vicenda, ha acclarato come
fosse certa, al momento dell'intimato licenziamento, la
conoscenza da parte del datore di lavoro dello stato di
gravidanza della dipendente, circostanza per la quale il
licenziamento, intimato in periodo di gestazione e senza
giusta causa, deve ritenersi nullo.
* * *
Corte di Cassazione, sez. Lavoro,
sentenza 30 novembre 2011 - 26 gennaio 2012, n. 1089
Presidente Vidiri – Relatore Stile
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 7/12/05
G. Di D., premesso di essere stata alle dipendenze della
M. M. s.r.l. dai 2/5/02 al 6/10/04 come commessa in un
negozio, esponeva di essere stata costretta da un serio
malore a recarsi il 3/10/04 al Pronto Soccorso
dell'Ospedale di Cosenza, ricevendo la diagnosi di
probabile gravidanza allo stato iniziale.
Aggiungeva che il 5/10/04, mentre
si trovava sul posto di lavoro, avvertendo dolori
lancinanti al basso ventre con emorragia, telefonava al
datore di lavoro e, nonostante segnalasse l'emergenza e
la necessità di recarsi in ospedale. quest'ultimo le
diceva di attendere.
Soggiungeva di avere
successivamente chiamato sia il proprio marito, al fine
di farsi accompagnare in ospedale, sia una collega di
lavoro, tale S. L., al fine di richiederne la presenza
in sua sostituzione al negozio.
Precisava, ancora, di essersi
recata, dopo l'arrivo della collega, all' ospedale, dove
le veniva diagnosticata una minaccia di aborto, con
prescrizione di riposo assoluto per sci giorni: di avere
trasmesso al datore di lavoro il certificato medico
attestante lo stato di malattia, che veniva però
rifiutato; di essersi vista recapitare lettera di
licenziamento con decorrenza dal 6.10.05. che faceva
riferimento ad un preteso abbandono del negozio senza
avere previamente avvisato il datore di lavoro.
affidandolo a persona estranea all'azienda.
Tanto esposto, evidenziato che il
licenziamento le era stato intimato durante lo stato di
gravidanza in violazione dell'art. 54 T.U. 151/2001
(art. 2 L. n. 1204/71), chiedeva al Tribunale di Cosenza
che venisse dichiarata la nullità del licenziamento con
condanna della società a reintegrarla nel posto di
lavoro ed a corrisponderle un'indennità commisurata alla
retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino all'effettiva reintegra - in ogni
caso non inferiore alle cinque mensilità - oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali, ed al
versamento dei contributi previdenziali ed
assistenziali; in via subordinata, chiedeva che fosse
ordinata la propria riassunzione e disposta la condanna
della controparte al pagamento dell'indennità ex art.8
L. n. 604/1966 nella misura massima.
Si costituiva la convenuta società,
chiedendo il rigetto del ricorso e deducendo che la
ricorrente aveva senza autorizzazione affidato il
negozio a persona estranea, pur essendo stata
autorizzata a chiuderlo e ad allontanarsi. Affermava la
sussistenza di una giusta causa di licenziamento,
contestando che la S. fosse una propria dipendente e di
avere avuto conoscenza al momento del licenziamento
dello stato di gravidanza della ricorrente. Ammessa ed
espletata la prova testimoniale, l'adito Tribunale
dichiarava la nullità del licenziamento, condannava la
società resistente a ripristinare il rapporto di lavoro
e a corrispondere alla ricorrente le retribuzioni
maturate dal momento del licenziamento sino
all'effettiva reintegra, oltre rivalutazione e interessi
legali, e alla rifusione delle spese processuali.
Proponeva appello alla decisione la
M. M. s.r.l. chiedendone la riforma ed il rigetto di
tutte le proposte domande.
Si costituiva la Di D., resistendo
al gravame, di cui chiedeva il rigetto.
Con sentenza del 23 ottobre-30
dicembre 2008 l'adita Corte d'appello di Catanzaro,
ritenuto che la situazione di fatto, così come esposta
dalla lavoratrice, risultava accertata e che pertanto
corretta era stata la decisione del primo Giudice,
rigettava il gravame.
Per la Cassazione di tale pronuncia
ricorre la M. M. s.r.l. con tre motivi Resiste G. Di D.
con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo mezzo d'impugnazione
la ricorrente società, denunciando omessa motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio
(art. 360 n. 5 c.p.c). lamenta che la Corte di Appello
sarebbe incorsa nel dedotto vizio laddove, nonostante
risultasse dimostrato mediante prova scritta (libro
matricolare e misura camerale della società) e orale
(testimonianze rese da S. P. e S. L.) che la signora G.
C. -alla quale era stata attribuita la scelta della
sostituta (L. S.) della Di D.- fosse completamente
estranea alla società ricorrente, aveva affermalo che la
C. era dipendente della società M. M., svolgendo la sua
attività di commessa presso un altro negozio della
società medesima.
Secondo la ricorrente quindi vi
sarebbe omessa motivazione su tale dato controverso.
Con il secondo motivo la
ricorrente, denunciando contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio
(art. 360 n. 5 c.p.c.), lamenta che la Corte d'appello
sarebbe incorsa nel denunciato vizio in relazione alla
scelta della sostituta (S. L.) della Di D. attribuita
dalla Corte di merito alla C., commessa addetta al
negozio Eredi M.; ciò in quanto in un "primo dictum" si
afferma nella sentenza che tale scelta sarebbe
imputabile a M. M. srl in quanto la C. era ritenuta sua
dipendente, mentre in un "secondo dictum " si afferma
che tale scelta sarebbe stata compiuta nell'ambito di
non meglio precisate aziende facenti capo a M. L.
-amministratrice di M. M. srl.
I due motivi, da trattarsi
congiuntamente perché strettamente connessi, sono
infondati.
Invero, la Corte territoriale, dopo
avere opportunamente riprodotto gli addebiti contenuti
nella lettera di licenziamento ("Lei ha abbandonato il
posto di lavoro senza avvisare il datore di lavoro e per
avere affidato a persona estranea il locale"), si è
preoccupata, di verificare, in relazione a detti
addebiti, la legittimità del licenziamento, riportandosi
al materiale probatorio acquisito, ricostruendo gli
avvenimenti, come segue.
Circa il primo addebito contestato,
la Di D., avvertito il malore dipendente dal suo stato
di gravidanza, lasciava il posto di lavoro, non senza,
però, avere avvisato l’amministratrice, sig.ra M.,
tant'è che poco tempo dopo l'allontanamento dal negozio,
lasciato affidato alla S., arrivarono "P. e la sig.ra
M.", la quale chiedeva alla prima cosa fosse successo;
circostanza, questa, sufficiente a dimostrare che sia lo
S. sia la M. erano a conoscenza, e dunque erano stati
avvisati, della necessità della Di D. di allontanarsi
dal negozio. Sul secondo punto contestato -- "avere
affidato il negozio a persona estranea all'azienda" la
Corte territoriale ha acclarato che la ricorrente chiamò
per telefono l'altro negozio facente capo alla stessa
società, e che dopo poco tempo giunse la sig.ra S.
prendendo in affidamento il negozio sino all'arrivo
della amministratrice e dello S.. Secondo la stessa S.,
essa era una cliente abituale e trovandosi
occasionalmente nel negozio venne mandata dalla C.,
altra dipendente della società, che era al lavoro in
quel momento nel negozio, a sostituire temporaneamente
la Di D..
Orbene, la Corte territoriale,
sulla base di siffatta ricostruzione degli avvenimenti,
ha coerentemente argomentato -replicando così alle
obiezioni dell'appellante, reiterate in questa sede con
i motivi di censura- come fosse irrilevante se la S.
fosse solo una cliente o, invece, una collega della Di
D. (e quindi evidentemente non denunciata come
dipendente), essendo stato, in ogni caso, il negozio
affidato, per iniziativa della Di D.. a persona che una
dipendente della società (la C.) aveva mandato
espressamente a rilevare la prima.
La Corte d'appello di Catanzaro,
dunque, confermando la decisione di primo grado, ha
ritenuto illegittimo il licenziamento intimato alla Di
D., esaurientemente motivando in relazione ad entrambi i
fatti addebitati ed in applicazione dell'art. 54, comma
2 e comma 5 d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151.
Quest’ultimo profilo è oggetto del
terzo motivo di ricorso con cui si lamenta che la Corte
territoriale abbia dichiaralo nullo il licenziamento in
quanto "intimato in periodo di gestazione e senza giusta
causa", ritenendo assolto l'onere di rendere edotto il
datore di lavoro dello stato di gravidanza della
lavoratrice attraverso la comunicazione di tale stato di
gravidanza al datore di lavoro, prima del recesso, ad
opera di persona che. lungi dall'essere un
rappresentante o un dipendente qualificato del datore di
lavoro, sia a quest'ultimo del tutto estranea.
Anche questo motivo è infondato.
Invero il Giudice a quo, per quanto
attiene alla conoscenza dello stato di gravidanza della
ricorrente da parte della M., ha osservato che la S. ne
aveva reso edotti la M. e il figlio, quando giunsero al
negozio, dopo che la Di D. era andata in Ospedale.
Pertanto, anche a prescindere dal
fatto che la ricorrente avesse già avvisato alcuni
giorni prima lo S. fora della probabile gravidanza e,
comunque è il caso di aggiungere- dalla ricorrenza
dell'oggettivo stato di gravidanza, era certo che al
momento dell'intimato il licenziamento, la M. sapeva
della condizione della Di D., per cui il licenziamento,
intimato in periodo di gestazione e senza giusta causa,
doveva ritenersi nullo, con le conseguenze stabilite dal
Tribunale.
Non ravvisandosi nell’iter
argomentativo adottato dalla Corte di Catanzaro le
violazioni ed i vizi denunciati, il ricorso va
rigettato.
Le spese del presente giudizio,
liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la
ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in €
20,00 oltre € 3.000,00 per onorari ed oltre spese
generali, IVA e CPA |