Diritto
e processo.com
•Se le parti non hanno previsto un
termine di scadenza del contratto, la banca è obbligata
alla restituzione a richiesta del depositante.
L'obbligazione restitutoria della banca, pertanto, non
deriva ipso iure dall'avvenuto deposito delle somme, ma
sorge solo a seguito della richiesta in tal senso
avanzata dal cliente, il quale ha, per converso, la mera
facoltà, e non certo l'obbligo, di esercitare il proprio
diritto di credito (alla restituzione).
•L'esercizio di tale diritto si
configura, dunque, quale condizione di esigibilità del
credito, in difetto della quale permangono (in
alternativa) il diritto del depositante a mantenere la
disponibilità delle somme (a detto credito
corrispondenti) presso la banca e l'obbligo della
depositaria di conservarle a sua disposizione. Tanto,
del resto, in coerenza con la natura del rapporto
negoziale, in cui la circostanza che il denaro sia
lasciato presso la banca costituisce situazione
corrispondente all'interesse delle parti, che integra da
ambo i lati adempimento del contratto di durata.
•Ne consegue che, in assenza di una
manifestazione di volontà della banca di recedere dal
rapporto, la prescrizione del diritto di credito del
depositante non può iniziare a decorrere prima che
questi avanzi la richiesta di restituzione, ponendo in
essere quel comportamento che rende il credito esigibile
e dal quale sorge il corrispondente obbligo della banca
Cassazione, sez. I, 20 gennaio
2012, n. 788
(Pres. Rovelli – Rel. Cristiano)
Svolgimento del processo
Con citazione del marzo del 2002
E..B. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Pavia
la banca Sanpaolo IMI s.p.a., incorporante per fusione
la Banca Provinciale Lombarda (BPL) s.p.a. e - premesso
di essere portatore del libretto bancario n. 0088116
emesso il 12.12.67 dalla BPL ed intestato al padre
defunto, B.G. - chiese la condanna della convenuta alla
restituzione della somma di L. 6.954.973, risultante a
saldo di tale libretto alla data dell'ultima operazione
effettuata (12.1.68), maggiorata degli interessi legali
anno per anno capitalizzati sino alla data della
citazione e degli ulteriori interessi, anch'essi
capitalizzati, dalla data della citazione al saldo.
La domanda fu respinta dal giudice
adito che, in accoglimento delle eccezioni svolte dal
Sanpaolo IMI, rilevò: che non vi erano elementi per
ritenere che il libretto fosse un titolo pagabile al
portatore; che, versandosi in tema di contratto di
deposito bancario, la banca convenuta era divenuta
proprietaria della somma ed era obbligata a restituirne
la stessa quantità solo al depositante; che l'attore non
aveva fornito prova di essere erede di G..B.; che, in
ogni caso, avuto riguardo alla data in cui era stata
eseguita l'ultima operazione, il diritto azionato era
prescritto. L'appello proposto da E..B. contro la
decisione fu parzialmente accolto dalla Corte d'Appello
di Milano con sentenza del 18.6.05, che condannò la
banca a pagare all'appellante l'equivalente in Euro
della somma di L. 6.954.973, maggiorata degli interessi
anno per anno capitalizzati dalla data della domanda
sino al saldo. La Corte territoriale, premesso che in
grado d'appello il B. aveva prodotto atto di notorietà
comprovante la sua qualità di erede del padre G., e che
la produzione del documento, indispensabile ai fini
della decisione, doveva ritenersi ammissibile ai sensi
dell'art. 345 c.p.c., osservò: che nel contratto di
deposito bancario regolato in conto corrente, che è
tipico contratto continuativo a tempo indeterminato, il
diritto di credito di una delle parti diventa esigibile
come saldo (attivo o passivo) solo una volta cessato il
rapporto; che, fino a quando il depositante non si
avvalga della facoltà di provocarne l'estinzione, il
rapporto continua con le sue caratteristiche, con la
conseguenza che il mancato compimento di operazioni sul
conto, che il depositante ha la mera facoltà, e non
l'obbligo, di eseguire, non può di per sé essere
qualificato inerzia, utile ai fini del decorso della
prescrizione; che l'inerzia nell'esercizio del diritto,
per essere socialmente ed univocamente interpretata
quale comportamento abdicativo, deve essere
circostanziata, situazione questa che la banca non aveva
neppure dedotto; che non risultava, d'altro canto, che
la BPL od il Sanpaolo IMI avessero mai comunicato a
G..B. o all'attore di voler recedere dal contratto; che,
pertanto, il contratto doveva ritenersi operante alla
data di notifica della citazione e l'appellante era
pienamente legittimato, quale erede del titolare del
libretto, a far valere il diritto del suo dante causa,
che non poteva ritenersi prescritto.
La sentenza è stata impugnata da
Sanpaolo IMI s.p.a. con ricorso per cassazione affidato
a quattro motivi.
Il B. ha resistito con
controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, cui il
Sanpaolo ha a sua volta resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato
memorie ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello
incidentale vano riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..
1) E..B. ha eccepito in limine
l'inammissibilità del ricorso principale per inesistenza
e/o nullità della procura conferita al difensore del
Sanpaolo IMI s.p.a. dal dr. N.P. "responsabile della
funzione contenzioso.. giusta i poteri al medesimo
conferiti in forza di procura in data 1.3.2004 per
Notaio Bazzoni di Torino".
Rileva, a fondamento di tale
eccezione, che la procura di cui all'art. 365 c.p.c.
deve essere rilasciata direttamente dalla parte, ovvero
da chi ha il potere di rappresentarla in forza di un
mandato generale ad negotia, con la conseguenza che il
procuratore generale alle liti non è abilitato a
conferire, a nome del proprio mandante, né a se medesimo
né ad altri, la procura speciale per proporre ricorso
per Cassazione. L'eccezione va respinta, in quanto
l'assunto del controricorrente, pur trovando conforto
nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3658/85),
è privo di attinenza al caso di specie: il dr. N. non è,
infatti, procuratore generale alle liti del Sanpaolo
IMI, ma suo procuratore ad negotia, abilitato a
rilasciare la procura speciale ex art. 365 c.p.c. in
forza dei poteri di rappresentanza sostanziale e
processuale conferitigli con l'atto del 1.3.2004 a
rogito del Notaio Bazzoni.
2) Con il primo motivo di ricorso,
il Sanpaolo IMI denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 345 c.p.c. e lamenta che la Corte di merito
abbia ritenuto indispensabile, e perciò ammissibile in
grado d'appello, l'atto notorio volto a provare la
qualità di E..B. di erede del padre G.. Osserva a
riguardo che l'appellante non ha mai dedotto di non aver
potuto produrre il documento nel corso del giudizio di
primo grado per ragioni a lui non imputabili e sostiene,
sotto altro J profilo, che la valutazione di
indispensabilità di un documento, ai fini del
superamento della preclusione processuale di cui
all'art. 345 c.p.c., va correlata alle prospettazioni
giuridiche della parte istante, con la conseguenza che,
avendo il B. negato che l'atto notorio fosse necessario
o utile alla decisione della causa, la Corte
territoriale avrebbe dovuto escluderne l'ammissibilità.
Il motivo deve essere respinto.
Va premesso che E..B. non ha negato
che l'atto notorio servisse a dimostrare la sua qualità
di erede, bensì che egli fosse tenuto a provare tale
qualità: ha infatti sostenuto che la sua legittimazione
alla domanda gli derivava, oltre che dal fatto di essere
successore dell'originario titolare del diritto, dal
mero possesso del libretto, costituente titolo al
portatore. Poiché l'assunto è stato respinto dal
Tribunale, la produzione dell'atto notorio si rendeva
necessaria per superare una questione processuale
pregiudiziale, attinente ad una condizione dell'azione e
rilevabile dal giudice d'ufficio: deve pertanto
escludersi che il documento rientrasse nella nozione di
mezzi di prova in senso stretto, ovvero inerenti al
merito della causa, cui deve intendersi riferito l'art.
345 c.p.c..
Ad ogni buon conto, entrambi gli
argomenti sui quali si fonda la censura sono infondati.
Il primo trova smentita nella
sentenza delle S.U. di questa Corte n. 8203/05, nella
quale si è evidenziata la natura alternativa, e non
concorrente, dei requisiti che i "nuovi mezzi di prova"
devono presentare per poter trovare ingresso in sede di
gravame e si è, altresì, precisato che il giudice
d'appello è abilitato ad ammettere le prove che ritenga
indispensabili, nonostante le preclusioni già
verificatesi in primo grado.
Il secondo contrasta con la lettera
della norma, che riserva al collegio il giudizio
sull'indispensabilità del nuovo mezzo di prova.
3) Col secondo motivo, il Sanpaolo
IMI deduce violazione degli artt. 99, 100 c.p.c. e 565 e
segg. c.c., nonché vizio di motivazione su un punto
decisivo della controversia.
Osserva che, proprio dall'atto di
notorietà prodotto da B.E. , emergeva che questi é solo
uno dei coeredi del padre defunto, che avrebbe pertanto
potuto agire solo per la quota ereditaria di sua
pertinenza, e lamenta che la Corte d'Appello non abbia
pronunciato sull'eccezione in tali termini da esso
sollevata.
Il motivo è inammissibile.
Va in primo luogo rilevato che,
secondo la giurisprudenza costante e consolidata di
questa Corte (da ultimo, fra le tante, Cass. nn.
12992/010, 5203/010, 2234/010, 26598/09) il vizio di
omessa pronuncia può essere fatto valere esclusivamente
ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c., ovvero quale
errar in procedendo.
Il motivo difetta, peraltro, anche
del requisito dell'autosufficienza, non avendo la banca
ricorrente precisato in quale dei propri scritti
difensivi, ed in quali esatti termini, abbia sollevato
l'eccezione, né riportato in ricorso il contenuto del
documento od indicato dove questo risulta prodotto, in
tal modo precludendo a questa Corte, che non può
supplire alle carenze delle parti mediante indagini
integrative, di operare un controllo in ordine alla
ricorrenza della circostanza che il giudice d'appello
avrebbe omesso di rilevare.
4) Con il terzo motivo, il Sanpaolo
IMI denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
2394 e segg. c.c. nonché vizio di motivazione.
Rileva che, contrariamente a quanto
sostenuto dalla Corte di merito, la prescrizione del
diritto del depositante ad ottenere la restituzione
delle somme depositate decorre dal momento stesso del
deposito, ovvero sin dal giorno della costituzione del
rapporto, o da quello dell'ultima operazione compiuta,
se il rapporto si è sviluppato attraverso accreditamenti
e prelievi, ed assume che il mancato esercizio di tale
diritto da immediatamente luogo allo stato di inerzia
che è presupposto della prescrizione.
La censura non può trovare
accoglimento.
Il ricorrente ha richiamato, a
sostegno del motivo, precedenti in termini di questa
Corte (Cass. n. 4389/99, a sua volta richiamante Cass.
nn. 535/79 - che però si riferisce al contratto di cui
all'art. 1782 c.c. - e 689/63) dai quali il collegio,
rimeditata la questione, ritiene di doversi discostare.
La natura del contratto di deposito
bancario risulta tuttora controversa in dottrina: per
taluni esso rientra nella categoria dei depositi c.d.
irregolari, dal quale si distinguerebbe per il solo
fatto che il depositario è una banca; altri, pur
riconoscendovi analogie con il deposito irregolare,
propendono ad accostarlo al mutuo; altri ancora vi
intravedono un negozio complesso, che pur partecipando
della struttura dell'uno e dell'altro contratto, è
dotato di propria autonomia.
Tale ultima tesi appare
maggiormente condivisibile: se è vero infatti che anche
nel deposito bancario, così come nel deposito
irregolare, la consegna comporta l'acquisto in capo al
depositario della proprietà della somma ed il sorgere
dell'obbligo di restituzione del tantundem, solo il
primo è un contratto d'impresa caratterizzato da profili
speculativi, in cui l'interesse della banca alla
raccolta ed alla gestione del risparmio concorre con
l'interesse del privato alla custodia ed alla
remunerativà della somma versata, Ancor più evidenti
appaiono le differenze col mutuo, che non assicura la
conservazione e la permanente disponibilità della somma,
e con il deposito regolare, che ha invece ad oggetto
principale l'obbligo di custodia. Ciò che è certo,
peraltro, è che il contratto regolato dall'art. 1834
c.c. si configura quale tipico negozio di durata, in cui
la permanenza della somma presso la depositaria comporta
la soddisfazione di entrambe le parti, ovvero quella
della banca di gestire in operazioni finanziarie il
risparmio raccolto e quella del cliente di essere
remunerato di tale utilizzo attraverso gli interessi che
gli vengono periodicamente accreditati.
Se le parti non hanno previsto un
termine di scadenza del contratto, la banca è obbligata
alla restituzione a richiesta del depositante.
L'obbligazione restitutoria della banca, pertanto, non
deriva ipso iure dall'avvenuto deposito delle somme, ma
sorge solo a seguito della richiesta in tal senso
avanzata dal cliente, il quale ha, per converso, la mera
facoltà, e non certo l'obbligo, di esercitare il proprio
diritto di credito (alla restituzione).
L'esercizio di tale diritto si
configura, dunque, quale condizione di esigibilità del
credito, in difetto della quale permangono (in
alternativa) il diritto del depositante a mantenere la
disponibilità delle somme (a detto credito
corrispondenti) presso la banca e l'obbligo della
depositaria di conservarle a sua disposizione. Tanto,
del resto, in coerenza con la natura del rapporto
negoziale come sopra delineata, in cui la circostanza
che il denaro sia lasciato presso la banca costituisce
situazione corrispondente all'interesse delle parti, che
integra da ambo i lati adempimento del contratto di
durata.
Il comportamento del depositante
che, pur non compiendo ulteriori operazioni di deposito,
non richiede la restituzione, non può perciò essere di
per se stesso interpretato come indicativo di un
disinteresse a far valere il suo diritto di credito,
configurante inerzia (all'esercizio del diritto
medesimo) cui si ricollega il decorso del termine di
prescrizione.
In effetti, come è stato
correttamente rilevato in dottrina, omettendo di
richiedere la restituzione il depositante non fa altro
che manifestare il suo contrapposto interesse al
mantenimento in giacenza delle somme, ovvero ad
esercitare una facoltà che ugualmente gli deriva dal
contratto.
Ne consegue che, in assenza di una
manifestazione di volontà della banca di recedere dal
rapporto, la prescrizione del diritto di credito del
depositante non può iniziare a decorrere prima che
questi avanzi la richiesta di restituzione, ponendo in
essere quel comportamento che rende il credito esigibile
e dal quale sorge il corrispondente obbligo della banca.
5) Con il quarto motivo di ricorso,
Imi Sanpaolo, denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonché vizio di
motivazione, si duole che il giudice d'appello, pur
avendo basato la propria decisione su un documento
ritenuto indispensabile, prodotto dal B. solo in sede di
gravame, l'abbia condannata al pagamento anche delle
spese del giudizio di primo grado, nel quale essa non
poteva essere ritenuta parte soccombente.
Il motivo è infondato.
Il giudice di appello, quando
riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve
procedere d'ufficio ad un nuovo regolamentazione delle
spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di
merito adottata, dato che l'onere di esse va attribuito
e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della
lite.
Tale regolamentazione, al di fuori
dell'ipotesi di violazione del principio di soccombenza
per essere stata condannata la parte totalmente
vittoriosa, è rimessa al potere discrezionale del
giudice del merito e sfugge al sindacato di legittimità
(Cass. n. 18173/08, 13098/03, 5581/03).
Va aggiunto che la pronuncia di
condanna integrale alle spese della parte rimasta
soccombente all'esito del doppio grado di giudizio,
discendendo dall'applicazione del disposto del I comma
dell'art. 91 c.p.c., non necessita di alcuna
motivazione. Va escluso, infine, che nel caso di specie
la produzione solo in grado d'appello del documento
ritenuto indispensabile all'accoglimento del gravame
giustificasse, di per sé, la compensazione, in tutto o
in parte, delle spese di lite: non è infatti applicabile
al presente giudizio, introdotto con citazione del
febbraio del 2002, il comma 2 dell'art. 345 c.p.c. nel
testo vigente in data anteriore all'entrata in vigore
della l. n. 353/90, che prevedeva che in tale ipotesi il
giudice dovesse regolare le spese dell'appello secondo
il disposto dell'art. 92 c.p.c..
6) Con l'unico motivo di ricorso
incidentale, B.E. denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1282, 1283, 2935 e 2948 c.c.
nonché vizio di motivazione.
Rileva che la Corte territoriale,
in palese contraddizione con i principi di diritto
enunciati, ha statuito che la condanna dell'Imi Sanpaolo
dovesse essere limitata al pagamento della somma portata
dal libretto maggiorata degli interessi legali
capitalizzati anno per anno a partire dalla data della
domanda, anziché dal primo anno successivo
all'instaurazione del rapporto.
Il motivo va dichiarato
inammissibile.
La richiesta avanzata dal B. di
riconoscimento degli interessi corrispettivi, non
accreditati sul libretto, e quindi non compresi nel
saldo apparente da esso risultante, costituiva domanda
autonoma rispetto a quella di restituzione della somma
capitale contabilizzata, sulla quale la Corte di merito
avrebbe dovuto separatamente pronunciare, sia
verificando se, ed in quale misura, tali interessi
risultassero dovuti in base al regolamento negoziale,
sia valutando se, rispetto a tate pretesa, relativa ad
un credito esigibile periodicamente, fosse, in tutto o
in parte, fondata l'eccezione di prescrizione sollevata
dalla banca.
La Corte territoriale si è invece
limitata a condannare la banca al pagamento degli
interessi moratori, sicuramente dovuti (attesa
l'affermata, pregressa operatività del contratto) dalla
data in cui è pervenuta alla banca, attraverso la
notifica dell'atto di citazione, la richiesta di
restituzione della somma portata dal libretto, che ha
determinato lo scioglimento del rapporto. Ne consegue
che il ricorrente incidentale avrebbe dovuto denunciare
con apposito motivo, svolto ai sensi dell'art. 360 I
comma n. 4 c.p.c., l’error in procedendo nel quale era
incorso il giudice d'appello per non aver pronunciato
sulla domanda di pagamento degli interessi
corrispettivi. La parziale, reciproca soccombenza delle
parti, giustifica la compensazione delle spese del
giudizio nella misura di un terzo. I rimanenti due terzi
vanno posti a carico della ricorrente e si liquidano
come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li
rigetta; dichiara compensate fra le parti le spese del
giudizio di legittimità nella misura di un terzo e
condanna il Sanpaolo IMI s.p.a. a pagare ad B.E. i
rimanenti due terzi, liquidati in Euro 1800 per onorari
ed Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed
accessori di legge |