Diritto e processo.com
Ritenuto in fatto
La S.r.l. E. fu dichiarata fallita
con sentenza in data 8/2/1995. In riferimento a detto
fallimento, furono rinviati a giudizio per bancarotta
fraudolenta aggravata distrattiva e documentale vari
soggetti, i quali si erano succeduti in nella direzione
dell'impresa: B.G. , B.G.L. , B.G.P. e quindi F.V. ed
altri suoi congiunti. Furono chiamati a rispondere anche
due consulenti, i quali avevano assistito la famiglia B.
nella fase di ristrutturazione aziendale; costoro erano
P.C. , commercialista, e S.G. , avvocato.
Ai due predetti fu addebitato anche
il delitto di cui agli articoli 223 comma II, n. 2, 216
comma I n. 1 e 2, 219 comma I e II LF, per avere, in
concorso tra loro e con altri, cagionato, per effetto di
operazioni dolose, il fallimento della predetta S.r.l..
Il Tribunale di Monza con sentenza
18/2/2005, dichiarò P. e S. colpevoli dei reati loro
rispettivamente ascritti e, concesse le attenuanti
generiche come equivalenti alla aggravante, ritenuta la
continuazione, li condannò alle pene di giustizia, oltre
pene accessorie.
La Corte di appello di Milano, con
la sentenza di cui in epigrafe, in parziale riforma
della pronuncia di primo grado, ha ritenuto il reato da
ultimo indicato (capo G) assorbito nell'imputazione di
bancarotta distrattiva (capo A per P. , capo E per S. ),
ha escluso la continuazione, ha rideterminato la pena
per ciascuno degli imputati in anni tre di reclusione,
ha revocato l'interdizione legale, ha sostituito
l'interdizione perpetua dai pubblici uffici con
l'interdizione temporanea dagli uffici per anni cinque,
ha confermato nel resto.
Ricorrono per cassazione, con
motivi in parte comuni, tramite i difensori, i due
imputati.
P. deduce:
1) contraddittorietà e illogicità
di motivazione con riguardo alla omessa disposizione di
perizia. Le conclusioni cui è giunto il consulente
tecnico dell'Accusa contrastano frontalmente con quelle
dei consulenti della difesa, con particolare riferimento
alla valutazione del valore dei rami d'azienda ceduti
dalla S.r.l. E. alle società G. e N.. È ovvio che da ciò
dipende la valutazione di congruità dei canoni di
locazione e dei prezzi di cessione. Si tratta di una
circostanza di indubbio rilievo e il contrasto tra le
due posizioni valutative avrebbe dovuto essere risolto
tramite il conferimento dell'incarico peritale.
Pur in presenza di un consolidato
orientamento giurisprudenziale che vede nella perizia un
mezzo di prova neutro, è evidente che il giudicante ha
comunque l'onere di indicare in sentenza le ragioni di
un eventuale diniego dell'accoglimento della richiesta
di perizia; sotto tale profilo, la sentenza è carente.
Le conclusioni cui è giunto il consulente del PM vengono
ritenute acriticamente una verità inconfutabile. Senza
alcuna spiegazione, non viene preso in considerazione il
fatto che la S.r.l. E. fosse ormai connotata da un
avviamento negativo. Tale fatto non poteva non incidere
sulla valutazione dei rami di azienda che la stessa
S.r.l. cedette alle altre due società sopra indicate.
Esse ereditarono anche la infelice dislocazione della E.
e si fecero carico delle sue storiche diseconomie. E
quindi evidente che la stima dell'avviamento fu, a dir
poco, ottimistica. La Corte d'appello, dunque, non ha
tenuto nel debito conto gli errori metodologici e di
calcolo in cui è incorso il consulente del PM;
2) violazione degli articoli 43 cp
e 216 LF, nonché carenza del relativo apparato
motivazionale in ordine alla sussistenza dell'elemento
psicologico. E stata omessa qualsiasi valutazione circa
il reale ed effettivo grado di rappresentazione degli
esatti termini del problema da parte del ricorrente con
riferimento al momento della commissione del fatto. P.
non era affatto al corrente delle reali condizioni della
E. e dunque la sua condotta non poteva manifestare una
specifica volontà distrattiva, necessaria per la
integrazione del reato di bancarotta fraudolenta. Sul
punto, entrambe le sentenze di merito sorvolano. Il
piano di ristrutturazione prevedeva il trasferimento del
ramo produttivo in una nuova località e in un nuovo
edificio da reperire e ciò avrebbe giovato alla
produzione. In realtà i B. fornirono, tanto
all'acquirente F. , quanto al consulente P. dati non
veritieri; è quindi chiaro che questo ricorrente ben può
essere incorso in errore di valutazione e in condotte di
omesso controllo, ma, per ciò solo, non si può affermare
che fosse sua intenzione danneggiare i creditori e, tra
questi, i lavoratori dipendenti. In realtà, nessun
elemento dimostra in capo a P. una intenzione diversa da
quella di salvare l'azienda;
3) violazione degli articoli 110
cp, 216 LF e carenza del relativo apparato motivazionale
in ordine al concorso dell'imputato nel reato di
bancarotta fraudolenta documentale. Entrambi i giudici
di merito riconoscono che P. consegnò al curatore i
libri sociali dei quali era in possesso, entrambi i
giudici di merito affermano che la contabilità era
accantonata nell'alloggio dei custodi, entrambe le
sentenze riferiscono che sia P. che S. avevano
comunicato al curatore l'esatta ubicazione della
documentazione predetta. Consapevole di ciò, la Corte
milanese si riduce ad affermare la responsabilità del
ricorrente in ordine alla bancarotta documentale,
asserendo che egli non aveva tenuto la contabilità in
modo da consentire la ricostruzione del patrimonio e dei
movimenti, quasi che questa fosse un'incombenza del
consulente. Peraltro esistono contributi testimoniali
che documentano l'esistenza della contabilità. Tra
questi, le dichiarazione della teste R. , che, tuttavia,
secondo l'opinione della Corte d'appello, avrebbe
rifiutato di stampare per il curatore l'intera
contabilità perché a ciò indotta dal P. . Al proposito,
si rileva che, mentre non vi è traccia di tale
disposizione, non si capisce perché il curatore non si
sia avvalso dei suoi poteri per richiedere detta
documentazione. In realtà, la Corte territoriale si
limita a supporre che la R. avesse ricevuto un ordine in
tal senso dal P. e ciò in base al fatto che, secondo i
predetti giudici, l'imputato gestiva la E.. Di tale
gestione, tuttavia, non è traccia in sentenza atteso che
S. e P. gestivano in realtà la G. e la N.;
4) ancora violazione degli articoli
110 cp e 216 LF nonché carenza della motivazione con
riguardo alla distrazione del magazzino. È la stessa
Corte ad ammettere che il magazzino è stato
sovrastimato; e tuttavia, contraddittoriamente, sostiene
che gli imputati avrebbero acquistato sottocosto, ciò
deducendo dal fatto che N. e G. versarono lire 500
milioni alla curatela;
5) violazione dell'articolo 219 LF
e carenza di motivazione relativamente alla sussistenza
dell'aggravante del danno di rilevante entità, atteso
che, per recente orientamento giurisprudenziale tale
aggravante non può essere applicata alla bancarotta
impropria. In ogni caso, è da notare che il fallimento
E. ha potuto "recuperare" molto, proprio in virtù del
fatto che l'immobile era comunque rimasto in capo alla
fallita;
6) violazione degli articoli 69 e
62 bis c.p., oltre a carenza e illogicità della
motivazione in riferimento al mancato giudizio di
prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. Il P.
ha concluso con la curatela una transazione avente ad
oggetto la riparazione del danno, in conseguenza della
quale è stata revocata la costituzione di parte civile.
Ciò è avvenuto dopo la sentenza di primo grado e prima
della conclusione del processo di secondo grado e la
relativa documentazione è stata acquisita all'udienza
del 2.2.2009. Di ciò la Corte d'appello non ha tenuto
alcun conto ed anzi, in ordine al trattamento
sanzionatorio, ha motivato per relationem, dimenticando
che in primo grado l'accordo transattivo non si era
ancora verificato. La discrezionalità nella
determinazione della pena non può significare
arbitrarietà e il giudice è tenuto a dar conto dell'iter
argomentativo e dei fatti e delle circostanze che ha
tenuto presenti nella concreta quantificazione della
pena, cosa che, per i motivi appena indicati, non è
stata fatta nel caso in esame;
7) violazione articoli 30 e 37 c.p.
e carenza dell'apparato motivazionale in ordine alla
mancata riduzione della durata della pena accessoria
dell'interdizione professionale. La rideterminazione
della pena principale avrebbe dovuto portare ad una
rideterminazione, in diminuzione, della pena accessoria
in modo da farla coincidere, quanto alla durata, con
quella principale. Ciò si deduce dalla lettera
dell'articolo 37 c.p. Esiste, per vero, una minoritaria
corrente giurisprudenziale che ritiene la pena
accessoria svincolata, quanto alla misura, da quella
principale, ma, anche se si vuole aderire tale
concezione, il giudice è tenuto a motivare la sua
scelta;
8) violazione degli articoli 82,
538, 539, 541 cpp e travisamento del fatto con riguardo
all'omesso riconoscimento dell'esclusione della parte
civile con riferimento a quanto sopra illustrato.
S. deduce:
1) omessa assunzione di una prova
decisiva espressamente richiesta. Al proposito, il
ricorrente formula censure analoghe rispetto a quelle
sub 1) del P. , sottolineando peraltro che la stessa
Corte milanese ammette l'errore di valutazione da parte
del consulente tecnico del PM e, ciò nonostante,
mantiene fermo l'assunto che il magazzino contenesse
mercé di valore; e questo, ad onta delle dichiarazioni
di alcuni testi (esempio: Bo. ), che parlano di un
magazzino contenente mercé sostanzialmente
inutilizzabile. La contraddittorietà della motivazione è
palese e la ragione per cui non è stata disposta una
perizia super partes rimane ignota;
2) manifesta contraddittorietà e
illogicità della motivazione ancora in ordine al diniego
dell'assunzione di perizia, atteso che S. è stato
ritenuto concorrente sia morale che materiale dei B. e
degli altri imputati perché avrebbe anche gestito la
distrazione, attraverso le società N. e SIBI. La
condotta è dettagliatamente elencata nel capo A), che si
articola in numerosi sottocapi e tra questi vi è quello
relativo magazzino; ebbene la Corte di merito prende
atto del fatto, come anticipato, che lo stesso
consulente del PM ritiene spropositata la valutazione
del magazzino; ciò nonostante ne addebita la sottrazione
a S. e a P. . Lo stesso giudice di appello, a pagina 21
della sentenza, da conto delle perplessità del
consulente del PM. Ciò nonostante, mantiene ferma la
condanna dei due imputati. Che sia stato fallace tal
modo di procedere risulta evidente anche, ad esempio, se
si fa riferimento alla valutazione dell'avviamento della
E.. Il consulente del PM ritiene che esso possa essere
valutato 1.900.000.000 di lire, nonostante la società
fosse da anni in perdita. Nemmeno tale elementare
considerazione ha indotto i giudici di secondo grado a
disporre perizia. È poi il caso di rilevare che la
curatela ha ceduto il marchio per il prezzo di 70
milioni di lire, orbene, cedere il marchio vuoi dire in
pratica cedere l'avviamento e se la curatela lo ha
stimato 70 milioni di lire, è evidente che il consulente
del PM gli ha attribuito un valore astronomico. Anche
per quel che riguarda la cessione di rami d'azienda, si
deve notare che il prezzo concordato è stato ritenuto
congruo dal curatore e dal giudice delegato i quali, se
così non avessero opinato, avrebbero lasciato spazio
all'azione revocatoria.
3) illogicità della motivazione per
avere erroneamente ritenuto sussistente la bancarotta
documentale e per averla inoltre ritenuta attribuibile a
S. . In ordine a tale imputazione, la Corte territoriale
ignora completamente le emergenze dibattimentali, che
hanno dimostrato che la contabilità era stata
regolarmente tenuta. Persino il tribunale e il
consulente del PM elencano i documenti consegnati al
curatore; il teste Sala, dipendente dell'E., riferisce
dell'esistenza della contabilità (sia cartacea, che
informatica), la teste R. ammette di essere stata
deputata alla mansione della tenuta dei libri, così come
dichiara che la contabilità è stata correttamente
tenuta; la circostanza è confermata anche da O. . A
fronte di queste emergenze probatorie, la Corte milanese
formula una presunzione in base alla quale R. avrebbe
ricevuto ordine da S. e P. di non mostrare l'intera
documentazione al curatore. Sotto altro aspetto,
considerato che sia S. che P. non hanno avuto parte
alcuna nella redazione dei bilanci, peraltro
manifestamente falsi, né nella gestione dell'azienda,
non si vede a che titolo avrebbero dovuto essere
responsabili della tenuta dei libri contabili;
4) ancora illogicità e
contraddittorietà della motivazione con riferimento
all'addebito di cui al capo E), in relazione al quale
non si può dire sussista una vera e propria motivazione.
La Corte di appello si limita a citare due lettere: una
di S. ai debitori ed una di B.G. a S. ; con la prima
l'imputato rende noto i debitori e quindi ai vecchi
clienti della famiglia B. che, ormai, i B. erano
estranei alla compagine sociale e che dunque essi
debitori avrebbero dovuto pagare ai nuovi titolari;
quindi la lettera ha lo scopo di avvisare i debitori
della nuova situazione e di scindere la figura dei B. da
quella di nuovi esattori. Come questa lettera possa
costituire la prova della complicità di S. con F. non è
dato comprendere. Se F. , dopo la dichiarazione di
fallimento, ha incassato i crediti della fallita, ovvero
ha estinto il conto corrente, invece di "consegnarlo" al
curatore, non si vede come in questa attività possa
essere coinvolto S. . Certo non in base al contenuto
della lettera sopra ricordata. La seconda lettera, come
anticipato, diretta da B. a S. , è in realtà un fax.
Secondo la Corte territoriale, esso dimostrerebbe il
fatto che S. non aveva preso iniziative per manifestare
il suo dissenso nei confronti dell'attività di
riscossione dei crediti operata dal F. . Ma non si vede
perché avrebbe dovuto fare ciò e, meno che mai, si
comprende perché da tale comunicazione potrebbe
desumersi la complicità o la connivenza di S. con F. ;
5) mancanza totale motivazione in
ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo. È noto
che le fattispecie contestate presuppongono il dolo
specifico e non si vede donde i giudici del merito
abbiano tratto la convinzione che S. abbia agito per
frodare i creditori e per rendere non possibile la
ricostruzione del patrimonio aziendale e dei movimenti
finanziari. S. fu semplicemente chiamato dal
commercialista P. perché prestasse la sua assistenza
tecnica all'operazione di salvataggio della E. S.r.l. Si
mirò a preservare il patrimonio più importante
dell'azienda, vale a dire la competenza delle
maestranze, cui fu salvato il posto di lavoro. I beni
dell'E. e la sua struttura produttiva furono, per il
momento, messi in salvo e la valutazione del loro
effettivo valore, più che dalle fantasie del consulente
del PM, deve essere dedotta dei meccanismi di mercato;
6) violazione di legge e carenze
l'apparato motivazionale in ordine al mancato
riconoscimento di prevalenza delle attenuanti generiche.
La Corte, con formula di stile, respinge la richiesta
avanzata in tema di trattamento,sanzionatorio, salvo
poi, contraddittoriamente, ridurre la pena al minimo
edittale. Nessuna seria ragione viene esplicitata per
negare la prevalenza delle attenuanti generiche. La
giovane età e la inesperienza di S. avrebbero dovuto
diversamente orientare il giudicante. Ammesso e non
concesso che l'imputato abbia dolosamente perseguito le
finalità contro legem di cui alla imputazione, certo non
può intravvedersi in capo allo stesso una tale intensità
di dolo da giustificare il mero giudizio di equivalenza
delle circostanze attenuanti generiche.
Considerato in diritto
La prima censura, comune ad
entrambi i ricorrenti, è inammissibile perché
sostanzialmente articolata in fatto e, in parte
generica, nella misura in cui non tiene conto di quanto
evidenziato in sentenza.
Lo stesso deve dirsi della seconda
censura di S. , che fa corpo con la prima.
La CdA motiva articolatamente in
ordine alla validità della consulenza V. , la pone in
relazione a quelle redatte da Bi. e Pi. e chiarisce per
qual motivo opta (così come il giudicante di primo
grado) per la correttezza della prima (pagg. 21-24-25),
giungendo alla conclusione che i due rami di azienda,
valutabili intorno ai 3.200.000.000 di lire furono
ceduti in locazione per il modestissimo prezzo di
220.000.000 di lire.
È pur vero, osserva la Corte, che
oggetto di locazione sono singoli beni, ma è altrettanto
vero che tali beni, guardati nella loro complessità,
costituiscono veri e propri rami di azienda. Ed è su
tali basi che il CT fonda la sua stima, stima che i
giudicanti di merito motivatamente mostrano di
condividere.
Discorso a parte merita il
magazzino, il cui valore lo stesso giudicante sospetta
sia stato "gonfiato", ma la cui vantazione non incide,
se non in maniera marginale, sull'apprezzamento della
condotta degli imputati, cui comunque è addebitata,
anche e principalmente, la distrazione di beni sociali e
di ricavi economici derivanti dalla alienazione di tali
beni, nonché la distrazione dei predetti rami di
azienda.
Per altro, come si legge a pag. 24
della sentenza, fu lo stesso P. a indicare il valore del
magazzino in circa lire 2.500.000.000. Dunque, se pure
esso non poteva essere stimato lire 4.700.000.000, sta
di fatto che fu ceduto per lire 500.000.000, vale a dire
con un o "scarto" di ben 2 miliardi rispetto alla cifra
indicata da uno dei due imputati.
La seconda censura del P. e la
quinta dello S. sono infondate.
Va innanzitutto ricordato che, come
emerge dal capo di imputazione, come chiarito nelle
sentenze di merito e come gli stessi imputati ammettono
nei loro ricorsi, le società G. e N. furono costituite,
organizzate e gestite proprio dagli attuali ricorrenti
al precipuo scopo di ricevere i rami di azienda che la
E. si accingeva a cedere; di talché dalla sentenza
impugnata appare evidente il "doppio ruolo" che P. e S.
si erano riservati: da un lato, ciascuno di essi era
(formalmente) consulente della cedente, dall'altro,
dominus della cessionario.
A pag. 24 della sentenza di appello
si ricorda come P. abbia finito per ammettere di aver
attivamente partecipato alla stesura dei contratti per
la cessione.
Tutto ciò premesso, se distrazione
vi fu e se fu operata attraverso i "meccanismi"
descritti nel capo di imputazione e in sentenza, è ovvio
che i due ricorrenti, essendo stati gli ideatori di tali
"meccanismi" (oltre ad avere in parte - ma attivamente -
collaborato alla esecuzione del progetto), non possono
poi dichiararsi estranei alla loro finalità truffaldino.
S. e P. si trovano, per così dire,
"a monte" e "a valle" della operazione di spoliazione
della E. e, dunque, non si vede come possano dichiarasi
inconsapevoli della reale natura e degli effettivi scopi
della operazione.
La terza censura dei ricorsi di
entrambi gli imputati è inammissibile per manifesta
infondatezza, atteso che ai due è contestato di aver
sottratto o distrutto le scritture contabili o,
comunque, di averle tenute in maniera tale da non
rendere possibile la ricostruzione del patrimonio
aziendale e del movimento di affari.
Dunque, non vi è stato alcun
mutamento della contestazione.
Che la tenuta delle scritture (o
almeno la sorveglianza su tale tenuta) competesse anche
agli attuali ricorrenti deriva dal ruolo di
co-amministratori di fatto che, in base alla
ricostruzione operata dai giudici del merito, essi, a un
certo punto, assunsero nell'ambito di E. srl.
Alla quarta censura del P. ,
relativa alla ipervalutazione del magazzino si è già
sopra fornita replica e spiegazione.
La quinta censura di P. è
infondata.
La sentenza invocata dal ricorrente
(SS.UU. sent. n. 21039 del 2011, ric. PM in proc. Loy,
RV 249666) ha stabilito che la disciplina speciale sul
concorso di reati prevista dall'art. 219, comma II n. 1,
LF, si applica anche alle ipotesi di bancarotta
impropria.
Secondo una lettura del dictum
della predetta sentenza, l'estensione sarebbe possibile
in quanto si tratterebbe di analogia in bonam partem, di
talché l'estensione alla bancarotta impropria della
aggravante contenuta nel medesimo articolo non sarebbe
consentita in quanto in malam partem.
L'assunto è fallace perché fallace
ne è il presupposto, vale a dire che venga in rilievo
l'istituto della analogia. Si tratta, viceversa, di
interpretazione sistematica.
La differenza è nota: all'analogia
(vietata nel diritto penale, se in malam partem) si fa
ricorso quando si rileva una lacuna nel sistema, vale a
dire la mancanza di una previsione normativa. In ragione
del principio di stretta legalità che vige in diritto
penale, l'interprete non può "inventarsi" una norma
incriminatrice (dunque una fattispecie criminosa o una
circostanza aggravante).
Alla interpretazione sistematica si
ricorre quando la lacuna è meramente apparente e tale
apparenza deriva solo da un imperfetto coordinamento di
norme.
Per venire al caso in esame, è di
tutta evidenza che l'art. 223 LF, nella prima parte, fa
riferimento, per descrivere la condotta e per
individuare il trattamento sanzionatorio, all'art. 216
della medesima legge; nella seconda parte. Fermo il
rinvio quoad poenam, descrive ulteriori condotte
addebitabili ai soggetti di cui al I comma; orbene,
poiché però, l'art. 216 rinvia - per quel che riguarda
le specifiche attenuanti e aggravanti - all'art. 219 LF,
è inevitabile che tale rinvio "interessi" anche l'art.
223.
Ragionare diversamente
comporterebbe: a) una evidente violazione del principio
di eguaglianza ex art. 3 Cost., b) una patente
irragionevolezza del sistema sanzionatorio, atteso che
la bancarotta societaria rappresenta - parlando in linea
generale, come è ovvio - fenomeno criminale molto più
grave di quello costituito dalla bancarotta individuale,
atteso che, nella moderna economia, le più alte
concentrazioni di capitali assumono, come è noto, forma
societaria.
D'altra parte, il I comma dell'art.
223 LF, nel far rinvio all'art. 216, indica i "fatti"
previsti nel detto articolo e il "fatto" è quello che
storicamente si connota, con tutte le sue eventuali
circostanze.
Né in senso contrario deve
orientare l'ultimo comma del ricordato art. 223 (“si
applica altresì in ogni caso la disposizione dell'ultimo
comma dell'art. 216"), perché esso sta semplicemente a
indicare che le pene accessorie si applicano con
riferimento a tutte le ipotesi previste dall'art. 223
(dunque: al I comma e ai numeri 1 e 2 del II).
Fondata è la quinta censura del P.
.
Invero, non essendo contestato che
questo imputato provvide a riparare, sia pure
parzialmente, il danno prodotto, è da rilevare, in
accordo con quanto fa il suo Difensore, che di tale
condotta il giudice di secondo grado sembra non tenere
considerazione alcuna, quando affronta il tema del
trattamento sanzionatorio.
Naturalmente, lo stesso non era
certo tenuto, in astratto, a conferire alla predetta
condotta l'effetto di una mitigazione del trattamento,
ma avrebbe dovuto prendere in considerazione la stessa e
sviluppare, in ordine ad essa, le sue considerazioni,
traendone le inevitabili conseguenze.
Sul punto, dunque, si impone
annullamento con rinvio ad altra sezione della medesima
CdA.
La settima e la ottava censura del
P. restano assorbite a seguito dell'accoglimento della
sesta. Ovviamente il giudice di rinvio terrà conto, in
tema di pena accessoria, di quanto si scriverà a
proposito del ricorso dell'altro imputato (sesta censura
di S. ).
La quarta cesura di S. è infondata,
atteso che essa soffre di un approccio tendenziosamente
atomistico alle evidenze probatorie.
È chiaro che la condotta descritta
al capo E), in sé considerata (scrivere lettere ai
debitori per avvertirli che devono pagare al nuovo
creditore), può apparire neutra; ma tale non è, nel caso
di specie, se messa in relazione alla attività
precedentemente svolta (costituzione delle nuove società
destinatane dei rami di azienda, svendita/cessione dei
beni e delle attività della E.), in quanto essa
contribuisce a indirizzare i debitori verso i nuovi
titolari di un'azienda ormai in palese difficoltà
economiche, produttive e finanziarie, contribuendo, in
tal modo, al compimento della condotta di distrazione.
Va da sé che, se S. fosse stato
ignaro dei "precedenti", a lui nessun addebito, sul
piano psicologico, avrebbe potuto essere mosso, ma,
poiché, viceversa, egli è considerato uno dei principali
artefici della spoliazione della E., la conclusione cui
giungono i giudici del merito è del tutto corretta.
La sesta censura dello S. è
infondata, atteso che non vi è contraddizione
nell'avere, da un lato, ridotto la pena al minimo
edittale, dall'altro, mantenuto fermo il giudizio di
equivalenza tra le circostanze attenuanti, riconosciute
dal primo giudice, e quelle aggravanti. Diversamente
ragionando, si dovrebbe giungere, invero, alla
conclusione per la quale, tutte le volte che il giudice
intende applicare il minimo edittale, deve anche "in
automatico" riconoscere le attenuanti ex art. 62 bis cp
come prevalenti; il che palesemente non è, sia perché,
altrimenti, il legislatore avrebbe previsto tale
"meccanismo sanzionatorio", sia perché, come è noto, la
funzione delle attenuanti generiche è quella di essere
uno strumento in più nelle mani del giudice per adeguare
la pena alle concrete condizioni dell'imputato, quando
ricorre una ragione di attenuazione della pena, non
prevista dalle circostanze "nominate". Nondimeno, in
relazione al trattamento sanzionatorio dello S. , deve
operarsi una "correzione" per quel che riguarda la pena
accessoria, illegalmente fissata in anni 5 e che va,
viceversa, determinata, secondo i più recenti
orientamenti della giurisprudenza di questa Corte (tra
le ultime: ASN 201013579-RV 246712), in un periodo di
tempo eguale a quello della pena detentiva principale,
dunque, nel caso in esame, in anni tre. Sul punto,
pertanto, la sentenza impugnata va annullata senza
rinvio, provvedendo direttamente questo Collegio alla
rideterminazione della detta pena accessoria in anni
tre.
S. va condannato al ristoro delle
spese sostenute in questo grado di giudizio dalla
costituita PC, spese che si liquidano come da
dispositivo.
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza
impugnata per S.G. , limitatamente alla inflitta pena
accessoria, che ridetermina in anni tre; rigetta nel
resto il ricorso di S. , che condanna alla rifusione
delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in
complessivi Euro milleottocento (1.800), oltre accessori
come per legge; annulla la sentenza impugnata per P.C. ,
limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio,
per nuovo esame, ad altra sezione della Corte di appello
di Milano |