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Il principio della buona fede
oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve
presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla
sua formazione ed alla sua interpretazione e, in
definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la
clausola generale di buona fede e correttezza è operante
tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del
creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio
(art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo
assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un
contratto (art. 1375 cod. civ.), concretizzandosi nel
dovere di ciascun contraente di cooperare alla
realizzazione dell'interesse della controparte e
ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o
passiva, negozialmente attribuita, determinando così
integrativamente il contenuto e gli effetti del
contratto. La buona fede, pertanto, si atteggia come un
impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna
parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da
specifici obblighi contrattuali e dal dovere del "neminem
laedere", senza rappresentare un apprezzabile sacrificio
a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi
dell'altra parte. La clausola di buona fede, dunque,
imponendo a ciascuna delle parti del rapporto
obbligatorio di agire in modo da preservare gli
interessi dell'altra, costituisce un dover giuridico
autonomo a carico delle parti contrattuali, a
prescindere dall'esistenza di specifici obblighi
contrattuali o di quanto espressamente stabilito da
norme di legge; ne consegue che la sua violazione
costituisce di per sé inadempimento e può comportare
l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato. La
valutazione circa buona fede e correttezza costituisce
un apprezzamento di fatto di stretta competenza del
giudice di merito, non sindacabile in sede di
legittimità se non sotto il profilo del vizio di
motivazione. |