Diritto e processo.com
Non vi è completo assorbimento, da
parte della bancarotta fraudolenta, del reato fiscale e
dunque non può operare la disciplina eccezionale
dell’articolo 84, la quale presuppone una verifica di
continenza in astratto, avuto riguardo, cioè, alla
fattispecie incriminatrice, e non al fatto storico
commesso dall’imputato
Cassazione, sez. V, 17 gennaio
2012, n. 1843
(Pres. Ferrua – Rel. Demarchi)
Ritenuto in fatto
M.C. propone ricorso per cassazione
contro l’ordinanza emessa dal tribunale di Roma con cui
è stata rigettata l’istanza di riesame contro il
provvedimento di sequestro preventivo ordinario e per
equivalente emesso dal gip di Roma il 10 giugno 2011.
A sostegno del ricorso propone i
seguenti motivi:
1. con il primo motivo deduce
errata applicazione della legge penale laddove è stato
ritenuto che il reato di cui all’articolo 11 del decreto
legislativo 10 marzo 2000, numero 74, ed il reato di
bancarotta fraudolenta possono concorrere. Sostiene il
ricorrente che non viene in considerazione il principio
di specialità e che non vi sia da risolvere un concorso
apparente di norme, ma piuttosto che vi sia una
progressione dell’offesa del bene giuridico protetto che
comporta l’applicazione del principio dell’assorbimento,
consacrato dall’articolo 84 del codice penale. In
particolare, la condotta dichiarativa di cui
all’articolo 11 verrebbe aggravata dal fallimento della
società, con la conseguenza che la bancarotta, reato
complesso, assorbirebbe il reato tributario. Secondo il
ricorrente il fisco troverebbe comunque soddisfazione
delle proprie pretese creditorie nella bancarotta, che
tutela lo stesso bene giuridico, assicurandogli però una
tutela più ampia, perché protegge non solo più il
singolo, ma tutti quanti i creditori. Non sarebbe
preclusivo dell’assorbimento il fatto che i due reati
sono diversi sotto il profilo soggettivo (reato proprio
la bancarotta, reato comune la sottrazione fraudolenta),
dato che anche la sottrazione fraudolenta è un reato
proprio, in quanto può essere commesso solo dal
contribuente che è obbligato a determinate imposte. Il
ricorrente pone poi un problema di diritto
intertemporale, censurando la decisione del tribunale
che avrebbe ritenuto insussistente il concorso di norme
perché i reati di cui all’articolo 11 avrebbero tempi di
consumazione diversi dalle bancarotte, in considerazione
del fatto che queste ultime sono state realizzate in un
momento successivo alla modifica normativa che ha
eliminato dall’articolo 11 la clausola iniziale "..
Salvo che il fatto costituisca più grave reato..".
2. Carenza e contraddittorietà
della motivazione in ordine alla configurabilità
dell’aggravante di cui all’articolo quatto della legge
146-2006, in quanto incompatibile con il reato di cui
all’articolo 416 del codice penale. Il ricorrente
richiama una pronuncia di questa sezione numero
1937-2010 (che peraltro non risulta massimata dal CED e
che da un esame della motivazione risulta non
conferente, né emessa dalla quinta sezione). Inoltre,
sostiene il ricorrente che l’aggravante non sia
applicabile per il solo fatto che al reato abbia
concorso un soggetto straniero, essendo necessario che
almeno una parte delle condotte illecite siano state
realizzate in altri stati.
3. Carenza e contraddittorietà
della motivazione in relazione all’applicabilità
dell’articolo 322 ter del codice penale ai reati
tributari. Secondo il ricorrente non sarebbe applicabile
la confisca per equivalente al reato tributario, in
quanto tale tipo di confisca è prevista solo per il
prezzo o per il profitto del reato. Nel caso di specie,
secondo la difesa, la realizzazione del reato fiscale
non produce un accrescimento del patrimonio dell’agente,
limitandosi piuttosto a sottrarre i suoi beni alla
pretesa del fisco; inoltre, il risparmio di imposta
sarebbe stato conseguito da terzi, e cioè dai clienti
del ricorrente, e quindi non avrebbe determinato alcun
accrescimento del patrimonio del M. . Non andrebbero
comunque computati, nel conteggio del debito tributario,
gli interessi e le sanzioni amministrative, che a
maggior ragione non potrebbero essere considerate come
profitto del reato. Infine, secondo il ricorrente le
sanzioni accessorie al debito di imposta non potrebbero
essere irrogate per effetto degli articoli 21 e 19,
comma secondo, del decreto legislativo 74-2000, in
quanto il M. è concorrente nella condotta distrattiva
relativa a società di cui sono titolari altri soggetti
(sul punto vi sarebbe una totale carenza di
motivazione).
4. Con un ultimo motivo di ricorso
si deduce carenza di motivazione in ordine
all’applicabilità dell’articolo 321 del codice penale
con riferimento alla sussistenza del pericolo nel
ritardo, che il tribunale non avrebbe valutato in
concreto e con riferimento al momento attuale, ma solo
sulla base di considerazioni astratte sulla personalità
dell’indagato.
Il Procuratore Generale della Corte
di cassazione ha concluso chiedendo il rigetto.
L’avv. A., per il ricorrente, ha
chiesto l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
Si deve premettere da un lato che
la funzione di questa Corte non è quella di riesaminare
integralmente la vicenda che ha portato al sequestro di
beni nella disponibilità del M. , bensì solamente quella
di verificare che il provvedimento impugnato sia
motivato e che la motivazione non sia meramente
apparente. Vertendosi in materia di misure cautelari
reali, infatti, il ricorso per cassazione è proponibile
solo per violazione di legge. Ne consegue che non
possono essere dedotti con il predetto mezzo di
impugnazione vizi della motivazione (Sez. 1, Sentenza n.
40827 del 27/10/2010).
Venendo ai singoli motivi di
ricorso, si osserva quanto segue: il motivo relativo
alla non configurabilità del concorso tra il reato di
cui all’articolo 11 del decreto legislativo 10 marzo
2000, numero 74, e il reato di bancarotta fraudolenta è
infondato. A prescindere dalla salvezza contemplata dal
predetto articolo 11, nella formulazione anteriore al
2010, si deve rilevare che nel caso in esame difetta la
sovrapponibilità delle due fattispecie, per cui la
clausola di sussidiarietà non può trovare applicazione.
Il tribunale di Roma ha ritenuto, correttamente, che
l’operatività della clausola postula che il medesimo
fatto sia riconducibile a due diverse norme
incriminatrici e costituisca dunque elemento essenziale
del reato previsto da entrambe; è cioè necessario che vi
sia una perfetta sovrapponibilità tra le condotte
contestate, non potendosi parlare, in caso contrario, di
medesimo fatto. Nel caso in esame il tribunale ha
proceduto al confronto dei fatti così come descritti nei
capi di imputazione ed ha riscontrato la mancanza di
identità e perfetta sovrapponibilità delle condotte
contestate, fornendo anche uno specifico esempio con
riferimento ai reati di cui ai capi 15 e 16 della
rubrica. Giova ricordare, a questo proposito, che la
valutazione sulla sovrapponibilità o meno delle condotte
è una valutazione di merito che, in quanto motivata,
sfugge al controllo di legittimità in sede cautelare
reale.
Quanto al principio di specialità,
ritiene questa corte che esso operi non tanto quando due
fattispecie sono parzialmente sovrapponibili, piuttosto
quando vi è una legge speciale che interviene a regolare
una materia già regolata da altra precedente normativa
di carattere generale. Il caso oggi in esame esula,
all’evidenza, da tale ambito, dal momento che la
legislazione fiscale e quella fallimentare sono entrambe
speciali e non si pongono quindi in rapporto di
specialità l’una con l’altra, né vanno a disciplinare la
stessa materia, essendo la seconda diretta a tutelare
interessi differenti (la pretesa fiscale ed il buon
esito delle procedure di riscossione, da una parte, e la
tutela dei creditori, pubblici e privati, in ambito
concorsuale, dall’altra); è necessario, inoltre, che la
norma speciale contenga tutti gli elementi compresi in
quella generale, cosicché se non esistesse la norma
speciale la fattispecie in esso rientrerebbe nella norma
generale. Perché possa operare l’articolo 15 è,
comunque, necessario che i reati abbiano la stessa
oggettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di
reati che devono disciplinare tutti la medesima materia
ed avere identità di struttura (cfr. Cass. SSUU
1963/2011). In argomento si veda anche Sez. 4, Sentenza
n. 35773 del 06/06/2001, Rv. 219970, secondo cui
sussiste concorso materiale quando i reati hanno diversa
natura (nel nostro caso di pericolo e di evento),
diverso elemento soggettivo (dolo specifico per la
sottrazione fraudolenta e dolo generico per la
bancarotta distrattiva) e tutelano interessi diversi. E
per l’individuazione della "stessa materia" deve farsi
riferimento alla fattispecie astratta - ossia come
settore, aspetto dell’attività umana che la legge
interviene a disciplinare - e non quale episodio in
concreto verificatosi sussumibile in più norme,
indipendentemente da un astratto rapporto di genere a
specie tra queste (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 1235
del 28/10/2010).
Sostiene il ricorrente che nel caso
di specie non viene in considerazione il principio di
specialità di cui all’articolo 15, ma piuttosto che vi
sia una progressione dell’offesa del bene giuridico
protetto che comporta l’applicazione del principio
dell’assorbimento, consacrato dall’articolo 84 del
codice penale. In particolare, la condotta dichiarativa
di cui all’articolo 11 verrebbe aggravata dal fallimento
della società, con la conseguenza che la bancarotta,
reato complesso, assorbirebbe il reato tributano.
L’invocazione dell’articolo 84 del
codice penale non è fuori luogo, nel senso che,
trattandosi di norme che regolano materie diverse
(materia fiscale, la prima, e disciplina della crisi
d’impresa, la seconda), si deve verificare se la legge
consideri come elementi costitutivi del reato di
bancarotta tutti gli elementi della fattispecie che
integra la frode fiscale.
Per configurare il reato complesso,
peraltro, è necessario che sia una norma di legge ad
operare la fusione in una unica figura criminosa dei
fatti costituenti reati autonomi. Non basta quindi che i
più fatti, i quali, isolatamente considerati,
costituirebbero altrettanti reati, abbiano qualche
elemento comune perché sia ravvisabile il reato
complesso, essendo questo costituito dalla unificazione
a livello normativo di tutti gli elementi che integrano
ipotesi tipiche di reati tra loro differenti. (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 7780 del 15/02/1990). Si veda anche
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3528 del 27/09/1982, Rv.
158589, secondo cui: "Per aversi reato complesso ai
sensi dell’articolo 84 del codice penale non basta che
più fatti costituenti reato abbiano qualche elemento in
comune, ma occorre che uno di essi converga interamente
in un’altra figura criminosa, tanto da perdere la sua
autonomia e diventare, quindi, elemento costitutivo o
circostanza aggravante dell’altro. In difetto di tali
presupposti, sussiste il concorso formale dei reati, a
nulla rilevando la parziale coincidenza dei rispettivi
momenti consumativi".
Ebbene, nel caso di specie manca il
completo "assorbimento" della sottrazione fraudolenta al
pagamento di imposte nel reato di bancarotta
fraudolenta, dal momento che vi sono plurimi elementi
del primo reato che non sono affatto normativamente
contemplati dal secondo; l’articolo 11 del decreto
legislativo 10 marzo 2000, numero 74, punisce chiunque
(è quantomeno dubbio, pertanto, che si tratti di un
reato proprio), al fine di sottrarsi al pagamento di
imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di
interessi o sanzioni amministrative relativi a dette
imposte di ammontare complessivo superiore ad Euro
cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti
fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere
in tutto o in parte inefficace la procedura di
riscossione coattiva. Si tratta di un reato istantaneo
di pericolo, a nulla rilevando che in un secondo momento
la pretesa tributaria dello Stato sia stata soddisfatta
(Cassazione penale, sez. 3, 27 ottobre 2010, n. 40481);
già qui si vede una prima differenza con la bancarotta
fraudolenta, che richiede invece l’effettiva
verificazione del fatto distrattivo, che reca
pregiudizio ai creditori (nella bancarotta fraudolenta
patrimoniale l’evento del reato coincide con la lesione
dell’interesse patrimoniale della massa; così Cassazione
penale, sez. 5, 24 marzo 2010, n. 16579). In secondo
luogo mentre la bancarotta è un reato proprio (anche se
non si esclude il concorso "esterno"), la sottrazione
fraudolenta è un reato comune o, comunque,
caratterizzato da una soggettività molto più ampia, dal
momento che può essere compiuto da qualunque
contribuente che abbia un debito d’imposta verso
l’erario (si tratta di una categoria amplissima), non
essendo necessario che si tratti di imprenditore.
Va, poi, rimarcato che si tratta di
fattispecie volte alla tutela di interessi diversi (in
argomento v. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14707 del
14/11/2007, Rv. 239659, nonché Cass. Sez. 5, Sentenza n.
30120 del 18/05/2011, laddove si ribadisce che vi è
concorso quando le norme incriminatrici tutelano beni
giuridici diversi). A tal proposito non si deve
dimenticare che ogni condotta fraudolenta diretta alla
evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale
all’interno del quadro delineato dalla normativa
speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto
ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale (cosa
che non accade nel caso della bancarotta); Cass. Sez. U,
Sentenza n. 1235 del 28/10/2010, Rv. 248865. In
definitiva, l’articolo 11 del decreto legislativo
74-2000, tutela l’interesse erariale al buon esito della
procedura di riscossione (trattasi di un interesse tanto
rilevante che il bene giuridico è tutelato anche
attraverso il sequestro per equivalente, che non assiste
invece la bancarotta), mentre nel reato di bancarotta
fraudolenta il bene tutelato è l’interesse della
generalità dei creditori all’integrità dei mezzi di
garanzia (Cassazione penale, sez. 5, 06 ottobre 1999, n.
12897).
Vi deve poi essere la idoneità (ex
ante) delle condotte distrattive a rendere in tutto o in
parte inefficace la procedura di riscossione coattiva;
anche sotto questo profilo sono evidenti le differenze
con la bancarotta, per la quale non solo non basta
un’astratta idoneità, ma è altresì sufficiente che vi
sia un pregiudizio per uno qualsiasi dei creditori. Ciò
significa che può aversi bancarotta fraudolenta senza
che sia integrata la frode fiscale, laddove l’atto
distrattivo non pregiudichi il pagamento, in sede
concorsuale, dei crediti privilegiati dall’erario, ma
rechi pregiudizio ai creditori chirografari o con
diritti di prelazione di grado inferiore. In definitiva,
non vi è completo assorbimento, da parte della
bancarotta fraudolenta, del reato fiscale e dunque non
può operare la disciplina eccezionale dell’articolo 84,
la quale presuppone una verifica di continenza in
astratto, avuto riguardo, cioè, alla fattispecie
incriminatrice, e non al fatto storico commesso
dall’imputato (si veda, in proposito, la già richiamata
Sentenza n. 3528 del 27/09/1982, Rv. 158589, secondo
cui: "Per aversi reato complesso ai sensi dell’art. 84
cod. pen. non basta che più fatti costituenti reato
abbiano qualche elemento in comune (come nel caso di
specie; ndr), ma occorre che uno di essi converga
interamente in un’altra figura criminosa, tanto da
perdere la sua autonomia e diventare, quindi, elemento
costitutivo dell’altro". Orbene, il delitto di frode
fiscale, così come strutturato dalla norma
incriminatrice contenuta nell’articolo 11 del d.lgs. n.
2000/74, non è integralmente riprodotto nella norma di
cui all’art. 216 l. fall., così che non può dirsi
sussistente un’ipotesi di reato complesso.
Sotto un profilo concreto, di
analisi del fatto storico, è possibile che i fatti
contestati agli imputati integrino entrambi i reati, ma
si tratta di una mera eventualità che non consente
l’operatività dell’art. 84 e, quindi, legittima
l’applicazione delle norme sul concorso. Ad impedire
l’operatività del principio di specialità, come si è
ampiamente esposto in precedenza, osta il difetto di
identità della materia regolata, elemento richiesto
dalla norma contenuta nell’articolo 15 del codice
penale.
Per quanto esposto, il primo motivo
di ricorso deve essere rigettato.
Con un secondo motivo di ricorso,
il M. ha dedotto carenza e contraddittorietà della
motivazione in ordine alla configurabilità
dell’aggravante di cui all’articolo 4 della legge
146-2006, in quanto incompatibile con il reato di cui
all’articolo 416 del codice penale. Il ricorrente ha
richiamato una pronuncia di questa sezione, la numero
1937-2010, che peraltro non risulta presente con questi
numeri nella banca dati del CED. Trattasi probabilmente
di un errore di inserimento nella banca dati privata
citata dal ricorrente, nella quale in effetti risulta
una massima del seguente tenore: "La circostanza
aggravante prevista, per il reato transnazionale,
dall’art. 4 della L. 16 marzo 2006, n. 146, non è
compatibile con il reato associativo - nella specie “ex”
art. 74 del d.p.r. n. 309 del 1990, - ma può accedere ai
reati costituenti la diretta manifestazione
dell’attività del gruppo criminale organizzato, ossia ai
cosiddetti reati fine dell’associazione ovvero ai reati
alla cui realizzazione il gruppo abbia fornito un
contributo causale". Questo collegio ritiene, peraltro,
di aderire al contrario orientamento, più consolidato,
secondo cui: "La circostanza aggravante ad effetto
speciale prevista dall’art. 4 della l. 16 marzo 2006, n.
146, per i reati transnazionali è configurabile anche
nel delitto di associazione per delinquere allorché del
sodalizio criminoso facciano parte soggetti che operano
in Paesi diversi" (Cassazione penale sez. 3, 14 gennaio
2010, n. 10976; conf. Cassazione penale sez. 3, 14
luglio 2010, n. 35465).
D’altronde, non si ravvisano
ragioni per circoscrivere l’applicazione dell’aggravante
ai soli reati scopo dell’organizzazione, dato che la
norma richiede unicamente che abbia dato il suo
contributo alla commissione dei delitti un gruppo
criminale organizzato, impegnato in attività criminali
in più di uno Stato. Non è necessario, dunque, che i
reati contestati siano commessi in più stati, quanto
piuttosto che alla commissione degli stessi abbia
partecipato un gruppo attivo a livello internazionale.
Né si ravvisano ostacoli al concorso tra il reato di
associazione a delinquere di cui all’articolo 416 e
l’aggravante di cui all’articolo quatto della legge 146
del 2006, proprio in virtù del fatto che
l’organizzazione internazionale non si sovrappone a
quella interna, ma è sufficiente che si limiti a fornire
il suo contributo alla commissione del delitto stesso.
Sostiene il ricorrente che
l’aggravante non sia applicabile per il solo fatto che
al reato abbia concorso un soggetto straniero, essendo
necessario che almeno una parte delle condotte illecite
siano state realizzate in altri stati; emerge dall’esame
della norma che la realizzazione di condotte illecite in
altri Stati non è affatto necessaria per l’operatività
dell’aggravante, essendo sufficiente il concorso nella
realizzazione del reato di un gruppo dedito ad attività
criminale a livello internazionale. Non va dunque
confuso il reato oggetto di aggravamento, che può essere
realizzato integralmente nel nostro Stato, con
l’attività cui è dedito il gruppo criminale di cui alla
norma richiamata, che deve per forza svilupparsi in più
paesi. La questione, peraltro, è priva di rilevanza in
quanto non c’è dubbio che l’attività di organizzazione
del complesso disegno criminoso è stata posta in essere
da un gruppo di soggetti (cfr. capo di imputazione
provvisorio n.1) che operava in più stati e che grazie a
tale operatività internazionale ha reso più difficili le
indagini e il recupero dei beni. All’estero sono state
trasferite molte società utilizzate per il drenaggio
delle risorse attive e dunque per assicurare il profitto
delle distrazioni contestate, ma sono anche state
utilizzate società che avevano sede legale all’estero
per il riciclaggio del denaro e per l’illecito rientro
dall’estero di capitali; senza contare che il
trasferimento all’estero delle sedi sociali era parte
integrante ed essenziale dell’operazione fraudolenta
complessivamente ideata e dunque tale condotta, anche se
di per sé non penalmente rilevante, deve ritenersi
sufficiente ad attribuire carattere transnazionale al
reato.
Con un terzo motivo di ricorso è
stata dedotta la carenza e contraddittorietà della
motivazione in relazione all’applicabilità dell’articolo
322 ter del codice penale ai reati tributari. Secondo il
ricorrente non sarebbe applicabile la confisca per
equivalente al reato tributario, in quanto tale tipo di
confisca è prevista solo per il prezzo o per il profitto
del reato. Nel caso di specie, secondo la difesa, la
realizzazione del reato fiscale non produce un
accrescimento del patrimonio dell’agente, limitandosi
piuttosto a sottrarre i suoi beni alla pretesa del
fisco; inoltre, il risparmio di imposta sarebbe stato
conseguito da terzi, e cioè dai clienti del ricorrente,
e quindi non avrebbe determinato alcun accrescimento del
patrimonio del M. .
Il motivo di ricorso è infondato;
innanzitutto si deve chiarire che in tema di reati
tributari il sequestro preventivo, funzionale alla
confisca "per equivalente", può essere disposto sia per
il prezzo, sia per il profitto del reato (Sez. 3,
Sentenza n. 35807 del 07/07/2010); ciò premesso, per
profitto confiscabile deve intendersi non solo un
positivo incremento del patrimonio personale, bensì
qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante
dal reato (cfr. Cassazione penale, sez. 6, 27 settembre
2007, n. 37556), anche se consistente in un risparmio di
spesa.
Non è poi fondata la censura del
ricorrente, laddove afferma che non andrebbero comunque
computati, nel conteggio del debito tributario, gli
interessi e le sanzioni amministrative, che a maggior
ragione non potrebbero essere considerati come profitto
del reato; nel momento in cui sono maturati tali
accessori al credito tributario, l’attività distrattiva
dei beni, finalizzata a rendere infruttuosa la procedura
di riscossione, comportava un "risparmio di spesa" che
atteneva non più alla sola voce principale del debito
erariale, ma concerneva tutti gli accessori a quel tempo
esigibili dal fisco. Il profitto, dunque, quale
risparmio del contribuente, non può che essere calcolato
con riferimento alla totalità del credito vantato
dall’erario, essendo del tutto indifferente la natura
delle voci che lo compongono, dato che la condotta
illecita è finalizzata ad evitarne complessivamente il
pagamento.
Quanto alla considerazione che il
risparmio di imposta sarebbe stato conseguito da terzi,
e cioè dai clienti del ricorrente, e quindi non avrebbe
determinato alcun accrescimento del patrimonio del M. ,
ritiene questa Corte che la responsabilità dell’intero
illecito si fondi sul concorso del M. nei reati
contestati (anche) ai suoi clienti e giustifichi
pertanto l’applicazione dei principi affermati dalla
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "..nel caso
di illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio
solidaristico che implica l’imputazione dell’intera
azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun
concorrente e pertanto, una volta perduta
l’individualità storica del profitto illecito, la sua
confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato
possono interessare indifferentemente ciascuno dei
concorrenti anche per l’intera entità del profitto
accertato" (sentenza n. 26654 del 27 marzo 2008, rv
239926).
E dunque, in tale prospettiva deve
ritenersi non contrastante con il principio di
personalità della responsabilità penale, e di quella
relativa anche alle conseguenze civili del reato, con la
conseguenza che risulta del tutto conforme ai principi
contenuti nella Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo
la lettura sistematica data con le sentenze n. 348 e
349/2007 della Corte costituzionale, il fatto che il
concorrente nel reato possa essere chiamato a rispondere
dell’intero profitto che gli autori del reato hanno
ricavato dall’illecito, e non soltanto della quota che
di esso egli abbia eventualmente ricevuto (Cass. Sez. 3,
Sentenza n. 12580 del 2010). L’applicazione di tale
principio al caso in esame comporta che nessuna
illegittimità può essere ravvisata nel provvedimento di
sequestro che, in funzione della futura possibile
confisca anche per equivalente, venga disposto sui beni
del singolo concorrente avendo come parametro l’intero
ammontare del profitto derivante dal reato. Sarà quindi
la decisione di merito a determinare se sussistono i
presupposti per disporre la confisca e a statuire in
ordine alle responsabilità individuali sulla base degli
esiti del giudizio svoltosi nel contraddittorio.
Un’ulteriore censura attiene al
fatto che, secondo il ricorrente, le sanzioni accessorie
al debito di imposta non potrebbero essere irrogate per
effetto degli articoli 21 e 19, comma secondo del
decreto legislativo 74-2000, in quanto il M. sarebbe
concorrente nella condotta distrattiva relativa a
società di cui sono titolari altri soggetti.
Trattasi, invero, di censura
generica, espressa con modalità tutt’altro che chiare;
né tale genericità è stata superata dalla discussione in
udienza atteso che, nonostante la specifica richiesta di
approfondimento da parte del relatore, i difensori
presenti non hanno detto nulla sul motivo di censura in
esame.
Con un ultimo motivo di ricorso si
deduce carenza di motivazione in ordine
all’applicabilità dell’articolo 321 del codice penale
con riferimento alla sussistenza del pericolo nel
ritardo, che il tribunale non avrebbe valutato in
concreto e con riferimento al momento attuale, ma solo
sulla base di considerazioni astratte sulla personalità
dell’indagato. Anche quest’ultimo motivo di ricorso è
infondato, oltreché inammissibile; a prescindere dal
fatto che sul punto vi è una motivazione congrua e
logica, si è già ricordato in apertura di sentenza che
in materia di misure cautelari reali il ricorso per
cassazione è proponibile solo per violazione di legge e,
quindi, non possono essere dedotti con il predetto mezzo
di impugnazione vizi della motivazione (Sez. 1, Sentenza
n. 40827 del 27/10/2010).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. |