P&D.IT
Nella sentenza commentata, il
Tribunale di Prato si occupa del danno causato al
momento del parto ad una bambina: la madre, al momento
del ricovero aveva evidenziato la presenza di
streptococco nelle proprie analisi, ma il dato era stato
trascurato dal personale medico. La bambina aveva
contratto il batterio al momento del parto e le mancate
cure immediate avevano causato uno stato di invalidità
quantificato dalla c.t.u. medica nel 100%.
Il Tribunale, innanzitutto,
inquadra il rapporto tra paziente e struttura
ospedaliera in uno schema c.d. atipico (contratto di
spedalità), avente per oggetto sia l’obbligo relativo
alla prestazione medica che una serie di obblighi di
protezione o accessori.
Tale contratto, in particolare, non
è soggetto all’applicazione analogica delle norme sul
contratto di prestazione d’opera professionale, con la
conseguenza che il parametro normativo sotto il quale
valutare l’inadempimento è quello di cui all’art. 1218
c.c. e, per quanto riguarda la responsabilità per
l’operato del personale sanitario, dell’art. 1228 c.c.
(...). Con il contratto di ricovero ospedaliero della
gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a
prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al
fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare,
con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni
necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la
nascita evitandogli - nei limiti consentiti dalla
scienza - qualsiasi possibile danno.
La prestazione medica eseguita dal
personale dipendente della struttura ospedaliera ha
quindi per oggetto anche tutte quelle prestazioni volte
a salvaguardare la salute del nascituro e quindi del
nato.
Da qui il riconoscimento della
responsabilità professionale dei medici che si
occuparono del parto:
In tema di responsabilità
professionale del medico, le omissioni nella tenuta
della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano
sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto
adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla
previsione generale dell'art. 1176, secondo comma, cod.
civ., (…) In ambito sanitario, il medico ha l'obbligo
di controllare la completezza e l'esattezza delle
cartelle cliniche quale è quello della madre che si
trova in una condizione di vita connotata da un disagio
psicologico perenne, ancorché lo stesso non abbia dato
luogo ad una vera e propria malattia psichica.
Ne discende la liquidazione del
danno sopportato dalla bambina.
Ma anche, quello sopportato dalla
madre. Come affermato dal Tribunale, il fatto che tale
infermità sia presente sin dalla nascita e che la madre
abbia da allora subito uno sconvolgimento totale della
propria vita, anche in punto di vista dell’affettività
del rapporto con la figlia, che se non compromessa,
risulta sicuramente lesa per effetto delle sue gravi
condizioni di salute, tali da non consentire il pieno
dispiegarsi, in tutte le sue componenti, della relazione
tra madre e figlia (…).
Senza paura delle terminologie, (in
quanto la parola fa assumere significato pregnante al
narrato) si può parlare di liquidazione del danno
esistenziale: cosa altro è lo "sconvolgimento"
giustamente denotato dal Tribunale, se non l'alterazione
della "agenda di vita" che il diritto impone di
rispettare. Il danno causato alla bambina ha privato la
madre di tutte le esperienze positive legate alla
maternità ed alla cura e crescita dei figli. Ha imposto
una diversa agenda, fatta di cure mediche, aiuti forzati
alla figlia, attese, drammi, scontenti. Ha privato la
madre di tutte le gioie quotidiane che possono venire
dal vedere crescere e progredire i figli. Giusto,
quindi, il risarcimento effettuato, anche se il
riferimento alla figura del danno esistenziale avrebbe
sicuramente guidato il Giudice nella quantificazione del
danno, richiamando in via più analitica , tutte le voci
della "vita", della "agenda" che risultano sconvolte
(secondo l'id quod plerumque accidit) dal danno
considerato.
Tribunale di Prato, sez. Unica
Civile, sentenza 1° febbraio 2012
Giudice Unico Brogi
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente
notificato I. Z., in proprio e quale esercente la
potestà genitoriale su M. M., nata a Prato il 23/4/2000,
ha convenuto in giudizio la Azienda USL 4 Prato, in
persona del legale rappresentante, per sentirla
condannare – accertata e dichiarata la responsabilità
della convenuta – al risarcimento di tutti i danni
biologici, morali, patrimoniali ed esistenziali subiti
dall’attrice e dalla figlia, oltre interessi legali.
L’attrice ha esposto di aver
partorito la figlia M. in data 23/4/2000 presso
l’ospedale convenuto e di aver evidenziato al personale
sanitario, prima del parto, la presenza di un tampone
vaginale positivo allo streptococco. Dopo il parto la
madre, colpita da emorragia, non ha potuto trattenersi
con la figlia, che ha visto solo il 25 aprile,
constatando che la bambina era strana e con espressione
persa nel vuoto. Anche le persone che erano andate a
visitarla si erano rese conto del tremolio della
bambina. La sera del 25 aprile quest’ultima è stata
portata nuovamente alla madre, che si è accorta che
faticava a respirare. A seguito degli allarmi della
madre, la figlia è stata visitata da un dottore del
reparto che si è reso conto della presenza dello
streptococco.
L’attrice rileva che tale problema
avrebbe potuto essere risolto con l’immediata
somministrazione di antibiotici al momento della
nascita, all’esito di esami del sangue, i cui risultati
sono pervenuti solo la sera del 26/4/2000.
La mancata attenzione alle notizie
ed ai documenti prodotti dalla madre, unitamente ai
ritardi nelle cure, hanno determinato l’insorgere di una
grave malattia per M., che, non solo ha corso pericolo
di vita, ma attualmente è affetta da tetraparesi
spastica distonica ed è priva di stabilità sul tronco,
senza poter quindi camminare. È inoltre priva di larga
parte della capacità di linguaggio, sebbene cosciente e
consapevole della propria situazione.
Le conseguenze degli eventi
descritti sono sempre più evidenti nel percorso di
crescita di M.. Inoltre, la necessità di dare alla
figlia cure e terapie, nonché un sostegno continuo, ha
costretto la madre a ridurre la propria capacità
lavorativa, anche con un gravissimo danno psicologico.
In conseguenza di quanto esposto la
parte attrice ha rilevato che la negligenza nello
svolgimento del proprio operato ha dato luogo ad un
inadempimento degli obblighi contrattuali sorti in virtù
del rapporto ospedaliero con la paziente e che, in ogni
caso, risulta violato anche il divieto del neminem
ledere, dato che tale negligenza ha cagionato un danno
ingiusto.
L’attrice, in conseguenza di quanto
esposto, ha chiesto il risarcimento del danno per
l’invalidità permanente occorsa alla figlia, per la
lesione psicologica subita dalla madre. Inoltre, ha
chiesto il riconoscimento del danno morale, nonché del
danno patrimoniale in relazione sia all’incapacità della
figlia di intraprendere qualsiasi capacità lavorativa,
sia per la madre di dover ridurre la propria. La parte
attrice ha poi chiesto di tener conto delle conseguenze
alla vita di relazione che una malattia come quella
contratta hanno determinato sia per la madre che per la
figlia.
Si è costituita l’Azienda U.S.L.
convenuta che, a fronte della domanda di risarcimento
del danno proposta dalla parte attrice, ha sollevato le
seguenti eccezioni:
1. in via preliminare e in
rito: nullità dell’atto di citazione per
indeterminatezza dell’oggetto della domanda sotto il
profilo del quantum debeatur, dal momento che non è
stato indicato l’importo dei danni che sarebbero stati
patiti dall’attrice, né sono stati indicati gli elementi
necessari per una minima quantificazione;
2. in via preliminare e nel
merito: eccezione di prescrizione ex art. 2947 c.c. per
il preteso diritto di risarcimento del danno
extracontrattuale: la condotta negligente del personale
dell’azienda ospedaliera è collocabile al momento del
parto, avvenuto il 23/4/2000, mentre l’istanza
stragiudiziale di risarcimento del danno è stata
presentata dal legale di parte attrice solo il
30/6/2005;
3. nel merito: infondatezza
della domanda di parte attrice: dall’esame della
cartella clinica non risultano fattori di rischio e, con
riferimento alla sepsi da streptococco non c’erano
elementi tali da richiedere trattamenti antibiotici
preventivi, dato che la paziente aveva eseguito un
tampone vaginale per la ricerca dello streptococco in
data 16/2/2000 e uno in data 16/3/2000, entrambi con
esito negativo;
4. alla nascita è stata fatta
la ricerca dello streptococco dell’aspirato gastrico,
con risultato positivo, ma la comunicazione è avvenuta
quando la patologia si era già manifestata;
5. al momento dell’insorgenza
del quadro clinico sono stati prontamente intrapresi gli
accertamenti del caso e iniziata la terapia antibiotica.
Alla luce di quanto esposto la
convenuta ha pertanto chiesto il rigetto della domanda
di parte attrice.
La presente causa ha per oggetto il
risarcimento dei danni subiti dalla parte attrice (in
proprio, nonché dalla figlia) per effetto di contestate
negligenze perpetrate dal personale dell’azienda
ospedaliera convenuta al momento del parto.
L’attrice dichiara infatti di aver
reso edotto, al momento del ricovero, il personale
sanitario dell’ospedale della presenza di un tampone
vaginale positivo allo streptococco. Nondimeno, il
ritardo nella somministrazione di antibiotici alla
neonata ha determinato l’insorgenza di una patologia,
che sebbene non di esito letale, ha cagionato la
tetraparesi di M..
Occorre in primo luogo dare atto
dell’infondatezza dell’eccezione preliminare di rito
relativa alla nullità dell’atto di citazione per mancata
indicazione del quantum di risarcimento richiesto.
Sul punto la giurisprudenza di
legittimità ha infatti stabilito che: “La declaratoria
di nullità della citazione ai sensi dell'art. 164,
quarto comma, cod. proc. civ. postula una valutazione da
compiersi caso per caso, tenendo conto che la ragione
ispiratrice della norma risiede nell'esigenza di porre
immediatamente il convenuto nelle condizioni di
apprestare adeguate e puntuali difese. Pertanto, nel
valutare il grado di incertezza della domanda, non può
prescindersi dall'intero contesto dell'atto
introduttivo, dalla natura del relativo oggetto e dal
comportamento della controparte, dovendosi accertare se,
nonostante l'obiettiva incertezza, il convenuto sia in
grado di comprendere agevolmente le richieste
dell'attore o se, invece, in difetto di maggiori
specificazioni, si trovi in difficoltà nel predisporre
una precisa linea difensiva.” (Cass., Sez. 3, Sentenza
n. 27670 del 21/11/2008). Nella specie è evidente che la
quantificazione del risarcimento del danno non è avulsa
dall’evento di danno, identificato nella meningite
contratta nelle prime ore di vita da M., e che la
quantificazione dei postumi permanenti non può che
essere circostanza di natura tecnica che richiede
l’espletamento di una c.t.u., volta ad accertare il
coefficiente di invalidità (che la parte attrice in atto
di citazione ha indicato essere assoluta), così come per
quanto riguarda i danni conseguenza subiti dalla madre,
non si può prescindere da una valutazione equitativa del
giudice. In sostanza i criteri di quantificazione del
danno nell’ambito del presente giudizio sono già
presenti nell’atto di citazione, nella misura in cui la
liquidazione delle poste risarcitorie ruota intorno al
grado di infermità riportato da M. per effetto della
meningite scaturita dall’infezione con lo streptococco.
La domanda è pertanto priva del profilo di nullità ex
art. 164 c.p.c. denunciato dalla parte convenuta.
Inoltre, sempre per la
giurisprudenza di legittimità: “L'onere di
determinazione dell'oggetto della domanda è validamente
assolto anche quando l'attore ometta di indicare
esattamente la somma pretesa dal convenuto, a condizione
che abbia però indicato i titoli posti a fondamento
della propria pretesa, ponendo in tal modo il convenuto
in condizione di formulare le proprie difese.” (Cass.,
Sez. 3, Sentenza n. 12567 del 28/05/2009 Rv. 608542).
In secondo luogo, per l’esame
dell’ulteriore eccezione preliminare (non di rito, ma)
di merito relativa alla prescrizione, occorre
qualificare il rapporto giuridico intercorrente tra
l’ospedale ed il paziente, per poi scendere nelle
peculiarità e nei contenuti che caratterizzano, più
specificamente, il rapporto tra l’ospedale e la
partoriente, con particolare riferimento alle
prestazioni che ne sono oggetto.
La giurisprudenza di legittimità
dell’ultimo decennio ha definitivamente inquadrato nel
paradigma di cui all’art. 1218 c.c. la responsabilità
per inadempimento delle prestazioni mediche, sia da
parte del singolo medico, che da parte della struttura
sanitaria nel suo complesso.
Con particolare riferimento alla
responsabilità della struttura sanitaria le S.U. della
Corte di Cassazione hanno, in particolare, stabilito
che: “Questa Corte ha costantemente inquadrato la
responsabilità della struttura sanitaria nella
responsabilità contrattuale, sul rilievo che
l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del
ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la
conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006;
Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass.
11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass.
21 luglio 2003, n. 11316).
A sua volta anche l'obbligazione
del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei
confronti del paziente, ancorché non fondata sul
contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura
contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass.
29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n.
9085 del 2006).
Per diverso tempo tale legame
contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla
base dell'applicazione analogica al rapporto
paziente-struttura delle norme in materia di contratto
di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel
rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo
appiattimento della responsabilità della struttura su
quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto
per l'affermazione della responsabilità contrattuale
della struttura fosse l'accertamento di un comportamento
colposo del medico operante presso la stessa.
Più recentemente, invece, dalla
giurisprudenza il suddetto rapporto è stato
riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente-
medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico
contratto a prestazioni corrispettive (da taluni
definito contratto di spedalità, da altri contratto di
assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole
ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.
Da ciò consegue l'apertura a forme
di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono
dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli
operatori, e trovano invece la propria fonte
nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente
riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo,
anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato
conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite
(1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni
semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006)
che si è espressa in favore di una lettura del rapporto
tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata)
che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame
che si instaura, che va ben oltre la fornitura di
prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a
disposizione di personale medico ausiliario, paramedico,
l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature
necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù
del contratto, la struttura deve quindi fornire al
paziente una prestazione assai articolata, definita
genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al
suo interno, oltre alla prestazione principale medica,
anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed
accessori. Così ricondotta la responsabilità della
struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la
sua responsabilità per inadempimento si muove sulle
linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto
concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il
tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione
del fondamento di responsabilità dell'ente
nell'inadempimento di obblighi propri della struttura
consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto
artificioso, alla disciplina del contratto d'opera
professionale e di fondare semmai la responsabilità
dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art.
1228 c.c.” (sent. n. 577/2008).
In sostanza, il rapporto tra
paziente e struttura ospedaliera viene inquadrato in
uno schema c.d. atipico (contratto di spedalità),
avente per oggetto sia l’obbligo relativo alla
prestazione medica che una serie di obblighi di
protezione o accessori. Tale contratto, in particolare,
non è soggetto all’applicazione analogica delle norme
sul contratto di prestazione d’opera professionale, con
la conseguenza che il parametro normativo sotto il quale
valutare l’inadempimento è quello di cui all’art. 1218
c.c. e, per quanto riguarda la responsabilità per
l’operato del personale sanitario, dell’art. 1228 c.c.
Nella specie i contenuti del
contratto di spedalità sono poi caratterizzati dalla
peculiarità della prestazione, relativa non solo
all’assistenza al parto della Z., ma altresì a tutte
quelle attività necessarie a dare piena tutela alla
salute del nascituro, al punto da poter essere
qualificato come un contratto con effetti protettivi nei
confronti del terzo. Sul punto la giurisprudenza della
Corte di Cassazione ha infatti precisato che: “Con il
contratto di ricovero ospedaliero della gestante l'ente
ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla
stessa le cure e le attività necessarie al fine di
consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la
dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni
necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la
nascita evitandogli - nei limiti consentiti dalla
scienza - qualsiasi possibile danno. Detto contratto,
intercorso tra la partoriente e l'ente ospedaliero, si
atteggia come contratto con effetti protettivi a favore
di terzo nei confronti del nato, alla cui tutela tende
quell'obbligazione accessoria, ancorché le prestazioni
debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla
nascita; ne consegue che il soggetto che, con la
nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per
far valere la responsabilità contrattuale per
l'inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il
contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato
col genitore o con terzi, a garanzia di un suo specifico
interesse.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14488 del
29/07/2004 Rv. 575702).
La prestazione medica eseguita dal
personale dipendente della struttura ospedaliera ha
quindi per oggetto anche tutte quelle prestazioni volte
a salvaguardare la salute del nascituro e quindi del
nato.
Definita la natura contrattuale del
rapporto tra le parti in causa occorre dare atto
dell’infondatezza dell’eccezione di prescrizione di
parte convenuta, che richiama quella quinquennale
stabilita dall’art. 2947 c.c. per la responsabilità
extracontrattuale. Del resto, la stessa parte attrice
nell’atto di citazione parla in prima battuta di
negligenza del personale sanitario inquadrabile sub
specie di inadempimento per poi rilevare che tale
condotta è altresì violativa del neminem laedere.
Nondimeno, stante il carattere contrattuale della
responsabilità della struttura ospedaliera, affermato
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione appena
citata, il termine di prescrizione è quello decennale di
cui all’art. 2946 c.c.
Un ulteriore ed importante
corollario del carattere contrattuale della
responsabilità della struttura ospedaliera è costituito
dal regime di ripartizione dell’onere della prova. La
sentenza già richiamata delle S.U. della Corte di
Cassazione ha precisato che: “Inquadrata nell'ambito
contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria
e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema
del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri
fissati in materia contrattuale, alla luce del principio
enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di
questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533,
in tema di onere della prova dell'inadempimento e
dell'inesatto adempimento.
Le Sezioni Unite, nel risolvere un
contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici,
hanno enunciato il principio - condiviso da questo
Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la
risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno,
ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte
negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell'inadempimento
della controparte, mentre il debitore convenuto è
gravato dell'onere della prova del fatto estintivo,
costituito dall'avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato enunciato
con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al
creditore istante è sufficiente la mera allegazione
dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di
doveri accessori, come quello di informazione, ovvero
per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per
difformità quantitative o qualitative dei beni),
gravando ancora una volta sul debitore l'onere di
dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.” (Cass. S.U.
cit.)
In sostanza, mentre il creditore
(cioè il paziente) deve dare la prova della fonte del
rapporto ed allegare (in modo non generico, ma)
specifico l’altrui inadempimento, spetta al creditore
dare la prova di aver esattamente adempiuto la propria
prestazione medica.
In particolare, con riferimento
alla responsabilità medica le S.U. della Corte di
Cassazione, già richiamate, hanno stabilito che:
“l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di
responsabilità per risarcimento del danno nelle
obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque
inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o
concausa) efficiente del danno.
Ciò comporta che l'allegazione del
creditore non può attenere ad un inadempimento,
qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così
dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla
produzione del danno.
Competerà al debitore dimostrare o
che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero
che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa
del danno.”
Nella specie la parte attrice ha
affermato di aver informato, prima del parto, il
personale sanitario in merito ad un test risultato
positivo allo streptococco, mentre la parte convenuta,
in sostanza, afferma che il proprio personale è venuto a
conoscenza di tale circostanza, solo quando era ormai
insorta la malattia foriera di postumi devastanti per la
piccola M..
La controversa ricostruzione della
quaestio facti non può che avvenire alla luce della
ripartizione dell’onere della prova, così come delineato
dalla giurisprudenza di legittimità nel suo massimo
consesso.
È pertanto la struttura ospedaliera
convenuta a dover dare la prova di aver eseguito tutte
quelle attività di cura e di aver assunto tutte le
informazioni necessarie a tutelare la salute della madre
e del nascituro al momento del parto, nonché ad aver
svolto tutte le prestazioni necessarie a scongiurare gli
esiti della malattia contratta da M., così come si sono
effettivamente verificati.
Nel caso in esame infatti, essendo
convenuta la struttura ospedaliera, la stessa risponde
di tutte le prestazioni mediche effettuate dal proprio
personale sia durante il parto, che nelle ore successive
alla nascita della bambina ai sensi dell’art. 1228 c.c.
Per poter valutare l’attività
svolta dal personale sanitario dell’Azienda U.S.L. di
Prato occorre esaminare più approfonditamente le
modalità con le quali M. ha contratto l’infezione che ha
portato alla meningite e verificare se ed in quale
misura l’intervento medico avrebbe potuto scongiurare
tale evento.
La c.t.u. espletata dal dr. P. F.
(anche in base ai chiarimenti chiesti all’udienza del 15
giugno 2011, ha consentito di verificare che lo
streptococco beta emolitico di gruppo B è un cocco,
comune commensale della donna gravida, ed è il
principale responsabile di severe infezioni batteriche
verticali (sepsi, meningiti, polmoniti) e infezioni
sistemiche o focali nel lattante. L’infezione da SMG ha
due forme: quella precoce e quella tardiva. Quella
precoce, corrispondente a quella contratta da M., si
trasmette per via ascendente all’interno del liquido
amniotico, attraverso l’aspirazione da parte del feto di
liquido contaminato durante il passaggio attraverso il
canale del parto, cioè mediante il contatto con
secrezioni vagino-anali infette, e si manifesta durante
la prima settimana di vita. Frequentemente è associata a
complicazioni ostetriche materne, come un precedente
neonato con infezioni invasiva da SGB, febbre materna in
prossimità del parto, rottura prolungata delle membrane
da oltre 18 ore, parto pretermine, batteriuria da SGB
durante la gravidanza.
Le tre manifestazioni cliniche più
precoci di infezione sono la setticemia (50% dei casi),
la polmonite (30% dei casi), la meningite (15% dei
casi). In tale ultima ipotesi i pazienti che
sopravvivono possono sviluppare gravi esiti neurologici
a distanza.
Al fine di impedire al neonato
sviluppi tale patologia occorre somministrare la terapia
antibiotica, da effettuare in due cicli prima della
nascita. Secondo quanto dichiarato in sede di
chiarimenti dal c.t.u. la somministrazione di terapia
antibiotica è efficace nel 70% dei casi per prevenire
la forma precoce.
Nella specie il fattore di rischio
era costituito dal fatto che la madre aveva fatto un
tampone vaginale con esito positivo per SGB alla 24°
settimana di gestazione, presso una struttura privata.
Risulta poi documentata la prova dell’avvenuta
esecuzione di un secondo tampone, fatto in occasione di
un ricovero ospedaliero, in data 16 febbraio 2000 (alla
29° settimana di gestazione), con esito negativo. Nella
cartella clinica di M. risulta poi indicato un terzo
tampone datato 16 marzo 2000 (all’inizio della 34°
settimana di gestazione), con esito negativo, di cui non
vi è, però, alcuna traccia sul luogo e sulle circostanze
nelle quali è stato fatto.
Lo stesso c.t.u. anche in sede di
chiarimenti ha dato atto dell’assoluta mancanza di
documentazione di tale campione di cui viene indicata
l’esistenza solo nella cartella pediatrica di M.,
redatta dopo la sua nascita.
Un elemento importante, evidenziato
in sede di c.t.u. e di chiarimenti, è costituito
dall’assenza di alcuna indicazione in merito ai tamponi
vaginali (finalizzati ad accertare la presenza dello
streptococco che poi ha infettato la bambina) nella
cartella ostetrica redatta al momento del parto. Sono
invece menzionati due tamponi (eseguiti in data
16/2/2000, come da documentazione allegata, e 16/3/2000,
privo di documentazione), entrambi negativi, nella
cartella pediatrica della bambina (redatta al momento
del ricovero nella patologia neonatale, circa due giorni
dopo la nascita).
Sul punto in sede di chiarimenti,
alla domanda del giudice, fatta all’udienza del 15
giugno 2011, se al momento del ricovero venga chiesto
alla partoriente se abbia fatto precedentemente il
tampone, il c.t.u. ha risposto: “a loro risultava che
era stato fatto un tampone vaginale. Nella cartella
ostetrica deve essere riportato nell’anamnesi il dato
relativo al tampone vaginale che non ho trovato.”
In sostanza, nella cartella
ostetrica, redatta al momento del ricovero per il parto,
non è stato indicato, come avrebbe dovuto, il dato
relativo ai tamponi vaginali effettuati dalla Z.. Si
tratta di una circostanza che attesta sicuramente la
negligenza del personale sanitario che ha redatto tale
cartella in ordine all’omissione di un dato importante,
tanto più che:
1. lo streptococco è una
presenza comune nelle donne in gravidanza;
2. se tale tampone non fosse
stato importante, non si vede come mai la stessa
struttura ospedaliera aveva effettuato un tampone alla
stessa Z. in data 16/2/2000, in occasione di un ricovero
ospedaliero documentato agli atti, né perché al momento
della nascita venisse fatto un esame di ricerca dello
streptococco dall’aspirato gastrico.
È evidente quindi che il protocollo
adottato dall’ospedale convenuto al momento della
nascita di M. prevedeva un monitoraggio dei possibili
rischi derivanti dall’infezione da streptococco.
Si rileva inoltre come i risultati
dell’analisi relativa alla ricerca dello streptococco
nell’aspirato gastrico della bambina, siano pervenuti
con notevole ritardo (solo tre giorni dopo la nascita),
permettendo di avere piena certezza della patologia solo
in tale momento. Il termine di tre giorni per i
risultati di un’analisi così importante, in
considerazione dei fattori di rischio in gioco, non sono
giustificabili neppure alla luce del fatto che M. è nata
la domenica di Pasqua e che i due giorni successivi
erano festivi (Pasquetta e 25 aprile). Risulta pertanto
una disfunzione della struttura sanitaria convenuta
anche a livello organizzativo e non solo in merito
all’operato del personale sanitario.
La mancata documentazione dei
tamponi eseguiti durante la gravidanza nella cartella
ostetrica redatta al momento del ricovero in ospedale
costituisce una grave negligenza da parte del personale
sanitario, che non ha consentito, oltretutto, ai medici
che materialmente hanno prestato assistenza alla
partoriente di poter valutare la necessità di
somministrare quella terapia antibiotica idonea, nel 70%
dei casi, a scongiurare l’infezione evoluta in
meningite.
Il dato scientificamente rilevante
è costituito infatti dalla circostanza che tale
infezione è contratta proprio al momento del parto,
attraverso il contatto con secrezioni vagino-anali
infette. Pertanto, il momento determinante per
scongiurare l’infezione contratta nella specie dalla
piccola M., è quello del ricovero della partoriente,
dato che il c.t.u., in sede di chiarimenti, ha
specificato che: “Il tempo per l’efficacia
dell’antibiotico è di quattro ore. Cioè la profilassi
deve essere iniziata almeno quattro ore prima della
nascita, in modo che la donna possa fare almeno due dosi
(una ogni quattro ore), altrimenti la profilassi è
incompleta.”.
È da rilevare, a tal fine, che tra
il ricovero in ospedale della Z. (22 aprile) e la
nascita di M. c’era sicuramente lo spatium temporis
necessario alla somministrazione della terapia
antibiotica necessaria.
La mancata indicazione nella
cartella ostetrica delle indicazioni, nonché il ritardo
nella diagnosi di meningite, portano alla conclusione
che l’azienda ospedaliera non ha assolto all’onere della
prova, su di lei incombente, di aver esattamente
adempiuto agli obblighi di protezione nei confronti del
nascituro, che scaturiscono dal rapporto contrattuale
tra la partoriente e l’ente ospedaliero.
La giurisprudenza di legittimità ha
infatti precisato recentemente che: “In tema di
responsabilità professionale del medico, le omissioni
nella tenuta della cartella clinica al medesimo
imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica
dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in
relazione alla previsione generale dell'art. 1176,
secondo comma, cod. civ., sia come possibilità di fare
ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta
compilazione della cartella non può, in linea di
principio, tradursi in un danno nei confronti di colui
il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria.”
(Cass., Cass., Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/01/2010
(Rv. 611334).
In tal senso il mancato riferimento
nella cartella ostetrica al test positivo allo
streptococco fatto dalla madre il 12/1/2000 non può
costituire la prova dell’esatto adempimento della
prestazione di assistenza al parte da parte
dell’ospedale convenuto, proprio per il fatto che è
omessa la benché minima indicazione – che, come
dichiarato dal c.t.u. in sede di chiarimenti sarebbe
stata invece doverosa – in ordine ai tamponi vaginali
effettuati durante la gravidanza.
D’altra parte se la struttura
ospedaliera, a mezzo del proprio personale, avesse
correttamente adempiuto al proprio obbligo anche con
riferimento alla redazione della cartella ostetrica,
sarebbero comunque stati indicati i tamponi che sono poi
stati menzionati nella cartella pediatrica, redatta
successivamente alla nascita di M.. Non è stata data
invece alcuna spiegazione del fatto perché non è stato
indicato nella cartella ostetrica neppure il test svolto
in data 16/2/2000 (effettuato presso l’azienda
ospedaliera convenuta). In altre parole, la mancata
indicazione dei tamponi vaginali relativi allo
streptococco effettuati dalla Z. implica l’omessa
valutazione di tale fattore di rischio da parte del
personale sanitario che ha avuto in cura la Z. al
momento del suo ingresso in ospedale al momento del
parto.
Il giudice di legittimità ha
infatti precisato che: “In ambito sanitario, il medico
ha l'obbligo di controllare la completezza e l'esattezza
delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati,
la cui violazione comporta la configurazione di un
difetto di diligenza rispetto alla previsione generale
contenuta nell'art. 1176, comma secondo, cod. civ. e,
quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente
prestazione professionale.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n.
20101 del 18/09/2009 Rv. 609443).
La mancata indicazione dei
risultati dei tamponi vaginali eseguiti durante la
gravidanza da parte della Z. deve essere, inoltre,
valutata anche alla luce della testimonianza della madre
di quest’ultima. Tale teste deve infatti essere
considerata attendibile, posto che ha specificato le
circostanza in cui la figlia, al momento del ricovero,
ha parlato del precedente tampone vaginale positivo. La
teste ha infatti riferito di un unico episodio svolto
alla sua presenza e - su espressa domanda del Giudice -
ha chiarito cosa è stato detto. In particolare, il teste
ha detto di aver assistito ad un colloquio al momento
dell’accettazione in cui è stato chiesto alla Z. se
avesse avuto dei problemi durante la gravidanza e che
l’attrice ha risposto di aver avuto un test positivo
allo streptococco.
Non è invece chiaro quanto riferito
dal teste Spinelli (il medico che ha fatto partorire la
Z.), dal momento che tale testimonianza non riesce
comunque a superare il dato dell’omessa menzione del
dato relativo ai tamponi nella cartella ostetrica.
Come già rilevato, a fronte della
puntuale allegazione della parte attrice circa
l’inadempimento del personale dell’azienda ospedaliera
convenuta per non aver tenuto presente la dichiarazione
in ordine alla presenza di un tampone positivo allo
streptococco e non aver somministrato gli antibiotici
necessari a scongiurare lo sviluppo dell’infezione
contratta da M. al momento della nascita, la convenuta
non ha provato di aver esattamente adempiuto alla
propria obbligazione o l’assenza di nesso causale tra il
proprio inadempimento e il danno lamentato da chi ha
usufruito della prestazione medica.
Con riferimento al nesso causale la
condotta negligente della struttura ospedaliera rileva,
sotto il profilo della causalità omissiva, sotto un
duplice profilo: quello dell’anamnesi (evidenziata dal
c.t.u.) relativa alla mancata indicazione e valutazione
dei tamponi vaginali relativi allo streptococco e quello
relativo alla mancata somministrazione degli
antibiotici. È inoltre apprezzabile il ritardo nella
diagnosi di meningite che è stata potuta fare solo al
momento dei risultati delle analisi dell’aspirato
gastrico della neonata, pervenute solo tre giorni dopo
la nascita.
Nella specie il nesso causale tra
omissioni della struttura ospedaliera e la meningite
contratta dalla bambina deve poi essere apprezzato
secondo il criterio del “più probabile che non”, così
come stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione (n. 576/2008). Sul punto la recente
giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che:
“In tema di responsabilità civile, il nesso causale è
regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod.
pen., per il quale un evento è da considerare causato da
un altro se il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo, nonché dal criterio della
cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale,
all'interno della serie causale, occorre dar rilievo
solo a quegli eventi che non appaiano - ad una
valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma
restando, peraltro, la diversità del regime probatorio
applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai
due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso
causale in materia civile, vige la regola della
preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che
non", mentre nel processo penale vige la regola della
prova "oltre il ragionevole dubbio". Ne consegue, con
riguardo alla responsabilità professionale del medico,
che, essendo quest'ultimo tenuto a espletare l'attività
professionale secondo canoni di diligenza e di perizia
scientifica, il giudice, accertata l'omissione di tale
attività, può ritenere, in assenza di altri fattori
alternativi, che tale omissione sia stata causa
dell'evento lesivo e che, per converso, la condotta
doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il
verificarsi dell'evento stesso.” (Cass., Sez. 3,
Sentenza n. 16123 del 08/07/2010 Rv. 613967).
Nella specie, si rileva, in primo
luogo che lo streptococco viene contratto dal feto al
momento della nascita attraverso il contatto con le
secrezioni materne e che la somministrazione di
antibiotici durante il parto avrebbe scongiurato in
almeno il 70% dei casi l’evolversi di una malattia del
tipo di quella che ha colpito M.. In secondo luogo non
sono risultati dall’istruttoria espletata (né la difesa
della convenuta vi ha fatto cenno) fattori alternativi
di rischio, con la conseguenza che non ci sono
particolari problemi in ordine all’accertamento del
nesso causale tra l’infezione da streptococco, l’omessa
corretta anamnesi della partoriente, la mancata
tempestiva somministrazione di antibiotici e l’evento di
danno costituito dalla meningite contratta da M..
Esaurito il problema dell’an della
responsabilità ospedaliera (questione preliminare di
merito sulla quale la causa è stata trattenuta in
decisione), il Giudice, rileva che al momento della
precisazione delle conclusioni lo stesso è investito
della decisione di tutta la causa ai sensi dell’art. 189
c.p.c. e che l’istruttoria espletata consente di
pronunciarsi anche sulla quantificazione dei danni
richiesti dalla parte attrice, secondo quanto precisato
di seguito. Occorre fare una distinzione tra il
risarcimento chiesto dalla madre per conto della figlia
e quello richiesto iure proprio.
Con riferimento alla bambina, il
c.t.u. ha accertato come danno-conseguenza all’evento di
danno costituito dalla meningite contratta in occasione
della nascita, un’invalidità permanente pari al 100%. Il
c.t.u. ha infatti riscontrato un grave ritardo mentale,
all’interno di un quadro motorio a tipo tetraparesi
distonico-discinetica, con epilessia resistente ai
farmaci, che impedisce alla bambina di essere autonoma
negli atti quotidiani della vita, come spostarsi,
lavarsi, vestirsi, mangiare e così via. Tale quadro
appare ormai stabilizzato e privo di miglioramento
neurologico, determinando in M. un’invalidità totale e
permanente, che le impedirà di avere una vita affettiva
e di relazione adeguata alla sua età.
Deve essere pertanto risarcito il
pregiudizio relativo alla lesione permanente
dell’integrità psico-fisica pari al 100%, che deve
essere liquidato secondo le c.d. Tabelle di Milano (v.
Cass. n. 12408/2011), prendendo come base il punto
d’invalidità che tenga conto non solo della lesione
all’integrità psico-fisica di M., ma altresì del danno
non patrimoniale, conseguente alla totale condizione di
sofferenza in cui la stessa verserà per tutta la vita
per il totale immobilismo cui è destinata, nonché
all’impossibilità di avere la benché minima vita di
relazione, dovendo ricorrere per il resto dei suoi
giorni all’ausilio di terzi anche per l’espletamento
delle più piccole ed elementari attività quotidiane. Il
punto base si € 7.560,13 deve essere quindi aumentato
del 50% ad € 11.340,20 (così come previsto dalle tabelle
milanesi) e moltiplicato per il coefficiente di
invalidità pari al 100% e per il demoltiplicatore di 1,
pervenendo all’importo di € 1.134.020,00.
Tale importo deve essere devalutato
all’epoca dell’inadempimento (23/4/2000), pervenendo
alla somma di € 884.570,98, sulla quale devono essere
applicati gli interessi e la rivalutazione (secondo
quanto stabilito dalle S.U. della Corte di Cassazione
con la sentenza n. 1712/1995), ottenendo l’importo
totale di € 1.433.960,81, che deve essere liquidato in
favore della parte attrice.
Rilevato che nella liquidazione del
danno non patrimoniale conseguente alla lesione
dell’integrità fisica è ricompreso anche il danno per la
perdita della capacità lavorativa generica, non viene
liquidato un ulteriore importo per la voce risarcitoria
chiesta dalla parte attrice con riferimento al fatto che
M. non sarà mai in grado di esercitare alcuna attività
lavorativa.
Con riferimento al danno
patrimoniale relativo alle spese mediche chieste
nell’atto di citazione, il c.t.u. non ha indicato
specifiche spese mediche, ma ha fatto un calcolo
relativo all’assistenza generica di cui M. avrà
costantemente bisogno. Nondimeno, benché tali spese
costituiscano un esborso notevole, anche alla luce
dell’assistenza giornaliera pressoché continua di cui M.
avrà bisogno per tutta la vita, il Giudice rileva, in
punto di petitum, che la parte attrice ha chiesto il
risarcimento del danno patrimoniale identificato nelle
spese mediche strettamente intese (non di quelle di
assistenza generica, per la quantificazione delle quali
il c.t.u. rinvia al contratto collettivo nazionale per
il lavoro domestico) e che sul punto il c.t.u. non è
pervenuto ad una quantificazione, ma ha dichiarato la
congruità di quelle sostenute finora. In altre parole,
non è stato fatto oggetto di domanda il risarcimento del
danno patrimoniale identificato nelle somme necessarie a
pagare una persona che sia presente costantemente
accanto a M., ma è stato invece chiesto il risarcimento
del danno delle presumibili spese mediche future, che,
non quantificate dal c.t.u., vengono liquidate in via
equitativa in € 30.000,00, in considerazione del fatto
che, date le condizioni della bambina, è certo che le
stesse saranno comunque necessarie.
Devono essere invece liquidate le
somme relative alle spese mediche documentate, ritenute
congrue dal c.t.u., per un importo di € 469,31.
Con riferimento al danno subito
dalla madre, la parte attrice ha denunziato un danno
psichico, errando tuttavia, nella qualificazione del
pregiudizio non patrimoniale di cui chiede il
risarcimento. Il danno psicologico deve infatti essere
inteso come lesione dell’integrità psichica suscettibile
di accertamento medico-legale. La parte attrice, in
realtà, in punto di allegazione, indica una diversa
tipologia di danno non patrimoniale, in cui la
sofferenza (peraltro considerevole) è emblematica non
già di una compromissione dello stato di salute, quanto
del disagio conseguente alle condizioni della figlia ed
alla necessità di riorganizzare la propria vita, in
relazione al fatto che M. è destinata ad una perenne
condizione di immobilità assoluta che richiede
un’assistenza continua.
Si tratta di un pregiudizio non
patrimoniale che assume, nondimeno, piena dignità
risarcitoria in considerazione del totale sconvolgimento
allegato dalla madre in ordine all’organizzazione della
propria vita in relazione alle gravi condizioni di
salute della figlia.
Il pregiudizio subito dalla madre,
in particolare, trova il proprio humus in quel tipico
fenomeno di propagazione intersoggettiva dell’illecito,
posto che l’evento di danno -costituito dalla meningite
che ha colpito la figlia e dai postumi invalidanti che
ne sono derivati - ha determinato un totale
sconvolgimento delle abitudini quotidiane, nonché una
serie di disagi riconnessi sia allo stato di salute
della figlia sia alla necessità di provvedere alla sua
assistenza, anche medianti viaggi per andare presso
strutture specializzate. Tutto ciò ha pertanto
determinato un totale rovesciamento della quotidianità
della Z., che discende dal rapporto parentale ed
affettivo con la figlia e con il disagio e la sofferenza
nel vedere M. in condizioni di infermità assoluta, ma
che non si ferma e non può essere circoscritto a tale
rapporto, andando ad incidere su tutti gli aspetti della
vita globalmente intesa della madre, come è attestato
dalla drastica riduzione dell’attività lavorativa,
fattore di particolare gravità, anche alla luce
dell’importanza fondamentale che il lavoro assume, non
solo in una prospettiva economica, ma anche in punto di
identità sociale dell’individuo.
In sostanza, dall’inadempimento
della prestazione contrattuale relativa agli obblighi di
protezione nei confronti di M., scaturisce altresì la
lesione di un interesse giuridicamente rilevante, quale
è quello della madre che si trova in una condizione di
vita connotata da un disagio psicologico perenne,
ancorché lo stesso non abbia dato luogo ad una vera e
propria malattia psichica.
Con riferimento alla liquidazione
del danno si rileva che le tabelle milanesi non
contengono una liquidazione per tale tipologia di danno
patrimoniale, ma prendono in considerazione solamente il
caso della morte del prossimo congiunto (indicando una
somma compresa tra € 154.350,00 e quella di €
308.700,00).
Nondimeno, malgrado l’evento morte
non sia paragonabile a quello della permanenza in vita,
seppure con un coefficiente di invalidità pari al 100%,
tuttavia l’irreversibilità delle condizioni di salute di
M., il fatto che tale infermità sia presente sin dalla
nascita e che la madre abbia da allora subito uno
sconvolgimento totale della propria vita, anche in punto
di vista dell’affettività del rapporto con la figlia,
che se non compromessa, risulta sicuramente lesa per
effetto delle sue gravi condizioni di salute, tali da
non consentire il pieno dispiegarsi, in tutte le sue
componenti, della relazione tra madre e figlia,
impongono una liquidazione equitativa del danno per un
ammontare pari ad € 200.000,00. Tale importo deve essere
devalutato, alla data del 23/4/2000, ottenendo la cifra
di € 156.006,24, sulla quale devono essere applicati gli
interessi e la rivalutazione, pervenendo così
all’importo totale di € 252.898,69 (secondo quanto
indicato in tema di calcolo degli interessi dalle S.U.
della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1712/1995).
Non è invece liquidabile in favore
della Z. il danno relativo alla diminuzione della
propria attività lavorativa, in quanto non provato.
In considerazione del principio di
soccombenza, la parte convenuta deve essere condannata a
pagare le spese del presente giudizio alla parte
attrice.
Le spese di c.t.u. devono essere
poste a carico definitivo della parte convenuta.
P.Q.M.
Il Tribunale di Prato,
definitivamente pronunziando, ogni altra domanda ed
eccezione respinta, accertata la responsabilità della
convenuta,
condanna la Azienda U.S.L. 4 di
Prato a pagare ad I. Z., in qualità di esercente la
potestà su M. M.:
- € 1.433.960,81 a titolo del
risarcimento del danno non patrimoniale relativo
all’invalidità permanente pari al 100%;
condanna la Azienda U.S.L. 4 di
Prato a pagare ad I. Z. in proprio:
- € 252.898,69 a titolo di
risarcimento del danno non patrimoniale;
- € 459,31 a titolo di risarcimento
del danno patrimoniale relativo alle spese mediche
sostenute;
- € 30.0000,00 a titolo di
risarcimento del danno patrimoniale relativo alle spese
mediche da sostenere;
condanna la parte convenuta a
pagare alla parte attrice le spese del presente
giudizio, che si liquidano in € 500,00 per spese, €
5.000,00 per diritti, € 9.000,00 per onorari, oltre
spese generali, I.V.A. e c.a.p. di legge;
spese di c.t.u. a carico definitivo
della parte convenuta.
|