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RESPONSABILITA' MEDICA: RISARCIBILE IL DANNO CHE LEDE IL RAPPORTO GENITORIALE" - Trib. Prato 1.2.2012 – commneto e testo-Giancarlo GIUSTI

 

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Nella sentenza commentata, il Tribunale di Prato si occupa del danno causato al momento del parto ad una bambina: la madre, al momento del ricovero aveva evidenziato la presenza di streptococco nelle proprie analisi, ma il dato era stato trascurato dal personale medico. La bambina aveva contratto il batterio al momento del parto e le mancate cure immediate avevano causato uno stato di invalidità quantificato dalla c.t.u. medica nel 100%.

 

Il Tribunale, innanzitutto, inquadra il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera in uno  schema c.d. atipico  (contratto di spedalità), avente per oggetto sia l’obbligo relativo alla prestazione medica che una serie di obblighi di protezione o accessori.

 

Tale contratto, in particolare, non è soggetto all’applicazione analogica delle norme sul contratto di prestazione d’opera professionale, con la conseguenza che il parametro normativo sotto il quale valutare l’inadempimento è quello di cui all’art. 1218 c.c. e, per quanto riguarda la responsabilità per l’operato del personale sanitario, dell’art. 1228 c.c. (...). Con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli - nei limiti consentiti dalla scienza - qualsiasi possibile danno.

 

La prestazione medica eseguita dal personale dipendente della struttura ospedaliera ha quindi per oggetto anche tutte quelle prestazioni volte a salvaguardare la salute del nascituro e quindi del nato.

 

Da qui il riconoscimento della responsabilità professionale dei medici che si occuparono del parto:

 

In tema di responsabilità professionale del medico, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ., (…)  In ambito sanitario, il medico ha l'obbligo di controllare la completezza e l'esattezza delle cartelle cliniche quale è quello della madre che si trova in una condizione di vita connotata da un disagio psicologico perenne, ancorché lo stesso non abbia dato luogo ad una vera e propria malattia psichica.

 

Ne discende la liquidazione del danno sopportato dalla bambina.

 

Ma anche, quello sopportato dalla madre. Come affermato dal Tribunale, il fatto che tale infermità sia presente sin dalla nascita e che la madre abbia da allora subito uno sconvolgimento totale della propria vita, anche in punto di vista dell’affettività del rapporto con la figlia, che se non compromessa, risulta sicuramente lesa per effetto delle sue gravi condizioni di salute, tali da non consentire il pieno dispiegarsi, in tutte le sue componenti, della relazione tra madre e figlia (…).

 

Senza paura delle terminologie, (in quanto la parola fa assumere significato pregnante al narrato) si può parlare di liquidazione del danno esistenziale: cosa altro è lo "sconvolgimento" giustamente denotato dal Tribunale, se non l'alterazione della "agenda di vita" che il diritto impone di rispettare. Il danno causato alla bambina ha privato la madre di tutte le esperienze positive legate alla maternità ed alla cura e crescita dei figli. Ha imposto una diversa agenda, fatta di cure mediche, aiuti forzati alla figlia, attese, drammi, scontenti. Ha privato la madre di tutte le gioie quotidiane che possono venire dal vedere crescere e progredire i figli. Giusto, quindi, il risarcimento effettuato, anche se il riferimento alla figura del danno esistenziale avrebbe sicuramente guidato il Giudice nella quantificazione del danno, richiamando in via più analitica , tutte le voci della "vita", della "agenda" che risultano sconvolte (secondo l'id quod plerumque accidit) dal danno considerato.

Tribunale di Prato, sez. Unica Civile, sentenza 1° febbraio 2012

Giudice Unico Brogi

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato I. Z., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale su M. M., nata a Prato il 23/4/2000, ha convenuto in giudizio la Azienda USL 4 Prato, in persona del legale rappresentante, per sentirla condannare – accertata e dichiarata la responsabilità della convenuta – al risarcimento di tutti i danni biologici, morali, patrimoniali ed esistenziali subiti dall’attrice e dalla figlia, oltre interessi legali.

L’attrice ha esposto di aver partorito la figlia M. in data 23/4/2000 presso l’ospedale convenuto e di aver evidenziato al personale sanitario, prima del parto, la presenza di un tampone vaginale positivo allo streptococco. Dopo il parto la madre, colpita da emorragia, non ha potuto trattenersi con la figlia, che ha visto solo il 25 aprile, constatando che la bambina era strana e con espressione persa nel vuoto. Anche le persone che erano andate a visitarla si erano rese conto del tremolio della bambina. La sera del 25 aprile quest’ultima è stata portata nuovamente alla madre, che si è accorta che faticava a respirare. A seguito degli allarmi della madre, la figlia è stata visitata da un dottore del reparto che si è reso conto della presenza dello streptococco.

L’attrice rileva che tale problema avrebbe potuto essere risolto con l’immediata somministrazione di antibiotici al momento della nascita, all’esito di esami del sangue, i cui risultati sono pervenuti solo la sera del 26/4/2000.

La mancata attenzione alle notizie ed ai documenti prodotti dalla madre, unitamente ai ritardi nelle cure, hanno determinato l’insorgere di una grave malattia per M., che, non solo ha corso pericolo di vita, ma attualmente è affetta da tetraparesi spastica distonica ed è priva di stabilità sul tronco, senza poter quindi camminare. È inoltre priva di larga parte della capacità di linguaggio, sebbene cosciente e consapevole della propria situazione.

Le conseguenze degli eventi descritti sono sempre più evidenti nel percorso di crescita di M.. Inoltre, la necessità di dare alla figlia cure e terapie, nonché un sostegno continuo, ha costretto la madre a ridurre la propria capacità lavorativa, anche con un gravissimo danno psicologico.

In conseguenza di quanto esposto la parte attrice ha rilevato che la negligenza nello svolgimento del proprio operato ha dato luogo ad un inadempimento degli obblighi contrattuali sorti in virtù del rapporto ospedaliero con la paziente e che, in ogni caso, risulta violato anche il divieto del neminem ledere, dato che tale negligenza ha cagionato un danno ingiusto.

L’attrice, in conseguenza di quanto esposto, ha chiesto il risarcimento del danno per l’invalidità permanente occorsa alla figlia, per la lesione psicologica subita dalla madre. Inoltre, ha chiesto il riconoscimento del danno morale, nonché del danno patrimoniale in relazione sia all’incapacità della figlia di intraprendere qualsiasi capacità lavorativa, sia per la madre di dover ridurre la propria. La parte attrice ha poi chiesto di tener conto delle conseguenze alla vita di relazione che una malattia come quella contratta hanno determinato sia per la madre che per la figlia.

Si è costituita l’Azienda U.S.L. convenuta che, a fronte della domanda di risarcimento del danno proposta dalla parte attrice, ha sollevato le seguenti eccezioni:

1.       in via preliminare e in rito: nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza dell’oggetto della domanda sotto il profilo del quantum debeatur, dal momento che non è stato indicato l’importo dei danni che sarebbero stati patiti dall’attrice, né sono stati indicati gli elementi necessari per una minima quantificazione;

2.       in via preliminare e nel merito: eccezione di prescrizione ex art. 2947 c.c. per il preteso diritto di risarcimento del danno extracontrattuale: la condotta negligente del personale dell’azienda ospedaliera è collocabile al momento del parto, avvenuto il 23/4/2000, mentre l’istanza stragiudiziale di risarcimento del danno è stata presentata dal legale di parte attrice solo il 30/6/2005;

3.       nel merito: infondatezza della domanda di parte attrice: dall’esame della cartella clinica non risultano fattori di rischio e, con riferimento alla sepsi da streptococco non c’erano elementi tali da richiedere trattamenti antibiotici preventivi, dato che la paziente aveva eseguito un tampone vaginale per la ricerca dello streptococco in data 16/2/2000 e uno in data 16/3/2000, entrambi con esito negativo;

4.       alla nascita è stata fatta la ricerca dello streptococco dell’aspirato gastrico, con risultato positivo, ma la comunicazione è avvenuta quando la patologia si era già manifestata;

5.       al momento dell’insorgenza del quadro clinico sono stati prontamente intrapresi gli accertamenti del caso e iniziata la terapia antibiotica.

Alla luce di quanto esposto la convenuta ha pertanto chiesto il rigetto della domanda di parte attrice.

La presente causa ha per oggetto il risarcimento dei danni subiti dalla parte attrice (in proprio, nonché dalla figlia) per effetto di contestate negligenze perpetrate dal personale dell’azienda ospedaliera convenuta al momento del parto.

L’attrice dichiara infatti di aver reso edotto, al momento del ricovero, il personale sanitario dell’ospedale della presenza di un tampone vaginale positivo allo streptococco. Nondimeno, il ritardo nella somministrazione di antibiotici alla neonata ha determinato l’insorgenza di una patologia, che sebbene non di esito letale, ha cagionato la tetraparesi di M..

Occorre in primo luogo dare atto dell’infondatezza dell’eccezione preliminare di rito relativa alla nullità dell’atto di citazione per mancata indicazione del quantum di risarcimento richiesto.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha infatti stabilito che: “La declaratoria di nullità della citazione ai sensi dell'art. 164, quarto comma, cod. proc. civ. postula una valutazione da compiersi caso per caso, tenendo conto che la ragione ispiratrice della norma risiede nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese. Pertanto, nel valutare il grado di incertezza della domanda, non può prescindersi dall'intero contesto dell'atto introduttivo, dalla natura del relativo oggetto e dal comportamento della controparte, dovendosi accertare se, nonostante l'obiettiva incertezza, il convenuto sia in grado di comprendere agevolmente le richieste dell'attore o se, invece, in difetto di maggiori specificazioni, si trovi in difficoltà nel predisporre una precisa linea difensiva.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 27670 del 21/11/2008). Nella specie è evidente che la quantificazione del risarcimento del danno non è avulsa dall’evento di danno, identificato nella meningite contratta nelle prime ore di vita da M., e che la quantificazione dei postumi permanenti non può che essere circostanza di natura tecnica che richiede l’espletamento di una c.t.u., volta ad accertare il coefficiente di invalidità (che la parte attrice in atto di citazione ha indicato essere assoluta), così come per quanto riguarda i danni conseguenza subiti dalla madre, non si può prescindere da una valutazione equitativa del giudice. In sostanza i criteri di quantificazione del danno nell’ambito del presente giudizio sono già presenti nell’atto di citazione, nella misura in cui la liquidazione delle poste risarcitorie ruota intorno al grado di infermità riportato da M. per effetto della meningite scaturita dall’infezione con lo streptococco. La domanda è pertanto priva del profilo di nullità ex art. 164 c.p.c. denunciato dalla parte convenuta.

Inoltre, sempre per la giurisprudenza di legittimità: “L'onere di determinazione dell'oggetto della domanda è validamente assolto anche quando l'attore ometta di indicare esattamente la somma pretesa dal convenuto, a condizione che abbia però indicato i titoli posti a fondamento della propria pretesa, ponendo in tal modo il convenuto in condizione di formulare le proprie difese.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12567 del 28/05/2009 Rv. 608542).

In secondo luogo, per l’esame dell’ulteriore eccezione preliminare (non di rito, ma) di merito relativa alla prescrizione, occorre qualificare il rapporto giuridico intercorrente tra l’ospedale ed il paziente, per poi scendere nelle peculiarità e nei contenuti che caratterizzano, più specificamente, il rapporto tra l’ospedale e la partoriente, con particolare riferimento alle prestazioni che ne sono oggetto.

La giurisprudenza di legittimità dell’ultimo decennio ha definitivamente inquadrato nel paradigma di cui all’art. 1218 c.c. la responsabilità per inadempimento delle prestazioni mediche, sia da parte del singolo medico, che da parte della struttura sanitaria nel suo complesso.

Con particolare riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria le S.U. della Corte di Cassazione hanno, in particolare, stabilito che: “Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).

A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell'applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.

Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto paziente- medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.

Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c.” (sent. n. 577/2008).

In sostanza, il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera viene inquadrato in uno  schema c.d. atipico  (contratto di spedalità), avente per oggetto sia l’obbligo relativo alla prestazione medica che una serie di obblighi di protezione o accessori. Tale contratto, in particolare, non è soggetto all’applicazione analogica delle norme sul contratto di prestazione d’opera professionale, con la conseguenza che il parametro normativo sotto il quale valutare l’inadempimento è quello di cui all’art. 1218 c.c. e, per quanto riguarda la responsabilità per l’operato del personale sanitario, dell’art. 1228 c.c.

Nella specie i contenuti del contratto di spedalità sono poi caratterizzati dalla peculiarità della prestazione, relativa non solo all’assistenza al parto della Z., ma altresì a tutte quelle attività necessarie a dare piena tutela alla salute del nascituro, al punto da poter essere qualificato come un contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo. Sul punto la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha infatti precisato che:  “Con il contratto di ricovero ospedaliero della gestante l'ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita evitandogli - nei limiti consentiti dalla scienza - qualsiasi possibile danno. Detto contratto, intercorso tra la partoriente e l'ente ospedaliero, si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore di terzo nei confronti del nato, alla cui tutela tende quell'obbligazione accessoria, ancorché le prestazioni debbano essere assolte, in parte, anteriormente alla nascita; ne consegue che il soggetto che, con la nascita, acquista la capacità giuridica, può agire per far valere la responsabilità contrattuale per l'inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il contraente sia tenuto in forza del contratto stipulato col genitore o con terzi, a garanzia di un suo specifico interesse.”  (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14488 del 29/07/2004 Rv. 575702).

La prestazione medica eseguita dal personale dipendente della struttura ospedaliera ha quindi per oggetto anche tutte quelle prestazioni volte a salvaguardare la salute del nascituro e quindi del nato.

Definita la natura contrattuale del rapporto tra le parti in causa occorre dare atto dell’infondatezza dell’eccezione di prescrizione di parte convenuta, che richiama quella quinquennale stabilita dall’art. 2947 c.c. per la responsabilità extracontrattuale. Del resto, la stessa parte attrice nell’atto di citazione parla in prima battuta di negligenza del personale sanitario inquadrabile sub specie di inadempimento per poi rilevare che tale condotta è altresì violativa del neminem laedere. Nondimeno, stante il carattere contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera, affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione appena citata, il termine di prescrizione è quello decennale di cui all’art. 2946 c.c.

Un ulteriore ed importante corollario del carattere contrattuale della responsabilità della struttura ospedaliera è costituito dal regime di ripartizione dell’onere della prova. La sentenza già richiamata delle S.U. della Corte di Cassazione ha precisato che: “Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento.

Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio - condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.” (Cass. S.U. cit.)

In sostanza, mentre il creditore (cioè il paziente) deve dare la prova della fonte del rapporto ed allegare (in modo non generico, ma) specifico l’altrui inadempimento, spetta al creditore dare la prova di aver esattamente adempiuto la propria prestazione medica.

In particolare, con riferimento alla responsabilità medica le S.U. della Corte di Cassazione, già richiamate, hanno stabilito che: “l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno.

Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.

Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.”

Nella specie la parte attrice ha affermato di aver informato, prima del parto, il personale sanitario in merito ad un test risultato positivo allo streptococco, mentre la parte convenuta, in sostanza, afferma che il proprio personale è venuto a conoscenza di tale circostanza, solo quando era ormai insorta la malattia foriera di postumi devastanti per la piccola M..

La controversa ricostruzione della quaestio facti non può che avvenire alla luce della ripartizione dell’onere della prova, così come delineato dalla giurisprudenza di legittimità nel suo massimo consesso.

È pertanto la struttura ospedaliera convenuta a dover dare la prova di aver eseguito tutte quelle attività di cura e di aver assunto tutte le informazioni necessarie a tutelare la salute della madre e del nascituro al momento del parto, nonché ad aver svolto tutte le prestazioni necessarie a scongiurare gli esiti della malattia contratta da M., così come si sono effettivamente verificati.

Nel caso in esame infatti, essendo convenuta la struttura ospedaliera, la stessa risponde di tutte le prestazioni mediche effettuate dal proprio personale sia durante il parto, che nelle ore successive alla nascita della bambina ai sensi dell’art. 1228 c.c.

Per poter valutare l’attività svolta dal personale sanitario dell’Azienda U.S.L. di Prato occorre esaminare più approfonditamente le modalità con le quali M. ha contratto l’infezione che ha portato alla meningite e verificare se ed in quale misura l’intervento medico avrebbe potuto scongiurare tale evento.

La c.t.u. espletata dal dr. P. F. (anche in base ai chiarimenti chiesti all’udienza del 15 giugno 2011, ha consentito di verificare che lo streptococco beta emolitico di gruppo B è un cocco, comune commensale della donna gravida, ed è il principale responsabile di severe infezioni batteriche verticali (sepsi, meningiti, polmoniti) e infezioni sistemiche o focali nel lattante. L’infezione da SMG ha due forme: quella precoce e quella tardiva. Quella precoce, corrispondente a quella contratta da M.,  si trasmette per via ascendente all’interno del liquido amniotico, attraverso l’aspirazione da parte del feto di liquido contaminato durante il passaggio attraverso il canale del parto, cioè mediante il contatto con secrezioni vagino-anali infette, e si manifesta durante la prima settimana di vita. Frequentemente è associata a complicazioni ostetriche materne, come un precedente neonato con infezioni invasiva da SGB, febbre materna in prossimità del parto, rottura prolungata delle membrane da oltre 18 ore, parto pretermine, batteriuria da SGB durante la gravidanza.

Le tre manifestazioni cliniche più precoci di infezione sono la setticemia (50% dei casi), la polmonite (30% dei casi), la meningite (15% dei casi). In tale ultima ipotesi i pazienti che sopravvivono possono sviluppare gravi esiti neurologici a distanza.

Al fine di impedire al neonato sviluppi tale patologia occorre somministrare la terapia antibiotica, da effettuare in due cicli prima della nascita. Secondo quanto dichiarato in sede di chiarimenti dal c.t.u. la somministrazione di terapia antibiotica è efficace nel  70% dei casi per prevenire la forma precoce.

Nella specie il fattore di rischio era costituito dal fatto che la madre aveva fatto un tampone vaginale con esito positivo per SGB alla 24° settimana di gestazione, presso una struttura privata. Risulta poi documentata la prova dell’avvenuta esecuzione di un secondo tampone, fatto in occasione di un ricovero ospedaliero, in data 16 febbraio 2000 (alla 29° settimana di gestazione), con esito negativo. Nella cartella clinica di M. risulta poi indicato un terzo tampone datato 16 marzo 2000 (all’inizio della 34° settimana di gestazione), con esito negativo, di cui non vi è, però, alcuna traccia sul luogo e sulle circostanze nelle quali è stato fatto.

Lo stesso c.t.u. anche in sede di chiarimenti ha dato atto dell’assoluta mancanza di documentazione di tale campione di cui viene indicata l’esistenza solo nella cartella pediatrica di M., redatta dopo la sua nascita.

Un elemento importante, evidenziato in sede di c.t.u. e di chiarimenti, è costituito dall’assenza di alcuna indicazione in merito ai tamponi vaginali (finalizzati ad accertare la presenza dello streptococco che poi ha infettato la bambina) nella cartella ostetrica redatta al momento del parto. Sono invece menzionati due tamponi (eseguiti in data 16/2/2000, come da documentazione allegata, e 16/3/2000, privo di documentazione), entrambi negativi, nella cartella pediatrica della bambina (redatta al momento del ricovero nella patologia neonatale, circa due giorni dopo la nascita).

Sul punto in sede di chiarimenti, alla domanda del giudice, fatta all’udienza del 15 giugno 2011, se al momento del ricovero venga chiesto alla partoriente se abbia fatto precedentemente il tampone, il c.t.u. ha risposto: “a loro risultava che era stato fatto un tampone vaginale. Nella cartella ostetrica deve essere riportato nell’anamnesi il dato relativo al tampone vaginale che non ho trovato.”

In sostanza, nella cartella ostetrica, redatta al momento del ricovero per il parto, non è stato indicato, come avrebbe dovuto, il dato relativo ai tamponi vaginali effettuati dalla Z.. Si tratta di una circostanza che attesta sicuramente la negligenza del personale sanitario che ha redatto tale cartella in ordine all’omissione di un dato importante, tanto più che:

1.       lo streptococco è una presenza comune nelle donne in gravidanza;

2.       se tale tampone non fosse stato importante, non si vede come mai la stessa struttura ospedaliera aveva effettuato un tampone alla stessa Z. in data 16/2/2000, in occasione di un ricovero ospedaliero documentato agli atti, né perché al momento della nascita venisse fatto un esame di ricerca dello streptococco dall’aspirato gastrico.

È evidente quindi che il protocollo adottato dall’ospedale convenuto al momento della nascita di M. prevedeva un monitoraggio dei possibili rischi derivanti dall’infezione da streptococco.

Si rileva inoltre come i risultati dell’analisi relativa alla ricerca dello streptococco nell’aspirato gastrico della bambina, siano pervenuti con notevole ritardo (solo tre giorni dopo la nascita), permettendo di avere piena certezza della patologia solo in tale momento. Il termine di tre giorni per i risultati di un’analisi così importante, in considerazione dei fattori di rischio in gioco, non sono giustificabili neppure alla luce del fatto che M. è nata la domenica di Pasqua e che i due giorni successivi erano festivi (Pasquetta e 25 aprile). Risulta pertanto una disfunzione della struttura sanitaria convenuta anche a livello organizzativo e non solo in merito all’operato del personale sanitario.

La mancata documentazione dei tamponi eseguiti durante la gravidanza nella cartella ostetrica redatta al momento del ricovero in ospedale costituisce una grave negligenza da parte del personale sanitario, che non ha consentito, oltretutto, ai medici che materialmente hanno prestato assistenza alla partoriente di poter valutare la necessità di somministrare quella terapia antibiotica idonea, nel 70% dei casi, a scongiurare l’infezione evoluta in meningite.

Il dato scientificamente rilevante è costituito infatti dalla circostanza che tale infezione è contratta proprio al momento del parto, attraverso il contatto con secrezioni vagino-anali infette. Pertanto, il momento determinante per scongiurare l’infezione contratta nella specie dalla piccola M., è quello del ricovero della partoriente, dato che il c.t.u., in sede di chiarimenti, ha specificato che: “Il tempo per l’efficacia dell’antibiotico è di quattro ore. Cioè la profilassi deve essere iniziata almeno quattro ore prima della nascita, in modo che la donna possa fare almeno due dosi (una ogni quattro ore), altrimenti la profilassi è incompleta.”.

È da rilevare, a tal fine, che tra il ricovero in ospedale della Z. (22 aprile) e la nascita di M. c’era sicuramente lo spatium temporis necessario alla somministrazione della terapia antibiotica necessaria.

La mancata indicazione nella cartella ostetrica delle indicazioni, nonché il ritardo nella diagnosi di meningite, portano alla conclusione che l’azienda ospedaliera non ha assolto all’onere della prova, su di lei incombente, di aver esattamente adempiuto agli obblighi di protezione nei confronti del nascituro, che scaturiscono dal rapporto contrattuale tra la partoriente e l’ente ospedaliero.

La giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato recentemente che: “In tema di responsabilità professionale del medico, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ., sia come possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria.” (Cass., Cass., Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/01/2010 (Rv. 611334).

In tal senso il mancato riferimento nella cartella ostetrica al test positivo allo streptococco fatto dalla madre il 12/1/2000 non può costituire la prova dell’esatto adempimento della prestazione di assistenza al parte da parte dell’ospedale convenuto, proprio per il fatto che è omessa la benché minima indicazione – che, come dichiarato dal c.t.u. in sede di chiarimenti sarebbe stata invece doverosa – in ordine ai tamponi vaginali effettuati durante la gravidanza.

D’altra parte se la struttura ospedaliera, a mezzo del proprio personale, avesse correttamente adempiuto al proprio obbligo anche con riferimento alla redazione della cartella ostetrica, sarebbero comunque stati indicati i tamponi che sono poi stati menzionati nella cartella pediatrica, redatta successivamente alla nascita di M.. Non è stata data invece alcuna spiegazione del fatto perché non è stato indicato nella cartella ostetrica neppure il test svolto in data 16/2/2000 (effettuato presso l’azienda ospedaliera convenuta). In altre parole, la mancata indicazione dei tamponi vaginali relativi allo streptococco effettuati dalla Z. implica l’omessa valutazione di tale fattore di rischio da parte del personale sanitario che ha avuto in cura la Z. al momento del suo ingresso in ospedale al momento del parto.

Il giudice di legittimità ha infatti precisato che: “In ambito sanitario, il medico ha l'obbligo di controllare la completezza e l'esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell'art. 1176, comma secondo, cod. civ. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 20101 del 18/09/2009 Rv. 609443).

La mancata indicazione dei risultati dei tamponi vaginali eseguiti durante la gravidanza da parte della Z. deve essere, inoltre, valutata anche alla luce della testimonianza della madre di quest’ultima. Tale teste deve infatti essere considerata attendibile, posto che ha specificato le circostanza in cui la figlia, al momento del ricovero, ha parlato del precedente tampone vaginale positivo. La teste ha infatti riferito di un unico episodio svolto alla sua presenza e - su espressa domanda del Giudice - ha chiarito cosa è stato detto. In particolare, il teste ha detto di aver assistito ad un colloquio al momento dell’accettazione in cui è stato chiesto alla Z. se avesse avuto dei problemi durante la gravidanza e che l’attrice ha risposto di aver avuto un test positivo allo streptococco.

Non è invece chiaro quanto riferito dal teste Spinelli (il medico che ha fatto partorire la Z.), dal momento che tale testimonianza non riesce comunque a superare il dato dell’omessa menzione del dato relativo ai tamponi nella cartella ostetrica.

Come già rilevato, a fronte della puntuale allegazione della parte attrice circa l’inadempimento del personale dell’azienda ospedaliera convenuta per non aver tenuto presente la dichiarazione in ordine alla presenza di un tampone positivo allo streptococco e non aver somministrato gli antibiotici necessari a scongiurare lo sviluppo dell’infezione contratta da M. al momento della nascita, la convenuta non ha provato di aver esattamente adempiuto alla propria obbligazione o l’assenza di nesso causale tra il proprio inadempimento e il danno lamentato da chi ha usufruito della prestazione medica.

Con riferimento al nesso causale la condotta negligente della struttura ospedaliera rileva, sotto il profilo della causalità omissiva, sotto un duplice profilo: quello dell’anamnesi (evidenziata dal c.t.u.) relativa alla mancata indicazione e valutazione dei tamponi vaginali relativi allo streptococco e quello relativo alla mancata somministrazione degli antibiotici. È inoltre apprezzabile il ritardo nella diagnosi di meningite che è stata potuta fare solo al momento dei risultati delle analisi dell’aspirato gastrico della neonata, pervenute solo tre giorni dopo la nascita.

Nella specie il nesso causale tra omissioni della struttura ospedaliera e la meningite contratta dalla bambina deve poi essere apprezzato secondo il criterio del “più probabile che non”, così come stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 576/2008). Sul punto la recente giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che: “In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". Ne consegue, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, che, essendo quest'ultimo tenuto a espletare l'attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l'omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento stesso.” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 08/07/2010 Rv. 613967).

Nella specie, si rileva, in primo luogo che lo streptococco viene contratto dal feto al momento della nascita attraverso il contatto con le secrezioni materne e che la somministrazione di antibiotici durante il parto avrebbe scongiurato in almeno il 70% dei casi l’evolversi di una malattia del tipo di quella che ha colpito M.. In secondo luogo non sono risultati dall’istruttoria espletata (né la difesa della convenuta vi ha fatto cenno) fattori alternativi di rischio, con la conseguenza che non ci sono particolari problemi in ordine all’accertamento del nesso causale tra l’infezione da streptococco, l’omessa corretta anamnesi della partoriente, la mancata tempestiva somministrazione di antibiotici e l’evento di danno costituito dalla meningite contratta da M..

Esaurito il problema dell’an della responsabilità ospedaliera (questione preliminare di merito sulla quale la causa è stata trattenuta in decisione), il Giudice, rileva che al momento della precisazione delle conclusioni lo stesso è investito della decisione di tutta la causa ai sensi dell’art. 189 c.p.c. e che l’istruttoria espletata consente di pronunciarsi anche sulla quantificazione dei danni richiesti dalla parte attrice, secondo quanto precisato di seguito. Occorre fare una distinzione tra il risarcimento chiesto dalla madre per conto della figlia e quello richiesto iure proprio.

Con riferimento alla bambina, il c.t.u. ha accertato come danno-conseguenza all’evento di danno costituito dalla meningite contratta in occasione della nascita, un’invalidità permanente pari al 100%. Il c.t.u. ha infatti riscontrato un grave ritardo mentale, all’interno di un quadro motorio a tipo tetraparesi distonico-discinetica, con epilessia resistente ai farmaci, che impedisce alla bambina di essere autonoma negli atti quotidiani della vita, come spostarsi, lavarsi, vestirsi, mangiare e così via. Tale quadro appare ormai stabilizzato e privo di miglioramento neurologico, determinando in M. un’invalidità totale e permanente, che le impedirà di avere una vita affettiva e di relazione adeguata alla sua età.

Deve essere pertanto risarcito il pregiudizio relativo alla lesione permanente dell’integrità psico-fisica pari al 100%, che deve essere liquidato secondo le c.d. Tabelle di Milano (v. Cass. n. 12408/2011), prendendo come base il punto d’invalidità che tenga conto non solo della lesione all’integrità psico-fisica di M., ma altresì del danno non patrimoniale, conseguente alla totale condizione di sofferenza in cui la stessa verserà per tutta la vita per il totale immobilismo cui è destinata, nonché all’impossibilità di avere la benché minima vita di relazione, dovendo ricorrere per il resto dei suoi giorni all’ausilio di terzi anche per l’espletamento delle più piccole ed elementari attività quotidiane. Il punto base si € 7.560,13 deve essere quindi aumentato del 50% ad € 11.340,20 (così come previsto dalle tabelle milanesi) e moltiplicato per il coefficiente di invalidità pari al 100% e per il demoltiplicatore di 1, pervenendo all’importo di € 1.134.020,00.

Tale importo deve essere devalutato all’epoca dell’inadempimento (23/4/2000), pervenendo alla somma di € 884.570,98, sulla quale devono essere applicati gli interessi e la rivalutazione (secondo quanto stabilito dalle S.U. della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1712/1995), ottenendo l’importo totale di € 1.433.960,81, che deve essere liquidato in favore della parte attrice.

Rilevato che nella liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alla lesione dell’integrità fisica è ricompreso anche il danno per la perdita della capacità lavorativa generica, non viene liquidato un  ulteriore importo per la voce risarcitoria chiesta dalla parte attrice con riferimento al fatto che M. non sarà mai in grado di esercitare alcuna attività lavorativa.

Con riferimento al danno patrimoniale relativo alle spese mediche chieste nell’atto di citazione, il c.t.u. non ha indicato specifiche spese mediche, ma ha fatto un calcolo relativo all’assistenza generica di cui M. avrà costantemente bisogno. Nondimeno, benché tali spese costituiscano un esborso notevole, anche alla luce dell’assistenza giornaliera pressoché continua di cui M. avrà bisogno per tutta la vita, il Giudice rileva, in punto di petitum, che la parte attrice ha chiesto il risarcimento del danno patrimoniale identificato nelle spese mediche strettamente intese (non di quelle di assistenza generica, per la quantificazione delle quali il c.t.u. rinvia al contratto collettivo nazionale per il lavoro domestico) e che sul punto il c.t.u. non è pervenuto ad una quantificazione, ma ha dichiarato la congruità di quelle sostenute finora. In altre parole, non è stato fatto oggetto di domanda il risarcimento del danno patrimoniale identificato nelle somme necessarie a pagare una persona che sia presente costantemente accanto a M., ma è stato invece chiesto il risarcimento del danno delle presumibili spese mediche future, che, non quantificate dal c.t.u., vengono liquidate in via equitativa in € 30.000,00, in considerazione del fatto che, date le condizioni della bambina, è certo che le stesse saranno comunque necessarie.

Devono essere invece liquidate le somme relative alle spese mediche documentate, ritenute congrue dal c.t.u., per un importo di € 469,31.

Con riferimento al danno subito dalla madre, la parte attrice ha denunziato un danno psichico, errando tuttavia, nella qualificazione del pregiudizio non patrimoniale di cui chiede il risarcimento. Il danno psicologico deve infatti essere inteso come lesione dell’integrità psichica suscettibile di accertamento medico-legale. La parte attrice, in realtà, in punto di allegazione, indica una diversa tipologia di danno non patrimoniale, in cui la sofferenza (peraltro considerevole) è emblematica non già di una compromissione dello stato di salute, quanto del disagio conseguente alle condizioni della figlia ed alla necessità di riorganizzare la propria vita, in relazione al fatto che M. è destinata ad una perenne condizione di immobilità assoluta che richiede un’assistenza continua.

Si tratta di un pregiudizio non patrimoniale che assume, nondimeno, piena dignità risarcitoria in considerazione del totale sconvolgimento allegato dalla madre in ordine all’organizzazione della propria vita in relazione alle gravi condizioni di salute della figlia.

Il pregiudizio subito dalla madre, in particolare, trova il proprio humus in quel tipico fenomeno di propagazione intersoggettiva dell’illecito, posto che l’evento di danno -costituito dalla meningite che ha colpito la figlia e dai postumi invalidanti che ne sono derivati - ha determinato un totale sconvolgimento delle abitudini quotidiane, nonché una serie di disagi riconnessi sia allo stato di salute della figlia sia alla necessità di provvedere alla sua assistenza, anche medianti viaggi per andare presso strutture specializzate. Tutto ciò ha pertanto determinato un totale rovesciamento della quotidianità della Z., che discende dal rapporto parentale ed affettivo con la figlia e con il disagio e la sofferenza nel vedere M. in condizioni di infermità assoluta, ma che non si ferma e non può essere circoscritto a tale rapporto, andando ad incidere su tutti gli aspetti della vita globalmente intesa della madre, come è attestato dalla drastica riduzione dell’attività lavorativa, fattore di particolare gravità, anche alla luce dell’importanza fondamentale che il lavoro assume, non solo in una prospettiva economica, ma anche in punto di identità sociale dell’individuo.

In sostanza, dall’inadempimento della prestazione contrattuale relativa agli obblighi di protezione nei confronti di M., scaturisce altresì la lesione di un interesse giuridicamente rilevante, quale è quello della madre che si trova in una condizione di vita connotata da un disagio psicologico perenne, ancorché lo stesso non abbia dato luogo ad una vera e propria malattia psichica.

Con riferimento alla liquidazione del danno si rileva che le tabelle milanesi non contengono una liquidazione per tale tipologia di danno patrimoniale, ma prendono in considerazione solamente il caso della morte del prossimo congiunto (indicando una somma compresa tra € 154.350,00 e quella di € 308.700,00).

Nondimeno, malgrado l’evento morte non sia paragonabile a quello della permanenza in vita, seppure con un coefficiente di invalidità pari al 100%, tuttavia l’irreversibilità delle condizioni di salute di M., il fatto che tale infermità sia presente sin dalla nascita e che la madre abbia da allora subito uno sconvolgimento totale della propria vita, anche in punto di vista dell’affettività del rapporto con la figlia, che se non compromessa, risulta sicuramente lesa per effetto delle sue gravi condizioni di salute, tali da non consentire il pieno dispiegarsi, in tutte le sue componenti, della relazione tra madre e figlia, impongono una liquidazione equitativa del danno per un ammontare pari ad € 200.000,00. Tale importo deve essere devalutato, alla data del 23/4/2000, ottenendo la cifra di € 156.006,24, sulla quale devono essere applicati gli interessi e la rivalutazione, pervenendo così all’importo totale di € 252.898,69 (secondo quanto indicato in tema di calcolo degli interessi dalle S.U. della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1712/1995).

Non è invece liquidabile in favore della Z. il danno relativo alla diminuzione della propria attività lavorativa, in quanto non provato.

In considerazione del principio di soccombenza, la parte convenuta deve essere condannata a pagare le spese del presente giudizio alla parte attrice.

Le spese di c.t.u. devono essere poste a carico definitivo della parte convenuta.

P.Q.M.

Il Tribunale di Prato, definitivamente pronunziando, ogni altra domanda ed eccezione respinta, accertata la responsabilità della convenuta,

condanna la Azienda U.S.L. 4 di Prato a pagare ad I. Z., in qualità di esercente la potestà su M. M.:

- € 1.433.960,81 a titolo del risarcimento del danno non patrimoniale relativo all’invalidità permanente pari al 100%;

condanna la Azienda U.S.L. 4 di Prato a pagare ad I. Z. in proprio:

- € 252.898,69 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale;

- € 459,31 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale relativo alle spese mediche sostenute;

- € 30.0000,00 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale relativo alle spese mediche da sostenere;

condanna la parte convenuta a pagare alla parte attrice le spese del presente giudizio, che si liquidano in € 500,00 per spese, € 5.000,00 per diritti, € 9.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e c.a.p. di legge;

spese di c.t.u. a carico definitivo della parte convenuta.

 

 

 

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