Storani Paolo
“Processo unico per danni a persona
e cose – Mai più riserva di agire in separato processo”
– Cassazione Civile, Sezione Terza, n. 28286 del 22
dicembre 2011, Pres. Alfonso AMATUCCI, Rel. Roberta
VIVALDI – Paolo M. STORANI
L'approdo della Cassazione in
favore dell’infrazionabilità e contro lo spezzatino era
ampiamente prevedibile.
Ogni scissione (tanti anni fa
solevo definire quell’eccezione di non scissione) del
contenuto dell'obbligazione espone il debitore ad
un'unilaterale modificazione, aggravativa della
posizione dell'antagonista processuale, del tutto priva
di giustificazione.
Infatti, la giustificazione
giuridicamente valida non può consistere nell'anelito ad
una pronuncia più celere quale tendenzialmente è quella
del giudice di pace.
Quel giudizio pilota, così poco
garantito (in sede di memoria istruttoria ex art. 320
c.p.c. lo sventurato convenuto è privo di tutela
effettiva perché spesso non può esaminare neppure i
nuovi documenti che controparte abbia versato in atti
all'udienza di rettificazione delle difese), è destinato
a far conseguire all'attore un giudicato da opporre poi
al debitore nella richiesta del credito maggiore.
Del resto, come si fa, all'avvio di
un processo civile che punta a far conseguire al
danneggiato la refusione del danno al veicolo, a non
contemplare anche la richiesta per il risarcimento delle
lesioni personali risentite nel medesimo evento?
Comprendo umanamente il disappunto
di alcuni interpreti, sbigottiti dalla declaratoria di
improponibilità del secondo processo, ma costoro non
possono ignorare alcuni capisaldi che mi limito ad
elencare.
1. Il giusto processo ora contenuto
nella nostra Costituzione all'art. 111, frutto della
riforma con legge costituzionale n. 2 del 23 novembre
1999 sulla scia dei principi enunciati dalla Convenzione
Europea dei diritti dell'uomo (art. 6), è principio che
nella giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo la
sua genesi, ha subito una maturazione interpretativa.
2. La canonizzazione del principio
di lealtà processuale e buona fede oggettiva e
soggettiva di cui all'art. 88 c.p.c.
3. L'endiadi che forma tale norma
con l'art. 2 della Costituzione.
4. La lotta in genere all'ab-uso
del processo: il processo non può essere giusto se è
frutto di abuso nel richiedere più volte (giudizi
distinti per danni patrimoniali e non) quello che
intuitivamente potrebbe 'stare' dentro, nello stesso
processo; è evidente lo stridore nell'attrito tra
processi moltiplicati e durata ragionevole.
5. La tutela della ragionevolezza
della durata del processo abbinata alla garanzia che il
partner procedimentale non sarà esposto alla gragnola di
colpi di un diritto sminuzzato e frazionato.
6. La sentenza delle Sezioni Unite
n. 23726 del 15 novembre 2007 emersa dalla felice penna
del dott. Mario Rosario MORELLI, eccellente Giurista da
un paio di mesi asceso al soglio di giudice
costituzionale, che si era meditatamente discostata dal
precedente del 2000, la pronuncia n.108 del 10 aprile
2000, con cui si autorizzò la prassi della criticabile
riserva di separata azione per il residuo.
7. L'autorizzazione al
frazionamento dei crediti a fronte di un unico rapporto
era censurabile sotto l'aspetto davvero evidente
dell'irrazionalità del domandare, volta per volta,
oserei soggiungere RATEALMENTE, adempimenti singoli,
facendo sempre riserva di agire per il residuo
ammontare; escludo che occorrano tanti esempi per
afferrarne la criticabilità e la pericolosità per il
debitore, esposto a mille iniziative aggressive.
8. La proliferazione delle spese
legali per il debitore; non è il caso neppure di
aggiungere altro.
9. Tale formula consunta non poteva
reggere all'impatto con la Carta Costituzionale dotata
di nuova linfa, linfa che può benissimo incidere sul
corpo delle norme processuali senza che l'interprete
possa dolersi fondatamente del fatto che la Costituzione
le plasmi e le rimodelli ai suoi principi; le norme
processuali, infatti, sono di rango inferiore.
10. Non è sufficiente accampare la
teoria che la duplicazione sarebbe avvenuta per colpa
dell'avvocato che, talora per fini poco nobili, ha
impiantato la causa pilota per raddoppiare il suo
onorario; tali scelte sono purtroppo destinate a
ricadere sul groppone del cliente.
Aprendo la porta su questo
versante, non si formerebbe mai un giudicato stabile.
La Cassazione, già con inedita
sentenza del lontano 15 settembre 1975, aveva negato
l'ammissibilità del frazionamento delle domande, una
prassi assai diffusa all’epoca.
Poi, le Sezioni Unite n. 108 del
2000 affermarono l'esatto contrario: "ammissibile la
domanda giudiziale con la quale il creditore di una
determinata somma, derivante dall'inadempimento di un
unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con
riserva di azione per il residuo, trattandosi di un
potere non negato dall'Ordinamento e rispondente ad un
interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non
sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla
difesa delle proprie ragioni".
La Corte aveva, dunque, mutato
radicalmente orientamento muovendo dall'abborracciato
criterio, invero scarsamente persuasivo ed intimamente
contraddittorio, che quel che non è vietato, è permesso.
Reputò, quindi, in linea di
principio ammissibile richiedere SEPARATAMENTE
risarcimento del danno alle COSE ed alle PERSONE, purché
l'attore facesse ESPRESSA RISERVA di domandare in altra
occasione i residui ed ulteriori danni, indicati in modo
analitico, e sempre che il convenuto non avesse invocato
in linea riconvenzionale che l'accertamento si
estendesse a TUTTI i danni causati dall'incidente fonte
di pregiudizi multipli, provocando in tal modo il
giudizio UNITARIO.
Tale SPEZZATINO, a mio modesto modo
di vedere, non sarà mai più possibile.
In proposito, ancora con sentenza
(inedita) del Giudice di Pace di Macerata n. 20/2012,
pubblicata il 9 gennaio 2012, si affermava la totale
diversità e l'inapplicabilità dei principi affermati
dalle Sezioni Unite n. 23726/2007 in occasione della
statuizione su una fattispecie esattamente
sovrapponibile a quella giunta al vaglio di Cassazione
Sezione Terza n.28286/2011, ora in commento.
L’iter motivazionale del GdP,
Estensore GUARNIERI, muoveva dal presupposto che “le
poste di danno sono autonome e differenti (si pensi alla
diversità di soggetti tra proprietario del mezzo
danneggiato e conducente ferito)”, mentre nel caso
deciso in concreto dal magistrato non togato non
sussisteva affatto tale soltanto affermata diversità,
coincidendo in capo all’attore entrambe le qualifiche:
il soggetto leso, già munito di sentenza passata in
giudicato, era lo stesso proprietario dei veicolo.
In particolare, l’attore del
secondo processo aveva già ottenuto una sentenza passata
in giudicato avanti al medesimo Ufficio del GdP di
Macerata, talché avrebbe dovuto rivelarsi al vaglio
giudiziale un autentico caso di scuola: sebbene il
principio sia stato affermato dalle Sezioni Unite del
2007 in fattispecie di responsabilità contrattuale, la
ratio appare identica se applicata come linea-guida nel
credito aquiliano.
Eclatante era la logica di non
aggravare la posizione del debitore, con iniziative
scaglionate nel tempo senza la benché minima
giustificazione, neppure dedotta ed allegata (a titolo
esemplificativo, una frattura che tarda a saldarsi e,
per contro, una vettura ch’è utile all’intero nucleo
familiare, con tempistiche differenti e che, di
conseguenza, terrei fuori dalla rigidità ermeneutica).
In effetti, il diritto risarcitorio
nasce UNICO e non può essere frazionato e disarticolato
nel momento processuale se non si vuole incocciare nello
scoglio di cui abbiamo voluto trattare.
Le mie teorizzazioni sono
ovviamente APERTE ad ogni contributo e NON sono
IDEOLOGICHE, nel senso pratico che affermarle o
smentirle mi lascia indifferente, mosso come sono
soltanto dalla passione per la procedura, ch'è un
congegno da mettere in funzione, da smontare e poi
rimontare, per veder quel che c'è dentro.
Punto di partenza del ragionamento
è comunque che lo STESSO soggetto abbia risentito danni
plurimi: può azionarli separatamente?
L'argomento di diritto positivo del
riferimento all'art. 145 del Codice delle Assicurazioni
Private, che contempla una tempistica difforme per il
danno materiale, proponibile trascorsi sessanta giorni
dall'invio della rituale richiesta risarcitoria, e per
il danno alla persona, proponibile dopo novanta dì, non
si prospetta decisivo, almeno a mio sommesso modo di
vedere.
Infatti, la tesi, autorevolmente
propugnata in dottrina da Marco BONA, per quanto
suggestiva, non sottrae la questione - tempistica alla
sovraordinazione del principio della ragionevole durata
del processo 'giusto' in combinata lettura con la lealtà
che si deve al debitore.
La risposta, alla domanda se i
diritti persona-cose possano essere azionati in modo
frazionato, è: in tutta serenità, assolutamente no, se
si eccettuino casi particolari come quello dianzi
esplicitato (in cui nessuno dubiterebbe della buona fede
e della lealtà processuale del povero danneggiato che
sta a curarsi nel centro specialistico di Cortina
d'Ampezzo per tentare di lenire, con il sole d'alta
quota, i postumi ancora non stabilizzati della frattura)
e come tanti altri che si potrebbero sollevare nella
realtà delle aule di Giustizia.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE
TERZA CIVILE, N. 28286/2011
F.G. conveniva, davanti al
tribunale di Lucca, il Comune di Lucca chiedendone la
condanna al risarcimento dei danni alla persona subiti
in occasione del sinistro stradale in cui aveva
riportato, oltre al danno materiale al proprio
ciclomotore, anche lesioni personali.
Nel ricorso faceva presente di
avere già convenuto lo stesso Comune davanti al giudice
di pace competente per il risarcimento dei danni
materiali, riservandosi di promuovere separato giudizio
per ottenere il risarcimento per le lesioni riportate.
La sentenza del giudice di pace,
che riconosceva la responsabilità del Comune convenuto,
con la conseguente condanna al risarcimento dei danni
materiali, passava in giudicato.
Il Tribunale di Lucca, con sentenza
del 6.2.2008, rigettava la domanda.
Ad eguale conclusione perveniva la
Corte d'Appello che, con sentenza del 29.4.2009,
rigettava l'appello proposto dal F..
Quest'ultimo ha proposto ricorso
per cassazione affidato a due motivi illustrati da
memoria.
Resiste con controricorso il Comune
di Lucca.
Motivi della decisione
Il ricorso è stato proposto per
impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in
vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante
modifiche al codice di procedura civile in materia di
ricorso per cassazione; con l'applicazione, quindi,
delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo
1^.
I motivi rispettano i requisiti
richiesti dall'art. 366 bis c.p.c..
Con il primo motivo il ricorrente
denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art.
2043 c.c. in relazione all'art. 1181 c.c., art. 1175
c.c., art. 539 c.p.p., art. 211 c.p.c. e art. 278
c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Il motivo non è fondato.
Diversamente da quel che sembra
ritenere l'odierno ricorrente, infatti, i principi di
buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita
costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile
dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.,
costituiscono un canone oggettivo ed una clausola
generale che non attiene soltanto al rapporto
obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite
all'agire processuale nei suoi diversi profili. Il
criterio della buona fede costituisce, quindi,
strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo
lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione
di garanzia del giusto equilibrio degli opposti
interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della
tutela giurisdizionale latamente considerata,
indipendentemente dalla tipologia della domanda
concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n.
28719;
Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Che è ciò che si verificherebbe con
il consentire la "parcellizzazione" della tutela
processuale dell'azione extracontrattuale per i danni
materiali e personali da circolazione stradale, davanti
al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle
rispettive competenze per valore, quando le conseguenze
dannose derivanti dal fatto illecito si siano
puntualmente e definitivamente verificate.
Anche in questo caso, infatti,
esiste una controparte (il danneggiante) i cui interessi
meritano una equilibrata tutela, senza consentirne
alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il
prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile
duplicazione dell'azione processuale per i danni
conseguenti ad unico fatto illecito.
Ed allora, una tale
disarticolazione dell'unico rapporto sostanziale
nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere
lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede,
con l'aggravamento della posizione del
danneggiante-debitore, per essere attuata con ed
attraverso il processo, si risolve anche in un abuso
dello strumento processuale.
Con la violazione anche della
finalità deflattiva insita nella norma costituzionale
dell'art. Ili per il paradosso esistente tra la
moltiplicazione dei processi e la possibile limitazione
della relativa durata.
Del resto, in tema di rapporto tra
giudizi pendenti davanti al giudice di pace ed al
tribunale, il principio della necessaria unicità del
giudizio davanti al tribunale è, dall'art. 40 c.p.c.,
u.c., proclamato in modo espresso, anche per le domande
solo connesse tra loro.
Nel caso in esame, i criteri
identificativi della domanda erano gli stessi, il
rapporto era identico, il fatto illecito generatore del
danno era unico e le sue conseguenze dannose si erano
definitivamente verificate, sia in rapporto alle
conseguenze materiali, sia a quelle personali, delle
quali l'originario attore chiedeva il risarcimento.
Emerge, infatti, dagli atti che, al
momento della proposizione della domanda davanti al
primo giudice, l'odierno ricorrente fosse pienamente
conscio anche dei danni personali conseguenti al fatto
illecito (consolidamento dei postumi invalidanti -
invalidità riconosciuta dall'INAIL).
In tale situazione, alla luce delle
considerazioni che precedono, non è giustificabile la
disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta
mediante la proposizione di distinte domande,
privilegiando la scelta del giudice di pace secondo la
sua corretta individuazione per valore.
E ciò, neppure con la riserva di
far valere ulteriori e diverse "voci di danno" in altro
procedimento, che l'attuale ricorrente aveva inserito
nella domanda proposta con il primo giudizio.
La strumentante di una tale
condotta frazionata è - come già detto - evidente, ma
non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta
protezione per la violazione di precetti costituzionali
e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in
questo caso, la proposizione della seconda domanda, in
un abuso della tutela processuale, ostativa al suo
esame.
Nè, in questo caso, può invocarsi,
in senso contrario, il principio seguito dalla
giurisprudenza della corte di cassazione, per il quale
la riserva di far valere ulteriori danni in un autonomo
giudizio, sia consentita (ad es. Cass. 30.10.2006 n.
23342; ma v. anche Cass. 22.8.2007 n. 17873; cass.
7.12.2004 n. 22987).
Per le caratteristiche del caso in
esame - in cui il danno derivante dall'unico fatto
illecito riferito alle cose ed alla persona si era già
verificato nella sua completezza -, il consentire un uso
parcellizzato della tutela processuale colliderebbe con
i principi ricordati, nel mutato, ed attuale, assetto
dei valori costituzionali, cui deve necessariamente
ispirarsi anche il processo civile.
Correttamente, pertanto, il giudice
del merito ha, sotto questo profilo, rigettato la
domanda.
Con il secondo motivo si denuncia
la violazione e/o falsa applicazione dell'art.
11 disp. gen. (R.D. 16 marzo 1942, n.
262), art. 25 Cost., comma 2, e art. 5 c.p.c..
Anche questo motivo non è fondato.
Il ricorrente sostiene l'erroneità
della sentenza impugnata, per avere rigettato l'appello
sul presupposto della improponibilità della domanda,
ricavata da una mutata interpretazione di principi
giuridici, con effetto retroattivo: la domanda, infatti,
al momento in cui era stata proposta (anno 2004), era
pienamente legittima alla stregua della giurisprudenza
delle Sezioni Unite.
La tesi non può essere seguita.
Il "giusto processo" espresso dalla
norma dell'art. 111 Cost., come riformato con la legge
costituzionale 23.11.1999 n. 2, sulla scia dei principi
enunciati dalla Convenzione Europea dei diritti
dell'uomo (art. 6), è principio che nella giurisprudenza
della Corte di cassazione, dopo la sua emersione, ha
subito una maturazione interpretativa.
Le linee che si sono così delineate
sono state caratterizzate dal legame inscindibile che ha
legato la "giustezza" del processo alla meritorietà
della tutela giurisdizionale della situazione fatta
valere dall'interessato e delle sue modalità di
attuazione; di modo che una condotta che si fosse
caratterizzata per l'uso strumentale del processo non
avrebbe potuto trovare tutela nell'ordinamento (v. ad
es. Cass. 10.10.2011 n. 20798; Cass.
10.5.2010; Cass. Ord. 3.5.2010 n. 10634; Cass. Ord.
5.2.2011 n. 2799; S.U. 14.1.2009 n. 553; Cass. 3.12.2008
n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ora, è opportuno sottolineare che
il precedente delle Sezioni Unite richiamato a proprio
favore dal ricorrente (S.U. 10.4.2000 n. 108) - che
consentiva il frazionamento della domanda relativa ad
unico rapporto obbligatorio - era stato emesso in sede
di risoluzione di contrasto fra le sezioni semplici,
segno questo della non univocità, nel tempo, di una tale
l'interpretazione giurisprudenziale.
Ma quel che più conta è che il
concetto di giusto processo, con la riforma
costituzionale dell'art. 111 (anno 1999), ancora non
aveva subito - per la sua recente introduzione rispetto
al momento della pronuncia delle sezioni unite
richiamata (2000) - quella maturazione di
interpretazione conclusasi con il definitivo approdo del
2007 (S.U. 15.11.2007 n. 23726).
In sostanza, ciò che si vuoi dire è
che la meritorietà della tutela, nella interpretazione
della Corte di cassazione, si è evoluta fino ad
acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi
della controversia; nel senso che non può essere
accordata protezione ad una pretesa priva di
meritorietà.
Non coglie nel segno, pertanto, il
riferimento, cui fa cenno il ricorrente in memoria,
circa il concetto di overruling (con la cit.
Cass. 17.6.2010 n. 14627), anche
perchè la rimessione in termini disposta dalla Corte, -
a fronte di una possibile pronuncia di inammissibilità e
di improcedibilita - , in quel caso, conseguiva ad una
preclusione all'esame dell'atto di impugnazione -
derivante da un mutamento di orientamento interpretativo
- ; preclusione non prevista al momento del deposito
dell'atto.
Nè gli ulteriori precedenti in tema
(Cass. ord. interl. 4.11.2011 n. 98; Cass. ord. interl.
8.6.2011 n. 12515; Cass. ord. 26.7.2011 n. 16365) sono
rilevanti ai fini che qui interessano, perchè si
riferiscono alle attività necessarie alla proposizione
del ricorso per cassazione, e, più in generale, a norme
processuali relative al giudizio di legittimità, o a
norme regolanti il processo, implicanti un vizio di
inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione.
Ma il tema dell'overruling è stato
oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite di
questa Corte di legittimità (S.U. 11.7.2011 n. 15144) la
quale - con riferimento al tema qui in discussione - ha
sancito che il mutamento della propria precedente
interpretazione della norma processuale da parte del
giudice della nomofilachia (c.d. overruling), il quale
porti a ritenere esistente, in danno di una parte del
giudizio, una decadenza od una preclusione prima
escluse, opera - laddove il significato che essa
esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive
interne al sistema ordinamentale - come interpretazione
correttiva che si salda alla relativa disposizione di
legge processuale ora per allora; nel senso di rendere
irrituale l'atto compiuto od il comportamento tenuto
dalla parte in base all'orientamento precedente.
Ora, qui non si tratta di impedire
ex post l'esercizio di una tutela di cui l'ordinamento
continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non
più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela
giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori
avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo
funzionamento del servizio della giustizia.
Conclusivamente, il ricorso è
rigettato.
La peculiarità delle questioni
trattate giustifica la compensazione delle spese fra le
parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Compensa spese.
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