Definire una sentenza “un
gravissimo atto di arroganza”, “una dimostrazione della
schizofrenia della giustizia”, il cedimento “alla
tentazione del recupero del giustizialismo”, frutto “di
una presunzione incredibile”, non rientra nell’esercizio
del diritto di critica dell’avvocato e dà luogo ad una
responsabilità disciplinare. Lo ha stabilito la Corte di
cassazione respingendo il ricorso di un avvocato e
confermando la sanzione dell'"avvertimento" comminata
prima dall’ordine degli avvocati di Latina e poi dal
Consiglio nazionale forense.
Secondo i giudici “deve
escludersi che le espressioni pronunciate dall’incolpato
nel corso di una intervista rilasciata all’esito della
lettura del dispositivo di una sentenza da parte della
Corte di assise di Appello di Genova possano costituire,
così come sostenuto dal ricorrente […] esercizio del
diritto di difesa”. Infatti, non essendo state
pronunciate nel corso del giudizio, non possono essere
ricondotte allo svolgimento dell’attività professionale
e all’esercizio del diritto di difesa.
Inoltre, come riconosciuto
dal Cnf il diritto di critica dei provvedimenti
giurisdizionali deve essere sempre esercitato “nelle
modalità e con gli strumenti previsti dall’ordinamento
processuale; e mai può travalicare i limiti del rispetto
della funzione giudicante” che ha pari dignità in
Costituzione rispetto a quella della difesa. Per cui nei
reciproci rapporti fra avvocato e magistrato si impone
un comportamento improntato “allo stile e al decoro,
oltre che, ove possibile, all’eleganza, mai al
linguaggio offensivo o anche al mero dileggio”. |