(inviata da R. Staiano)
Diritto.it
Consiglio di Stato n.
689/2012, sez. IV del 9/2/2012
FATTO
Con il ricorso
introduttivo del giudizio di primo grado l’odierna
appellante aveva chiesto al Tribunale Amministrativo
Regionale del Lazio – Sede di Roma - di condannare in
via solidale la Presidenza del Consiglio dei ministri,
il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il
Ministero dello sviluppo economico e l’A.n.a.s. s.p.a al
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali
derivanti dall’illecito commesso in proprio pregiudizio
in relazione alla violazione dell’art. 1 del 1° Prot.
Addizionale alla Cedu, in misura non inferiore a euro
5.525.000,00 (di cui euro 5.500.000,00 per danni
patrimoniali ed euro 25.000,00 per danni non
patrimoniali), oltre interessi legali e rivalutazione
monetaria, ovvero nella misura di giustizia e anche in
via equitativa.
In via subordinata, aveva
chiesto disporsi in proprio favore la corresponsione
dell’indennizzo dovuto ai sensi dell’art. 21 quinquies
della legge 7 agosto 1990 n. 241 a seguito della revoca
delle agevolazioni ottenute, in misura non inferiore a
euro 4.600.000,00, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria, ovvero nella misura di
giustizia e anche in via equitativa.
L’odierna appellante aveva
premesso di avere già proposto la medesima domanda nel
2005 nei confronti dell’Anas al giudice ordinario e che
con sentenza del 30 aprile 2008 il Tribunale di Isernia
aveva declinato la
giurisdizione.
In punto di fatto essa –
impresa operante nel settore turistico - aveva fatto
presente che il petitum era giustificato dagli
accadimenti succedutisi a seguito della propria
iniziativa di voler sviluppare un progetto per la
realizzazione di un centro turistico e sportivo nel
territorio comunale di Pettoranello del Molise. In
relazione a detta iniziativa imprenditoriale essa aveva
ottenuto dall’amministrazione comunale, nell’anno 2000,
la concessione del diritto di superficie per un’ampia
area a ciò destinata (la relativa convenzione, avente
durata trentennale, venne formalizzata il 26 febbraio
2002) e dal Ministero delle attività produttive, nel
luglio 2002, un contributo in conto impianti per euro
1.522.083,00, subordinato al completamento
dell’iniziativa entro 48 mesi dalla concessione del
beneficio (a pena di revoca delle agevolazioni).
Con nota del 24 febbraio
2004 inoltrata a fronte dell’istanza per il rilascio del
permesso di costruire l’odierna appellante era stata
informata dal comune dell’avvenuta trasmissione (da
parte della Regione Molise agli enti locali interessati)
del presumibile tracciato dell’autostrada S.
Vittore-Termoli.
Esso interessava (tra
l’altro) l’area di ubicazione del menzionato progetto
turistico.
L’odierna appellante aveva
quindi invano interpellato l’Anas al fine di ottenere lo
spostamento del tracciato (non ricevendo riscontro ma
acquisendo invece la certezza dell’interferenza del
progetto, approvato il 3 marzo 2004, con l’iniziativa
turistica progettata) e faceva presente di essersi
infruttuosamente, attivata presso il Comune di
Pettoranello del Molise (e anche presso altri enti
locali) per il reperimento di altri suoli idonei a
ospitare l’investimento.
Senonché tali iniziative
erano state vane ed essa aveva patito la “risoluzione
della convenzione di concessione del diritto di
superficie”, disposta con deliberazione consiliare
dell’aprile 2004.
Il primo giudice, respinte
le eccezioni di inammissibilità proposte dalle
amministrazioni odierne appellate (le quali sostenevano
che in assenza di previa declaratoria di illegittimità
di atti amministrativi non potesse proporsi alcun
petitum risarcitorio), ha in primo luogo inquadrato i
termini del petitum, evidenziando che il “bene” leso
sarebbe integrato dal “possesso” consistente nel diritto
di superficie concesso alla ricorrente dall’ente locale,
dal diritto di credito per le agevolazioni e dalla
legittima aspettativa nella realizzazione del progetto.
L’“interferenza” (illegittima e comunque sproporzionata
rispetto ai diritti della appellante, stante la
possibilità di collocare altrove l’opera) riposava
invece nella predisposizione del menzionato tracciato
autostradale ( omportante la revoca del diritto di
superficie e la perdita delle agevolazioni).
Secondo la tesi
prospettata dall’odierna appellante, peraltro, gli atti
interferenziali sarebbero stati, anche isolatamente
considerati, illegittimi in ragione: dell’approvazione
del progetto
dell’infrastruttura stradale successivamente alla
concessione delle agevolazioni per le aree depresse e
senza espletamento di attività istruttoria; dell’omessa
comunicazione di avvio del procedimento; della mancata
previsione di alcun indennizzo in proprio favore; di una
serie di violazioni dell’art. 3 del d.Lgs. n. 190 del
2002 (tra cui la mancata trasmissione del progetto nei
termini previsti, la carenza documentale, l’omessa
evidenziazione delle fasce di rispetto e delle
caratteristiche anche finanziarie dell’opera, la mancata
previsione delle necessarie opere strumentali, il
difetto di v.i.a.).
Il primo giudice ha quindi
preso in esame la domanda avanzata in via principale, e
l’ha respinta.
Pur ammettendo in via di
principio che la società appellante, (ancorché non
proprietaria) potesse comunque vantare un titolo di
collegamento col “bene” idoneo a porla in una situazione
analoga a quella del proprietario, ha evidenziato che la
invocata disposizione CEDU ammetteva che un’ingerenza
della pubblica amministrazione potesse attuarsi al
ricorrere di una causa di pubblica utilità (alla stessa
stregua della regola di cui all’art. 42 della
Costituzione).
Rilevato che neppure
l’appellante dubitava del diritto delle amministrazioni
appellate di realizzare un’opera di sì rilevante impatto
quale un’autostrada senza rinvenire in via di principio
condizionamenti nelle iniziative economiche intraprese
da privati cittadini, ha quindi esaminato gli atti
asseritamente lesivi (id est: il progetto teso a
realizzare l’autostrada) ed ha escluso che gli stessi
fossero intrinsecamente affetti da vizi di legittimità.
Ciò perché, ai sensi
dell’art. 3 commi 5 e 7 del d.Lgs. 20 agosto 2002 n. 190
applicabile alla controversia ratione temporis (comma 5:
“il progetto preliminare, istruito secondo le previsioni
del presente articolo, è approvato dal CIPE”) la
delibera del Consiglio di amministrazione dell’Anas n.
14 del 3 marzo 2004 aveva valenza meramente prodromica
(con finalità di pre-istruttoria) rispetto
all’approvazione del Cipe, e non era suscettibile di
arrecare immediata lesione all’appellante.
L’obiezione
dell’appellante a tale ricostruzione, (fondata
sull’affermazione contenuta nell’“avviso” per la
selezione del promotore del 3 luglio 2007, secondo cui
“il tracciato individuato nel progetto preliminare ANAS
risulta vincolante ai fini della predisposizione della
proposta”) non spiegava rilevanza, posto che la
procedura era ancora ad uno stadio iniziale e non si
aveva alcuna certezza circa l’immutabilità di detto
“progetto preliminare” (certezza peraltro neppure
sussistente al momento della emissione della decisione
di primo grado), in quanto perdurava la possibilità che
venissero assunte determinazioni divergenti da quelle
originarie, in termini tanto di concreta realizzazione
dell’intervento - finanziato, ma solo in parte, nel
marzo 2009 -, quanto di
modificazione delle modalità esecutive.
Il primo giudice, però, ha
convenuto che la pendenza della procedura per
l’approvazione del detto progetto legittimamente potesse
“consigliare” a un accorto imprenditore di desistere
dalla propria iniziativa, dal che discendeva che
comunque potesse affermarsi la “lesività” del
procedimento intrapreso ed intersecante l’iniziativa
progettata dall’appellante, e che dovessero quindi
essere esaminati gli ipotizzati vizi di legittimità
attingenti la procedura di approvazione del progetto
Il Tribunale
amministrativo ha quindi (paragrafo 2.1.3.
dell’impugnata decisione) esaminato partitamente i
dedotti vizi (assenza di “bilanciamento di interessi”,
difetto di istruttoria, violazione dell’art. 7 della
legge 7 agosto 1990 n. 241) e ne ha escluso la
sussistenza.
Ha quindi preso in esame
la (subordinata) domanda di corresponsione di un
compenso a titolo di indennizzo per l’implicita revoca
delle agevolazioni determinata dalla sopravvenuta
attività progettuale e fondata sia sull’art.
21-quinquies della legge 7 agosto 1990 n.241, che sull’
art. 1 I° Prot. add. Cedu.
Nel mezzo di primo grado
il richiamo a tale ultima disposizione si fondava sulla
tesi che la verificazione di una qualsiasi
“interferenza” poteva anche riscontrarsi
nell’approvazione di un’opera strategica impeditiva
della soddisfazione dell’interesse del privato, e
prescindeva dalla sussistenza di formali atti di revoca
del diritto di superficie e dei contributi in passato
concessi (tale condotta si assumeva integrata dal
contegno del Ministero delle attività produttive,
rimasto inerte sulle sollecitazioni in merito alla
possibilità di rinvenire aree alternative -anche in una
Regione limitrofa- per l’attuazione dell’intervento e
nell’anteriorità della concessione del beneficio,
elementi asseritamente idonei a qualificare la
sopravvenuta attività provvedimentale della branca di
amministrazione preposta allo sviluppo delle
infrastrutture alla stregua di una revoca implicita
della provvigione).
Il primo giudice ha
disatteso anche questa domanda subordinata alla stregua
di una duplice argomentazione.
Nel concordare con la
prospettazione per cui l’operatività del citato art.
21quinquies non poteva essere esclusa anche laddove
fosse stata configurata una revoca implicita, ha
affermato di volere muovere da un approccio di natura
sostanzialistico ed ha rilevato che, in una
considerazione unitaria della persona giuridica-Stato,
la scelta (dello Stato) di realizzare un’opera pubblica
costituiva il superamento, all’esito di una rinnovata
ponderazione dell’interesse pubblico, della precedente
decisione (sempre riconducibile allo Stato) di ammettere
il progetto dell’odierna appellante al regime
incentivante.
Indipendentemente dalla
formale giustificazione addotta per la “revoca”
dell’agevolazione (la inerzia della odierna appellante
nel realizzare il progetto turistico, in realtà
ascrivibile ad una ponderata valutazione in ordine alla
possibile realizzazione
dell’autostrada insistente
sulla medesima area), alla appellante si poteva in
astratto riconoscere il diritto a percepire l’indennizzo
a titolo di ristoro dei danni patiti, in conseguenza
dello ius poenitendi esercitato dall’amministrazione.
Senonché, ha rilevato il
Tribunale amministrativo, l’invocato l’art. 21 quinquies
era entrato in vigore l’8 marzo 2005 (in quanto
introdotto nell’ordinamento con la l. 11 febbraio 2005,
n. 15, pubblicata il 21 febbraio), e dunque in epoca
successiva al perfezionamento della revoca implicita,
(individuata nella richiesta di “risoluzione concordata”
della convenzione sull’utilizzo dei suoli comunali,
formulata al Comune il 23 marzo 2004 e accettata
dall’ente con deliberazione del 3 aprile 2004,
comunicata all’interessata il successivo 16 aprile).
Ne discendeva, sempre per
il Tribunale amministrativo, l’inapplicabilità della
invocata disposizione, e neppure l’assenza, per il
periodo anteriore all’entrata in vigore della l. n. 15
del 2005, di una norma fonte di obblighi indennitari
poteva rilevare in termini di contrasto con la
Costituzione.
Avverso la sentenza in
epigrafe la società originaria ricorrente ha proposto un
articolato appello evidenziando che la motivazione della
impugnata decisione era apodittica ed aveva frainteso il
petitum avanzato in primo grado.
Essa ha infatti sostenuto
(pag. 8 dell’atto di appello) di avere chiesto al primo
giudice in via principale il risarcimento del danno a
causa della revoca implicita delle agevolazioni per
violazione dell’art. 21 quinquies della legge 7 agosto
1990 n. 241 e dell’art. 1 del Protocollo Addizionale
alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Soltanto secondariamente
ed in via subordinata aveva chiesto che le venisse
erogato l’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies
della legge 7 agosto 1990 n. 241 e dall’art. 1 del
Protocollo Addizionale alla Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo.
Il primo giudice non si
era pronunciato sul petitum principale ed aveva preso
unicamente in esame – respingendolo - quello
subordinato.
Nel merito, entrambe le
richieste erano fondate e dovevano essere accolte.
L’appellata
amministrazione ha depositato una articolata memoria
chiedendo di respingere il ricorso perché infondato: in
particolare ha sostenuto che nel caso di specie la
posizione giuridica attiva asseritamente lesa neppure
era riposante su di un autonomo titolo di natura reale,
ma in una “aspettativa” attribuita (mercè provvedimento
comunale) in sede di esercizio di potestà amministrativa
pubbliche e ben comprimibile allorché configgente con
superiori esigenze.
Sotto altro profilo, e
quanto al petitum relativo alla liquidazione
dell’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies della
legge 7 agosto 1990 n. 241, la determinazione di
soprassedere all’utilizzo dell’area di sedime era
ascrivibile
(unicamente)
all’appellante, di guisa che era carente l’emissione di
un atto autoritativo di natura revocatoria, costituente
presupposto dell’applicabilità della disposizione
predetta (che comunque era entrata in vigore
successivamente alla conclusione della vicenda per cui è
causa).
Alla pubblica udienza del
24 gennaio 2012 la causa è stata posta in decisione dal
Collegio.
DIRITTO
1.L’appello è infondato e
merita di essere respinto nei termini di cui alla
motivazione che segue.
1.1. Al fine di chiarire
in via preliminare la cornice alla quale si atterrà il
Collegio nello scrutinio delle dedotte doglianze si
anticipa che si ritiene condivisibile l’impostazione
seguita dal primo giudice nel valutare unitariamente la
vicenda rappresentata dall’appellante, ancorché siano
venuti in rilievo determinazioni provvedimentali
provenienti da distinte Autorità amministrative.
In particolare, con
riferimento al petitum proposto in primo grado
dall’appellante, il Collegio condivide l’approccio del
primo giudice, che ha qualificato la vicenda in termini
sostanzialistici, nel convincimento dell’unitarietà
della persona-giuridica Stato, allorché venga in rilievo
una pretesa di natura risarcitoria od indennitaria (e
considerando irrilevante lo “schermo” derivante dalla
diversa soggettività giuridica degli enti che
asseritamente concorsero ad arrecare il danno) e la
possibile natura di “revoca implicita” delle
determinazioni provvedimentali assunte (aspetto, questo,
che verrà ulteriormente precisato quando si esaminerà il
secondo motivo dell’appello).
Ciò implica che possa e
debba essere presa in esame anche la domanda subordinata
volta ad ottenere l’indennizzo a titolo di ristoro dei
danni patiti, in conseguenza dello ius poenitendi
esercitato dall’amministrazione, indipendentemente dalle
formali giustificazioni addotte per la “revoca”
dell’agevolazione.
1.2. Secondariamente,
appare indubbio – ad avviso del Collegio – che la
posizione giuridica attiva (sostanzialmente un diritto
reale parziario quale quello di superficie) vantata
dall’odierna appellante consenta la astratta
invocabilità delle disposizioni della Cedu.
L’art. 1 del Protocollo
Addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, infatti – sul quale di qui a poco ci si
soffermerà più diffusamente-, prevede che “Ogni persona
fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni.
Nessuno può essere privato della sua proprietà se non
per causa di utilità pubblica e nelle condizioni
previste dalla legge e dai princìpi generali del diritto
internazionale. Le disposizioni precedenti non portano
pregiudizio al diritto degli Stati di emanare leggi da
essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni
in modo conforme all'interesse generale o per assicurare
il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle
ammende. ”.
L’elemento oggettivo
tutelato dalla fattispecie è stato costantemente
interpretato in senso
estensivo dalla
giurisprudenza sovranazionale.
In particolare si è
rilevato che “la nozione di «beni» può comprendere sia
beni attuali sia valori patrimoniali, crediti compresi”
purché “il titolare del credito dimostri che esso ha un
fondamento sufficiente nel diritto interno” (Corte
europea dir. uomo , sez. grande chambre, 06 ottobre 2005
, n. 1513).
Ne consegue la esattezza
della deduzione del primo giudice secondo cui
l’appellante, ancorché non intestataria di posizioni
propriamente dominicali, potesse comunque vantare un
titolo di collegamento col “bene” idoneo a porla in una
situazione analoga a quella del proprietario.
2.Ciò premesso in via di
inquadramento generale, per comodità espositiva ed al
fine di meglio chiarire il convincimento reiettivo
espresso dal Collegio si esamineranno separatamente la
pretesa risarcitoria “principale” e quella indennitaria
definita dalla stessa appellante “subordinata”, con
l’avvertenza che il Collegio non concorda affatto con la
tesi appellatoria secondo cui il primo giudice sarebbe
incorso in una “omissione di pronuncia” (che comunque
non esimerebbe questo Collegio dal decidere il merito
della controversia: arg. ex Consiglio Stato , sez. IV,
19 giugno 2007, n. 3289: “l'omessa pronuncia su una o
più censure proposte col ricorso giurisdizionale non
configura un error in procedendo tale da comportare
l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio
della controversia al giudice di primo grado, ma solo un
vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello
è legittimato ad eliminare integrando la motivazione
carente o, comunque, decidendo del merito della causa.”)
avendo questi invece partitamente esaminato tutte le
censure dedotte.
3.Venendo al merito, il
petitum risarcitorio definito dall’appellante
“principale” è infondato, al limite della
inammissibilità.
L’appellante infatti, non
ha neppure riproposto le – per il vero generiche e
comunque puntualmente respinte nel merito dal Tribunale
amministrativo - censure con le quali si era sostenuta
la illegittimità degli atti amministrativi relativi alla
costruzione dell’autostrada in area il cui tracciato
interferiva con i fondi dove sarebbe dovuto sorgere il
proprio insediamento imprenditoriale.
E per il vero neppure ha
espressamente configurato dette iniziative quali
illegittime, limitandosi a definirle “interferenziali”
con il proprio “possesso” asseritamente tutelato dall’
art. 1 del Protocollo Addizionale alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo citando detta ultima norma
(e quella di cui all’art. 21 quinquies della legge 7
agosto 1990 n. 241 parimenti utilizzata per supportare
la propria prospettazione “subordinata” sulla quale ci
si soffermerà di qui a poco).
3.1. Se così è, in carenza
di alcuna affermazione e men che meno allegazione di
alcun
vizio attingente gli atti
asseritamente lesivi, non può certo ravvisarsi una
autonoma prospettazione (se non labiale) di una
responsabilità di natura risarcitoria da atto
illegittimo, ma, semmai, di una supposta “responsabilità
da atto lecito”, il che costituisce, sostanzialmente, il
nucleo della domanda prospettata in via subordinata.
Si rammenta in particolare
che costituisce jus receptum nella giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato il principio per cui a fini
classificatori e dogmatici “l'indennizzo, previsto
dall'art. 21 quinquies l. n. 241 del 1990 introdotto
dalla l. n. 15 del 2005, nel caso di revoca del
provvedimento amministrativo "per sopravvenuti motivi di
pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della
situazione di fatto o di nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario" non può confondersi
con il risarcimento del danno.”(Consiglio Stato , sez.
VI, 19 giugno 2009 , n. 4138).
I detti titoli di
“responsabilità”, pertanto, devono essere tenuti
nettamente distinti, in quanto “
la legittimità della
revoca è il presupposto del diritto all’indennizzo,
previsto dall’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, atteso
che il risarcimento del danno da responsabilità civile
dell’amministrazione si fonda sul diverso presupposto
della illegittimità del provvedimento.”(Consiglio Stato
, sez. V, 06 ottobre 2010 , n. 7334).
Condivisibilmente, poi, si
è ritenuto comunque che la predetta distinzione non
spieghi effetti preclusivi a fini processuali: si è
pertanto esattamente ritenuto, in passato, che
“deve ritenersi consentito
nello stesso processo il cumulo delle azioni di
risarcimento, sul presupposto dell'illegittimità della
revoca, e di indennizzo, in via subordinata, in caso di
infondatezza della domanda risarcitoria. “ (Consiglio
Stato , sez. VI, 17 marzo 2010 , n. 1554).
3.2. Ferma la
proponibilità, pertanto, nell’odierno giudizio del
duplice titolo di responsabilità dell’Amministrazione,
la infondatezza della domanda risarcitoria (non a caso
ipotizzata facendo richiamo alle medesime disposizioni
che fondano, nella prospettazione appellatoria, anche la
richiesta di liquidazione dell’indennizzo) va ribadita
sia alla luce della circostanza che nessuna
illegittimità è stata neppure prospettata con
riferimento agli atti amministrativi (approvazione del
progetto del trattato autostradale) “fonte”
dell’abbandono del progetto imprenditoriale, sia alla
stregua della condivisibile giurisprudenza
sovranazionale secondo cui l’ingerenza statuale che
finisca con incidere sui beni del privato è consentita,
purché realizzi un corretto equilibrio tra diritto
sacrificato e interesse generale.
Si è detto in proposito,
infatti, che “un'ingerenza nel diritto al rispetto dei
beni deve realizzare un giusto equilibrio tra le
esigenze di interesse generale della comunità e gli
imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell'individuo. La preoccupazione di
assicurare un tale
equilibrio si riflette nella struttura dell'art. 1 del
Protocollo n. 1 considerato complessivamente, quindi
anche nella seconda frase che deve essere letta alla
luce del principio consacrato nella prima. In
particolare, deve esistere un rapporto ragionevole di
proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo
perseguito attraverso qualsiasi misura che privi una
persona della sua proprietà. Al fine di determinare se
la misura contestata soddisfi il giusto equilibrio
voluto e, soprattutto, se non faccia gravare sui
ricorrenti un onere sproporzionato, si devono prendere
in esame le modalità d'indennizzo previste dalla
legislazione interna. Senza il versamento di una somma
ragionevolmente proporzionata al valore del bene, una
privazione della proprietà costituisce normalmente un
pregiudizio eccessivo, e un'assenza totale di indennizzo
può giustificarsi sul piano dell'art. 1 del Protocollo
n. 1 solo in circostanze eccezionali.”(Corte europea
dir. uomo , sez. grande chambre, 06 ottobre 2005 , n.
1513).
Lo “statuto proprietario”,
cioè (anche a volere considerare equiparata la posizione
dell’appellante, a tal fine, seppur questi fosse
soltanto attributario di una posizione derivata di
natura ampliativa discendente dal provvedimento
concessorio comunale) può essere tutelata soltanto
allorché l’equilibrio con il sacrificio imposto non
sussista, ovvero in ipotesi di riscontrata illegittimità
dell’azione amministrativa (si rammenta in proposito
l’orientamento comunitario - Corte Europea Diritti Uomo,
6 marzo 2007, n.43662 - che preclude di ravvisare una
“espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di
un idoneo titolo previsto dalla legge.).
Nel caso di specie
(esclusa e comunque non scrutinabile, perché non
riproposta in appello alcuna illegittimità a monte nella
previsione del tracciato autostradale), appare non
seriamente contestabile (e neppure per il vero
decisamente messa in dubbio dall’appellante) la
preminenza, sotto il profilo dell’interesse, della
grande opera infrastrutturale di natura strategica
progettata rispetto alla iniziativa imprenditoriale
asseritamente ostacolata dalla prima, di guisa che
risulta perfettamente rispettata la condizione
legittimante il “sacrificio” della posizione del
privato.
3.3. Né, per concludere
sul punto, il “giusto equilibrio tra le esigenze di
interesse generale della comunità e gli imperativi della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo”
può essere prospettato facendo riferimento alla mancata
previsione dell’indennizzo, atteso che, da un canto, la
pretesa alla liquidazione dell’indennizzo è stata
specificamente proposta nell’odierno giudizio e, sotto
altro profilo, il Collegio condivide la consolidata
giurisprudenza amministrativa secondo cui
“la revoca senza
previsione dell’indennizzo non è illegittima, poiché la
mancata previsione dell’indennizzo di cui all’art. 21
quinquies della legge n. 241 del 1990 in un
provvedimento di
revoca, non ha efficacia
viziante o invalidante di quest’ultima, ma semplicemente
legittima il privato ad azionare la pretesa patrimoniale
innanzi al giudice amministrativo che potrà scrutinarne
i presupposti.” (Consiglio Stato , sez. VI, 17 marzo
2010 , n. 1554).
3.3.1. In ultimo, se la
illegittimità del “sacrificio”, che, a dire
dell’appellante, postula una responsabilità
risarcitoria, dipendesse dalla mancata previsione
dell’indennizzo, una volta che quest’ultimo sia stato
richiesto, e la relativa pretesa sia stata scrutinata
dal giudice, dalla mancata concessione dello stesso non
potrebbe in via derivata discendere una “reviviscenza”
del petitum risarcitorio “puro”, non possedendo
quest’ultimo autonomia concettuale rispetto
all’indennizzo richiesto.
3.4. Conclusivamente, il
primo motivo di censura deve essere disatteso sotto ogni
angolo prospettico.
4. Quanto alla complessa
censura “subordinata”, relativa all’omesso
riconoscimento, da parte del primo giudice
dell’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies della legge
n. 241 del 1990, la determinazione del primo giudice
resiste alle censure appellatorie sotto tutti i profili
di critica.
4.1. In primo luogo, si
rileva che trattasi di norma sostanziale, e non certo di
istituto processuale, di guisa che la pretesa
all’applicabilità “retroattiva” della detta disposizione
(come già chiarito nella parte in fatto l’odierna
vicenda processuale si è dipanata in epoca antecedente
al 2005, data di entrata in vigore della invocata
disposizione) è senz’altro inaccoglibile (si veda,
Consiglio di stato, sez. VI, 19 giugno 2009 , n. 4138,
laddove si è affermata la inapplicabilità della
disposizione predetta ratione temporis).
Si evidenzia in
particolare che, prima dell’entrata in vigore dell’art.
21 quinquies della, L. 7 agosto 1990 n. 241, la
giurisprudenza escludeva che esistesse un principio di
ordine generale di indennizzabilità del sacrificio
sopportato dal concessionario a seguito della revoca
della concessione o di un atto ampliativo per
sopravvenuti motivi di interesse pubblico (CS, sez.VI,
n.268/1969 in materia di ricerca di idrorocarburi),
atteso che il diritto del concessionario nasce
condizionato dall’interesse pubblico inerente alla
destinazione e alla natura del bene e dell’attività
oggetto della concessione.
Ciò sarebbe sufficiente a
disattendere l’impugnazione sul punto.
4.2. Secondariamente,
però, deve rilevarsi (e quanto a tal profilo la
motivazione della decisione di primo grado deve essere
quantomeno integrata, se non corretta) che appare al
Collegio certamente fondata la deduzione dell’appellata
amministrazione secondo cui nel caso di specie non ci si
trova al cospetto di alcun atto revocatorio di natura
autoritativa.
La revoca “implicita”, che
in teoria potrebbe legittimare la richiesta di
“indennizzo” ex art. 21 quinquies della legge
n. 241 del 1990, non
ricorre affatto nel caso in esame; invero l’ampliamento
concettuale del primo giudice che ha sostanzialmente
ritenuto l’ipotizzabilità di una revoca “implicita”
assistita dalla previsione dell’indennizzo ex art. 21
quinquies della legge n. 241 del 1990 appare corretto in
via teorica (e di ciò si è dato atto in precedenza).
Non altrettanto
condivisibile, però, esso appare al Collegio, laddove,
traslando il principio sulla odierna vicenda
processuale, il primo giudice ha evidentemente ritenuto
che gli atti adottati potessero rientrare nel paradigma
di una revoca implicita.
Invero è appena il caso di
rammentare che l’abbandono del progetto è ascrivibile
all’autonoma scelta dell’appellante.
La stessa, infatti,
prudenzialmente, preso atto della interferenza del
progetto di tracciato autostradale, decise di attivarsi
in tal senso, non utilizzando l’area per la quale le era
stato concesso il diritto di superficie dal Comune: la
“risoluzione della convenzione di concessione del
diritto di superficie”, disposta con deliberazione
consiliare dell’aprile 2004, scaturisce infatti da una
iniziativa dell’appellante.
L’iniziativa del Ministero
delle attività produttive (che nel luglio 2002 le aveva
attribuito un – mai in concreto erogato - contributo in
conto impianti per euro 1.522.083,00, subordinato al
completamento dell’iniziativa entro 48 mesi dalla
concessione del beneficio a pena di revoca delle
agevolazioni) scaturisce quale atto dovuto dalla omessa
intrapresa delle iniziative suddette, a propria volta
discendente dalla scelta di non utilizzare l’area di
sedime concessagli in superficie.
Dette iniziative
prudenziali, sono ascrivibili alla libera volontà
dell’appellante (si rammenta che è incontestato che fu
quest’ultima a chiedere la “risoluzione” della
convenzione di concessione delle aree comunali, nel
marzo del 2004 e che quest’ultima fu accettata dall’ente
locale) e discendono, all’evidenza, da una ponderazione
della redditività dell’iniziativa ambita, e dal rischio
che essa cessasse anzitempo ove la progettata opera
fosse stata effettivamente realizzata (il che, allo
stato, non è comunque avvenuto).
Ne deriva che
l’appellante, nell’ambito delle proprie insindacabili
valutazioni imprenditoriali (evidentemente dipendenti
dall’aspettativa di profitto prevedibile e dai tempi in
cui la stessa sarebbe stata conseguita) ha ritenuto non
conveniente avviare il progetto imprenditoriale,
ravvisando che la futura interferenza del tracciato
autostradale l’avrebbe potuta privare del guadagno
atteso.
E’ ovvio che tali
valutazioni – lo si ripete condizionate dalla previsione
di guadagno in rapporto alle spese necessarie per
l’avvio del progetto e dai prevedibili tempi di
ammortamento degli investimenti - siano liberamente
adottabili dall’imprenditore, ma altrettanto evidente
appare che da esse, in carenza di alcun atto sostanziale
né formale di revoca, non possa trarsi il convincimento
della spettanza di alcun indennizzo.
5.Conclusivamente
l’appello deve essere respinto.
6. Devono essere
compensate le spese processuali sostenute dalle parti
avuto riguardo alla natura della controversia ed alla
particolarità delle questioni esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in
sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente
pronunciando sull'appello, numero di registro generale
540 del 2010 come in epigrafe proposto, lo respinge nei
termini di cui alla motivazione che precede e per
l’effetto conferma l’appellata sentenza.
Spese processuali
compensate.
Ordina che la presente
sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. |