Francesco Machina Grifeo (
Confermata la condanna
dell’Italia a indennizzare la vittima di uno stupro in
quanto non ha dato attuazione alla direttiva comunitaria
(la n. 2004/80/Ce) che impone agli Stati membri di
prevedere un “equo ed adeguato” ristoro per le vittime
di reati intenzionali violenti commessi nel proprio
territorio. La Corte di appello di Torino, con la
sentenza 23 gennaio 2012, ha così confermato l’impianto
con cui lo stesso tribunale, in primo grado, sentenza
3145/2010, aveva condannato il Belpaese. Quasi dimezzata
però la somma liquidata in quanto l’indennizzo “non può
essere un pieno risarcimento del danno”.
La vicenda in primo grado
Il caso era quello di una
cittadina rumena di 18 anni sequestrata e violentata da
due connazionali, poi condannati alla pena di 14 anni
ciascuno e al risarcimento del danno ma scappati dagli
arresti domiciliari e dunque in stato di latitanza. A
quel punto, la donna aveva chiamato in giudizio la
presidenza del Consiglio italiana chiedendone la
condanna per la mancata o non integrale attuazione della
direttiva 2004/80/CE, e in particolare della previsione
secondo cui dal 1° luglio 2005 gli Stati membri dell’Ue
avevano l’obbligo di garantire un equo ed adeguato
ristoro alle vittime di reati violenti ed intenzionali
impossibilitate a conseguire dai loro offensori il
risarcimento integrale dei danni subiti e patendi. E
indicava in 100mila euro l’ammontare del risarcimento
richiesto. Il tribunale di Torino accoglieva la
doglianza liquidando 90mila euro alla vittima.
Il ricorso della
presidenza del Consiglio
Contro questa decisione è
scattato il ricorso della Presidenza del Consiglio dei
ministri che, al contrario, sosteneva di essere in
regola con le prescrizioni comunitarie avendo già al
proprio interno una legislazione che prevede
l’indennizzo delle vittime per i casi terrorismo, mafia
ed usura. Una tesi non condivisa dalla Corte di Appello
secondo cui non rientra nei poteri discrezionali degli
Stati “selezionare le tipologie di reati violenti e
circoscrivere la gamma di reati interessati dalla
possibilità di adire lo Stato a fini indennitari”.
Infatti, la direttiva, all’articolo 12, “non consente
tale discrezionalità, laddove prescrive che tutti gli
Stati membri devono predisporre un sistema di indennizzo
delle vittime di reati intenzionali violenti commessi
nei rispettivi territori”. E quindi da questi non
possono essere tenuti fuori i reati di violenza sessuale
che in tutta evidenza rientrano a pieno titolo nella
categoria. La discrezionalità degli Stati potrà semmai
attuarsi “nello stabilire la misura equa ed adeguata di
un indennizzo” ma non certo lasciando arbitrariamente
fuori alcuni reati.
Neppure può considerarsi,
come sostenuto dai ricorrenti, che il Dlgs 204/2007
intitolato proprio “Attuazione della direttiva
2044/80/CE” sia stato effettivamente tale, essendosi
piuttosto limitato a regolare la procedura per
l’assistenza alle vittime di reato.
La posizione della
Cassazione
Appurato l’inadempimento
dello Stato la Corte ha richiamato la decisione della
Cassazione, a sezioni Unite (n. 9147/2009), secondo cui:
“In caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del
legislatore italiano nel termine prescritto delle
direttive comunitarie non auto esecutive sorge […] il
diritto degli interessati al risarcimento di danni”. Una
responsabilità di natura indennitaria per attività non
antigiuridica, che dà luogo al relativo risarcimento,
avente natura di credito di valore, che va determinato
in modo da assicurare al danneggiato un’idonea
compensazione dalla perdita subita.
E nel caso di specie la
perdita è consistita nel non aver ricevuto alcun
indennizzo per la violenza sessuale subita non avendo lo
stato italiano adempiuto ai suoi obblighi e dunque non
avendo neppure regolato in autonomia le condizioni, i
presupposti e anche i limiti all’indennizzo stesso.
L’indennizzo secondo la
Corte
Alla luce di tutto questo,
conclude la Corte di appello, l’indennizzo “non può però
essere un pieno risarcimento del danno, diversamente da
quanto pare essere stato deciso dal giudice di prime
cure, con il richiamo per la liquidazione a criteri non
meno favorevoli di quelli che si applicano a richieste
analoghe fondate su violazioni del diritto interno”. E
la liquidazione “non può che essere fatta, per il danno
non patrimoniale, in via equitativa, ex articoli
2056-1226 cc”. Dunque tenuto conto delle conseguenze di
ordine morale e psicologico secondo i giudici
l’indennizzo “giustificabile” è di 50mila euro alla data
dei fatti.
|