Diritto e processo.com
Nel delitto di calunnia il
dolo non è integrato dalla mera coscienza e volontà
dell'atto di incolpazione, ma richiede, da parte
dell'agente, l'immanente consapevolezza dell'innocenza
dell'incolpato, non ravvisabile nei casi di dubbio o di
errore ragionevole, conclusione questa tanto più da
ribadirsi in casi come quello di specie in cui i fatti,
valorizzati ai fini dell'art. 368 cod. pen., sono stati
desunti non da una formale denuncia, ma da un atto di
citazione, radicato dalla persona accusata di calunnia,
nei confronti del suo difensore, persona ritenuta
calunniata.
Pertanto, escluso o messo
in dubbio il dolo nell'autore della calunnia, il fatto
non può ritenersi offensivo dell'interesse tutelato
dalla norma penale, atteso che il nocumento di tale
interesse, attinente al pericolo di deviazioni
nell'amministrazione della giustizia, è fatto derivare
dalla norma, non già da qualsiasi denuncia che risulti -
come nella specie - ed in prosieguo infondata, ma da una
incolpazione, specificamente orientata a procurare
siffatta deviazione, in forza della consapevolezza
dell'innocenza dell’ incolpato
Cassazione, sez. VI, 25
gennaio 2012, n. 3179
(Pres. Di Virginio – Rel.
Lanza)
Ritenuto in fatto e
considerato in diritto
I.P.G..B. ricorre, a mezzo
del suo difensore contro tutte le statuizioni di
condanna, deducendo vizi e violazioni nella motivazione
della decisione della Corte di appello impugnata, la
quale, su appello dell'imputato (per i capi per cui vi è
stata condanna), del P.M. (per i soli capi B e C) e
della parte civile (per tutti i capi), in parziale
riforma della sentenza di condanna e proscioglimento 11
dicembre 2002 del G.U.P. del Tribunale di Cagliari, ha
dichiarato la penale responsabilità del ricorrente per i
reati a lui ascritti, ai capi A) nr. 3 e B)
dell'imputazione ed ha dichiarato non doversi procedere
per il reato ascritto al capo C) perché estinto per
intervenuta prescrizione.
1.) la ricostruzione dei
fatti, le accuse e la motivazione della decisione
impugnata.
Il G.U.P. presso il
Tribunale di Cagliari, con la sentenza 11 dicembre 2002,
ha dichiarato il B. colpevole del delitto ascrittogli al
capo A) dell'imputazione, limitatamente ai fatti ivi
specificati ai numeri 1, 2 e 4, e lo ha invece assolto:
dai delitti a lui ascritti al capo A), limitatamente al
fatto specificato nel numero 3, e dai delitti di cui ai
capi sub B) e sub C), perché il fatto non sussiste.
Nel giudizio di secondo
grado, su appello del B. , della parte civile e del P.M.,
l'imputato è stato condannato per il delitto di
calunnia, confermata la responsabilità per i n. 1. 2 e 4
del capo A), anche per aver falsamente accusato davanti
all'autorità giudiziaria l'avv. PO. per gli episodi
espressamente contestati al n. 3 del capo Al
dell'imputazione; nonché con riferimento al capo B)
dell'imputazione, oggetto dell'impugnazione proposta dal
solo Pubblico Ministero, per aver accusato falsamente
P.N. di delitti di calunnia in suo danno. Il reato di
cui al capo Ci è stato invece dichiarato estinto per
intervenuta prescrizione.
Il Giudice d'appello ha
sostenuto che non può condividersi la tesi difensiva
dell'imputato, secondo cui egli, in buona fede, aveva
ritenuto che il legale avesse in tutte le predette
occasioni operato in termini di negligenza, non
tutelando i suoi interessi, ed ha considerato realizzata
la fattispecie di cui all'art. 368 c.p..
I fatti nella statuizione
impugnata sono consistiti nelle false accuse:
capo A n. 1): di non
essersi l'avv. P. , nonostante il conferimento
dell'incarico professionale del B. , costituito
personalmente o tramite un proprio sostituto nel
giudizio fallimentare relativo alla società METALCO
s.r.l., ai fine di produrre la documentazione
(attestante l'avvenuto integrale pagamento delle somme
dovute al creditore procedente ed evitare la
dichiarazione di fallimento della medesima società;
capo A n.2): di non aver
l'avv. P. - dopo l'emanazione della sentenza di revoca
del fallimento della medesima società METALCO srl -
adempiuto agli incombenti professionali necessari ad
eliminare gli effetti negativi della dichiarazione di
fallimento;
- capo A n.3): di non aver
l'avv. P. - nonostante il conferimento del mandato
difensivo - partecipato all'udienza del procedimento
penale per bancarotta semplice;
- capo A n.4): di non aver
l'avv. P. - nell'ambito del procedimento penale nr
4792/93 RGNR., nel quale venne condannato il B. con
sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.
pretermissione di assegni senza autorizzazione del
trattario - rappresentato al Giudice che l'Istituto di
credito non aveva comunicato al B. la revoca
dell'autorizzazione ad emettere assegni.
Per la corte distrettuale,
il B. con l'azione civile, instaurata nei confronti
dell'avv. P. , non si sarebbe limitato a lamentare una
condotta professionale negligente, o come tale da lui in
buona fede percepita, ma avrebbe accusato quest'ultimo
di precise circostanze dalle quali emergerebbe l'intento
ritorsivo del B. stesso nei confronti del suo difensore,
che non lo avrebbe supportato con la sua testimonianza
nel procedimento in cui era imputato di calunnia nei
confronti del Pubblico Ministero M. .
Per tale motivo, secondo
la gravata sentenza, sarebbe emersa la precisa volontà
del B. di addebitare al suo difensore diversi episodi di
patrocinio Infedele, con una prospettazione di fatti e
circostanze relative, intenzionalmente difformi dalla
realtà.
Quanto al fatto del n.3
del capo A) la Corte di appello ha accolto l'appello
proposto esclusivamente dalla parte civile e in riforma
della decisione del giudice di prime cure, che aveva
assolto il ricorrente, ha dichiarato la responsabilità
penale dell'imputato stesso, anche per tale episodio con
la motivazione che, contrariamente a quanto sostenuto
dal B. , non vi sarebbe alcuna prova che questi avesse
comunicato all'avv. P. la disposta anticipazione
dell'udienza e, soprattutto, che gli avesse conferito
mandato per difenderlo in quel procedimento.
2.) i motivi di
impugnazione del B. e le ragioni della decisione della
Corte di legittimità.
Con un primo motivo di
impugnazione, quanto al n.3 del capo A, viene dedotta
inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché
vizio di motivazione sotto il profilo della violazione
dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen. e art. 177 cod.
proc. pen., per aver la sentenza impugnata emesso una
sanzione penale a seguito dell'impugnazione della parte
civile.
Il motivo è fondato con
conseguente annullamento della gravata sentenza sul
punto.
L'impugnazione del capo
della sentenza di prime cure, che aveva assolto il
ricorrente dalla contestazione del reato calunnia,
precisato al nr. 3 del capo A) dell'imputazione, è stata
infatti proposta dalla parte civile (e non dal gravame
della parte pubblica), la cui rilevanza giuridica rimane
limitata esclusivamente al capo B1 e C1 della sentenza
di primo grado, non potendo l'impugnazione della sola
parte civile comportare una condanna dell'imputato
prosciolto, per effetti diversi da quelli attinenti alla
responsabilità civile, il risarcimento del danno e le
restituzioni ai sensi dell'art. 538 c.p.p. (cfr S.U.
27614/2007, r.v. 236539).
Nella vicenda quindi,
erroneamente la sentenza, in violazione del disposto
dell'art. 576 comma 1 cod. proc. pen., non ha contenuto
la sua deliberazione ai soli effetti dell'accoglimento
della domanda di restituzione o di risarcimento dei
danno; ma, in violazione dell'art. 576, comma 1, c.p.p.,
per effetto dell'appello proposto dalla parte civile, ha
pronunciato la condanna del B. alla sanzione penale,
modificando la precedente decisione emessa dal giudice
di prime cure, rispetto alla quale era intervenuto il
giudicato penale; in quanto, il capo A), nr. 3, non è
stato oggetto dell'impugnazione proposta dal Pubblico
Ministero.
Da ciò l'annullamento sul
punto della sentenza impugnata.
Con un secondo motivo si
lamenta violazione di legge in relazione all'art. 368 cp
per mancanza dell'elemento materiale del reato di
calunnia, contestato al capo A) numeri 1, 2, 3 e 4
dell'imputazione.
Con un terzo motivo si
prospetta ancora violazione di legge in relazione
all'art. 368 cp, per erronea applicazione della legge
per mancanza dell'elemento soggettivo del reato di
calunnia contestato al capo a) nr. 1, 2, 3 e 4
dell'imputazione.
I due motivi, come
argomentato anche dal Procuratore generale in udienza,
sono fondati, nei termini e per le ragioni di seguito
indicate, con conseguente annullamento con rinvio della
gravata sentenza, considerato che il percorso
argomentativo, seguito dal giudice del gravame per
giungere all'affermazione della colpevolezza
dell'imputato, si rivela carente sul piano della
giustificazione logico-giuridica della decisione
assunta.
Come più volte ribadito da
questa sezione e per consolidata giurisprudenza di
questa Corte, il dolo nel delitto di calunnia si
realizza quando è provato che colui che formula la falsa
accusa ha agito intenzionalmente con consapevolezza e
con la certezza dell'innocenza dell'incolpato.
Pertanto l'intenzionalità
dell'incolpazione e la sicura conoscenza dell'innocenza
dell'incolpato sono due dati, che vanno tenuti
concettualmente distinti e che devono entrambi ricorrere
ai fini dell'elemento soggettivo del reato, il quale
risulta integrato solo nel caso in cui vi sia esatta
corrispondenza tra momento rappresentativo e momento
volitivo.
Da ciò consegue che
l'accertamento del dolo deve consistere nella
considerazione e nella valutazione delle circostanze e
delle modalità della condotta, che evidenziano la
cosciente volontà dell'agente e sono indicative
dell'esistenza di una rappresentazione del fatto: la
motivazione/relativa alla prova della consapevolezza che
l'imputato è innocente immedesima quindi con
l'accertamento delle predette circostanze (cfr in
termini: Cass. Penale sez. VI, 7389/2005, Rallo; Cass.
pen. sez.VI 11882/2003 Rv.224125 Ferroni; Cass. pen.
sez. VI, 10150/2000, Rv. 217876, D'Aleo; Cass. 5/12/02
Greco; 10/7/00 Contronei).
In conclusione: nel
delitto di calunnia il dolo non è integrato dalla mera
coscienza e volontà dell'atto di incolpazione, ma
richiede, da parte dell'agente, l'immanente
consapevolezza dell'innocenza dell'incolpato, non
ravvisabile nei casi di dubbio o di errore ragionevole,
conclusione questa tanto più da ribadirsi in casi come
quello di specie in cui i fatti, valorizzati ai fini
dell'art. 368 cod. pen., sono stati desunti non da una
formale denuncia, ma da un atto di citazione, radicato
dalla persona accusata di calunnia, nei confronti del
suo difensore, persona ritenuta calunniata.
Pertanto, escluso o messo
in dubbio il dolo nell'autore della calunnia, il fatto
non può ritenersi offensivo dell'interesse tutelato
dalla norma penale, atteso che il nocumento di tale
interesse, attinente al pericolo di deviazioni
nell'amministrazione della giustizia, è fatto derivare
dalla norma, non già da qualsiasi denuncia che risulti -
come nella specie - ed in prosieguo infondata, ma da una
incolpazione, specificamente orientata a procurare
siffatta deviazione, in forza della consapevolezza
dell'innocenza dell1 incolpato (cfr.: Cass. pen. sez.
VI, 10150/2000, Rv. 217876, D'Aleo).
Orbene, in adesione a tali
regole, ritiene la Corte, nella gravata sentenza, la
sussistenza di una motivazione carente in punto di
consapevolezza dell'innocenza dell'incolpato, tenuto
conto che i fatti, quali riferiti e contestati dal
ricorrente nel giudizio civile, si sono fondati su
specifiche condotte professionali assunte dell'avv. P.
che, a parere del B. , potevano essere considerate, sia
pure erroneamente, negligenti, oppure superficiali,
rispetto a quella particolare attenzione che egli
riteneva necessaria per l'espletamento del mandato
difensivo; contestazioni quindi di natura strettamente
civilistica, finalizzate ad un risarcimento del danno.
E che questa potesse
essere l'intenzionalità "palese e diretta" dell'attore,
risulta indirettamente provato dalla stessa "condotta
inerte" del giudice collegiale civile, il quale pur
nella pienezza della cognizione dei dati processuali,
funzionali all'eventuale accoglimento o rigetto
dell'atto di citazione, non ha ritenuto affatto di
provvedere in relazione al disposto dell'art. 361 cod.
pen..
Trattasi di un dato,
sicuramente indiziario e non vincolante, ma che imponeva
peraltro, una volta (come nella vicenda) ribadita in
sede penale la materialità ed il profilo psicologico
della calunnia, un particolare obbligo di motivazione da
parte del giudice della condanna, tenuto conto che il
delitto di omessa denuncia di reato (art. 361 cod. pen.)
è integrato dalla condotta del pubblico ufficiale che
ometta, ovvero ritardi, la denuncia di un reato
perseguibile d'ufficio (nella specie patrocinio o
consulenza infedele, ex art. 380 cod. pen.), quando egli
è in grado di individuarne gli elementi ed acquisire
ogni altro dato utile per la formazione del rapporto, al
fine di far discendere dal tenore dell'atto di natura
civile, la volontà di contestare una falsa accusa di
patrocinio infedele.
Dalla suindicata
invalidità della motivazione consegue l'annullamento
della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione
della Corte di appello di Cagliari, per nuovo giudizio
che, nella piena libertà delle valutazioni di merito di
competenza, ponga rimedio all'accertato deficit
argomentativo, provvedendo a nuova ed autonoma
valutazione degli elementi di prova, tenendo conto dei
principi dianzi affermati ed ovviando al vizio di
motivazione rilevato.
Infine, ed in particolare,
quanto ai reati per cui vi è stata assoluzione in primo
grado (capi A n.3, capo B e capo C) il giudice
dell'annullamento è tenuto ad indicare le ragioni che lo
hanno indotto a non condividere la statuizione della
sentenza sottoposta al suo esame e a pervenire a
conclusioni diverse (SS.UU. 49691/2004 28 dicembre 2004
Andreotti Cass. S.U. n. 6682 del 1992, Musumeci).
Nella specie infatti, la
medesima condotta, ritenuta priva di significarla e
rilievo penale dal primo giudice (capo A n. 3, e capi B
e C), è stata invece penalmente sanzionata dalla Corte
di appello, circostanza questa che rendeva assolutamente
necessario il riferimento a dati fattuali e logici, che
potessero condurre univocamente al convincimento opposto
rispetto a quello del giudice la cui decisione non è
stata condivisa (cfr. per tutte: Sez. 5, Sentenza n.
35762/2008 Rv. 241169), tenuto altresì conto che il
G.U.P. per tali condotte aveva escluso ogni profilo
penale, con la radicale formula assolutoria "perché il
fatto non sussiste".
Conclusione questa - in
punto di rafforzato obbligo di motivazione - ancor più
da ribadirsi in relazione a due recenti e conformi
pronunce di questa stessa sezione sul significato del
principio del ragionevole dubbio (Cass. pen. sez. 6,
40159/2011, e sentenza 913/2012).
Entrambe tali decisioni
hanno infatti preliminarmente rilevato che il principio
dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", formalmente
introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 46 del
2006, pur se non più accompagnato dalla regola
dell'inappellabilità delle sentenze assolutorie, espunta
dalla sentenza n. 36 del 2007 della Corte
costituzionale, presuppone comunque che, in mancanza di
elementi sopravvenuti, l'eventuale "rivisitazione in
senso peggiorativo", compiuta in appello sullo stesso
materiale probatorio già acquisito in primo grado, e ivi
ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di
colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali
da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della
decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a
fronte di quella riformatrice, non più sostenibile,
neppure nel senso di lasciare in vita residui
ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza.
Non basta, insomma - per
usare le parole di tali decisioni - per la riforma
caducatrice di un'assoluzione, una mera diversa
valutazione caratterizzata da pari plausibilità rispetto
a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece
una forza persuasiva superiore, tale da far cadere "ogni
ragionevole dubbio", in qualche modo intrinseco alla
stessa situazione di contrasto.
La condanna, invero,
presuppone la certezza della colpevolezza, mentre
l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza
ma la mera non certezza della colpevolezza.
Con un quarto motivo si
evidenzia vizio di motivazione in relazione all'art. 546
cod. proc. pen. e art. 192, commi 1 e 3, cpp., per aver
la sentenza impugnata omesso di motivare a pena di
nullità con riferimento alla valutazione della prova del
reato di calunnia contestato al capo B).
Come già detto, a seguito
dell'impugnazione proposta dal Pubblico Ministero, in
riforma della sentenza di primo grado, è stata affermata
la responsabilità del ricorrente per aver accusato
falsamente il P. di averlo a sua volta calunniato (nella
dichiarazione resa dal PI. al Pubblico Ministero in
ordine al coinvolgimento del B. nell'attività di spaccio
di sostanze stupefacenti); nonché per aver accusato il
P. di aver denunciato falsamente all'Autorità
giudiziaria di essere stato minacciato da B. , affinché
sottoscrivesse una falsa ritrattazione di precedenti
dichiarazioni accusatorie rese in precedenza verso lo
stesso B. .
In particolare la corte
distrettuale (pag.17) per giustificare la difforme
valutazione del G.U.P. ha attribuito "decisivo rilievo
ad una circostanza sfuggita al primo giudice",
evidenziando che "gli inquirenti non avevano, quale
unico elemento a carico del B. , le dichiarazioni del
collaboratore P. prive di altri riscontri, e della cui
veridicità poteva dubitarsi, ma avevano raccolto le
dichiarazione di altri soggetti che fornivano un
puntuale riscontro a quelle del P. ".
Da ciò la conclusione
della corte distrettuale per la quale "devesi escludere
che il P. avesse mosso false accuse nei confronti del B.
, con conseguente sussistenza della calunnia di calunnia
ascritta all'imputato al capo B".
In relazione a tali
giustificazioni, il ricorso lamenta che il giudice di
appello sia giunto ad una decisione diametralmente
opposta a quella presa all'esito del primo grado,
limitandosi ad una mera esposizione del fatto, accertato
nel corso del giudizio di merito e ad un'elencazione del
materiale probatorio acquisto, con omissione della
corrispondente necessaria motivazione logico
argomentativa dello stesso.
Il motivo è fondato in
quanto emerge dalla lettura della motivazione che le
dichiarazioni di terzi soggetti indagati, che
costituirebbero ciò che è stato definito il "decisivo"
riscontro esterno alle affermazioni del P. , non
risultano in sentenza né precisate, né sottoposte alla
valutazione critica richiesta dall'art. 192, comma 3,
c.p.p..
Infatti, dopo che il
G.U.P. aveva diffusamente spiegato e sostenuto che le
acquisizioni probatorie conclamavano l'insussistenza dei
fatti contestati ai capi B) e C), in quanto, per il
primo capo, dovevasi rilevare che le indagini non
avevano portato all'acquisizione di alcun riscontro;
mentre, per quanto attiene al reato di minaccia (ora
prescritto) non vi erano testimoni diretti
dell'episodio, la Corte di appello, invece ha affermato
la responsabilità del B. , valorizzando le dichiarazione
del P. rilevando che, allorché costui aveva denunciato
l'accaduto, aveva già definito la sua posizione
processuale e pertanto non aveva alcuno specifico
interesse a muovere false accuse nei confronti del B. .
Rileva giustamente il
ricorso che tale ultima circostanza non legittimava la
corte distrettuale a disattendere l'applicazione del
criterio dell'art. 192, comma 3, c.p.p. in quanto, come
risulta agli atti, le dichiarazioni di riferimento sono
quelle che il P. ha reso al pubblico ministero, mentre
si trovava nella posizione di imputato di reato connesso
o collegato, con la conseguenza che questi non le ha
rese nella qualità di testimone e per essere valutate
necessitavano, a pena di illegittimità, di un supporto
probatorio di riscontro e confermatila specie non
individuato.
Va in proposito rammentato
che, fermo restando il potere del giudice di secondo
grado anche in presenza del gravame del solo imputato,
di confermare la decisione a questo sfavorevole
attraverso una interpretazione degli elementi acquisiti,
che abbiano formato oggetto di regolare contraddittorio,
diversa da quella che ne ha dato il giudice di I grado,
è peraltro necessario che la nuova diversa motivazione -
nella parte in cui non può saldarsi con quella del primo
giudice - risulti non solo logica ma particolarmente
esaustiva (cfr. in termini: Cass. Pen., sez. I, 6 luglio
2004 - 9 agosto 2004, in ric. Nodari).
Ne consegue che la
sentenza impugnata, con specifico riferimento alla
condanna del ricorrente per il reato di calunnia di cui
al capo B) della imputazione, deve essere annullata per
vizio della motivazione.
Con un quinto motivo si
sostiene vizio di motivazione e violazione di legge in
relazione all'art. 62 bis c.p. per aver la sentenza
impugnata omesso di motivare e comunque per aver
illogicamente motivato sulla non concessione delle
attenuanti generiche.
Il motivo risulta
assorbito dai precedenti decisi annullamenti. Per
concludere, la gravata sentenza va annullata con rinvio
per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di
appello di Cagliari la quale, nella piena libertà delle
vantazioni di merito di competenza, porrà rimedio al
rilevato deficit argomentativo avuto riguardo alle
regole di diritto dianzi prospettate.
P.Q.M.
annulla la sentenza
impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione
della Corte di appello di Cagliari |