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MASSIMA
1. L’interversione della detenzione in possesso può
avvenire anche attraverso il compimento di sole attività
materiali, se esse manifestano in modo inequivocabile e
riconoscibile dall'avente diritto l'intenzione del
detentore di esercitare il potere sulla cosa
esclusivamente ‘nomine proprio’, vantando per sé il
diritto corrispondente al possesso in contrapposizione
con quello del titolare della cosa.
2. La costruzione di un organismo edilizio nuovo,
realizzato dal detentore di un terreno su propria
iniziativa, senza il consenso, quanto meno tacito, dei
proprietari, i soli legittimati al compimento di
attività edificatorie sul fondo, costituisce un
comportamento suscettibile di manifestare pretese
dominicali sul bene, trascendenti i limiti della
detenzione, sia pur qualificata, incompatibili con il
possesso del titolare del diritto reale, come tali
idonee ad integrare gli estremi di un atto
d'interversione ai sensi dell'art. 1141, comma 2, cod.
civ..
CASUS DECISUS
Con atto di citazione del 1995, la Fondazione
ecclesiastica Istituto Marchesi Teresa, Girino e Lippo
Gerini, premesso di essere proprietaria di un terreno in
Fiumicino e che esso era occupato senza titolo da G.M. e
D.B.A.M. , che vi avevano edificato abusivamente una
costruzione, chiese al Tribunale di Roma la condanna dei
convenuti al rilascio del terreno ed alla demolizione
dei manufatti illegittimamente costruiti. Le controparti
si opposero alla pretesa proponendo domanda
riconvenzionale di acquisto della proprietà
dell'immobile per intervenuto usucapione. Espletata
l'istruttoria mediante prove orali, l'acquisizione di
documenti ed una consulenza tecnica d'ufficio, il
Tribunale, in accoglimento della domanda della
Fondazione, condannò i convenuti al rilascio del terreno
ed alla demolizione dei manufatti in esso realizzati.
Interposto appello, con sentenza n. 848 del 23 febbraio
2005 la Corte di appello di Roma riformò la pronuncia di
primo grado dichiarando G.M. proprietario per
intervenuta usucapione del terreno rivendicato. In
particolare, il giudice di secondo grado ritenne fondata
la domanda riconvenzionale di usucapione sulla base del
rilievo che le prove raccolte avevano dimostrato il
possesso ventennale del bene da parte del convenuto,
considerato anche il possesso esercitato sullo stesso
dalla madre, S.R. , sua dante causa, che aveva iniziato
ad occupare il bene fin dal 1950 in forza di un
contratto di affitto agrario ma che poi, nella seconda
parte degli anni '50, edificando su di esso una casa di
circa 50 mq, aveva manifestato in modo non equivoco la
volontà di comportarsi come proprietaria in via
esclusiva, a nulla rilevando in contrario l'intervenuta
proroga del contratto agrario stipulato in forma orale
dal 1 gennaio al 31 dicembre 1956. Per la cassazione di
questa decisione, con atto notificato il 14 marzo 2006,
ricorre la Fondazione ecclesiastica Istituto Marchesi
Teresa, Girino e Lippo Gerini, affidandosi a quattro
motivi. Resistono con controricorso G.M. e D.B.A.M. .
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
PRECEDENTI
Conforme Difforme
Quanto alla massima n. 1, Cass. n. 5419 del 2011; Cass.
n. 1296 del 2010. Quanto alla massima n. 2, Cass. n.
1296 del 2010; si vedano, inoltre, Cass. n. 12968 del
2006 e Cass. n. 1802 del 1995, quest'ultima con
riferimento alla realizzazione da parte del detentore di
una strada sul fondo.
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE - SENTENZA 19
dicembre 2011, n.27521 - Pres. Oddo – est. Bertuzzi
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia nullità dei giudizi
di primo e di secondo grado per violazione e falsa
applicazione degli artt. 102, 161 e 354 cod. proc. civ.
e 1158 cod. civ., sostenendo che la Corte di appello non
avrebbe potuto decidere sulla domanda di usucapione
atteso che essa non era stata proposta nei confronti di
tutto i titolari del bene, tenuto conto che dalla
relazione del consulente tecnico d'ufficio risultava
che, in forza di un atto di divisione del 1948,
l'immobile per cui è causa apparteneva, per 21/125, a
D.G.d.I. , persona mai evocata in giudizio. Il giudice
di secondo grado, dato atto della mancata integrità del
contraddittorio, avrebbe pertanto dovuto dichiarare la
nullità del giudizio di primo grado e rimettere la causa
dinanzi al Tribunale per la chiamata in causa della
litisconsorte necessaria. Il mezzo è infondato.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte che il difetto di integrità del
contraddittorio, non essendo un'eccezione in senso
stretto, può essere dedotto per la prima volta anche nel
giudizio di legittimità, nel quale può tuttavia essere
dichiarato soltanto a condizione che la prova di esso
emerga dagli atti, con la precisazione che deve
trattarsi di prova univoca, nel senso che ciò che deve
emergere dagli atti è l'effettiva circostanza in forza
della quale può stabilirsi che il giudizio di merito non
si è svolto nei confronti di tutte le parti e che, per
l'effetto, la sentenza appare inutiliter data (Cass. n.
4764 del 2005; Cass. n. 11415 del 2003). Nel caso
particolare tale prova, nel senso sopra precisato, non
può dirsi invece raggiunta, atteso che la circostanza
che il bene sia intestato, per una quota, anche ad altro
soggetto, rimasto estraneo al giudizio, è interamente
dedotta da un mero richiamo alle indicazioni contenute
nell'elaborato depositato dal consulente tecnico
d'ufficio, laddove la parte avrebbe dovuto dimostrarla
sulla base degli atti di provenienza. A ciò si aggiunga
che l'indicazione fatta sul punto dal consulente tecnico
è tratta da un atto risalente al 1948, che, per la sua
stessa collocazione temporale, non può rappresentare un
indice sicuro per stabilire che la contitolarità
esistesse anche al momento della proposizione della
domanda (1995).
Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1140, 1141, 1158 e 2697 cod.
civ. censurando la sentenza impugnata per avere accolto
la domanda riconvenzionale del G. sulla base del rilievo
che la sua dante causa, S.R. , che originariamente era
mera detentrice del terreno, occupandolo in virtù di un
contratto di affitto, avesse poi compiuto atti di
interversione del possesso, nonostante che, in realtà,
tali circostanze ed il loro valore giuridico fossero
stato oggetto di eccezioni o allegazioni da parte dei
convenuti soltanto in sede di appello, essendosi essi
limitati, nella loro comparsa di costituzione in primo
grado, a dedurre che il bene de quo era stato sempre
occupato dalla loro famiglia fin dal 1924. Così
decidendo, la Corte di merito avrebbe violato il
principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato
e il divieto di proporre domande nuove in appello. Il
motivo è infondato.
La tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui i convenuti
nell'allegare soltanto con l'atto di appello fatti di
interversione del possesso da parte della loro
originaria dante causa, S.R. , avrebbero modificato in
modo non consentito la loro domanda, non è
condivisibile, potendosi ad essa facilmente
controbattere che tanto nel primo che nel secondo grado
la domanda da essi formulata in via riconvenzionale è
rimasta ferma nella richiesta di usucapione, mentre gli
elementi di novità introdotti nel giudizio di appello
hanno riguardato soltanto le modalità di fatto relative
all'acquisto del possesso. Nel caso di specie, pertanto,
va ravvisato non già un mutamento della domanda, non
consentito in appello, ma una mera precisazione della
domanda originaria quanto alle circostanze acquisitive
del possesso, pienamente ammessa. Né va sottaciuto che,
per giurisprudenza costante di questa Corte, il diritto
di proprietà, rientrando nella categoria dei diritti
autodeterminati, si caratterizza per il suo contenuto e
non anche per il suo titolo di acquisto, con l'effetto
che l'allegazione nel giudizio di appello di un diverso
fatto costitutivo della proprietà integra una mera
emendatio libelli, non vietata dall'art. 345 cod. proc.
civ. A fortiori, pertanto, in un giudizio avente oggetto
al domanda di accertamento della proprietà per
usucapione, non può essere colpita dalla sanzione della
inammissibilità la mera specificazione in appello di
nuove modalità di acquisto del possesso.
Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa
applicazione degli art. 1140, 1141, 1158 e 2697 cod.
civ. e 112, 345, 115 e 116 cod. proc. civ. ed omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un
punto decisivo della controversia, censurando la
sentenza impugnata per avere affermato che la dante
causa del convenuto, S.R. , in forza dell'edificazione
dell'immobile sul terreno da lei affittato, avesse
mutato lo stato di detenzione in quello di possesso. La
valutazione così operata dal giudice territoriale è
errata in quanto l'interversione del possesso è atto
che, rivelando la volontà del detentore di comportarsi
d'ora in poi come proprietario, deve essere rivolto
espressamente nei confronti del titolare del bene,
laddove l'edificazione rappresentava null'altro che un
inadempimento posto in essere dal detentore. In ogni
caso, la decisione è sbagliata e la motivazione viziata
per avere la Corte svalutato indebitamente la
circostanza che nel 1956, cioè dopo che la costruzione
della casa era già iniziata, la S. aveva prorogato il
contratto di affitto agrario, così riconoscendo
espressamente l'altrui proprietà del concedente. La
Corte romana avrebbe inoltre dato rilievo, ai fini della
dimostrazione del possesso, a circostanze di per sé non
univoche o irrilevanti, quale il fatto che il terreno
fosse recintato e chiuso con un cancello, che l'immobile
fosse stato per lungo tempo locato a terzi e che per la
costruzione fosse stata presentata istanza di sanatoria.
Anche questo motivo è infondato.
Va premesso al riguardo che l'accertamento della
sussistenza in concreto di atti capaci di provocare
l'interversione del possesso, vale a dire il mutamento
dello stato di fatto della detenzione in possesso,
costituisce un'indagine di fatto, rimessa alla esclusiva
competenza del giudice di merito, sicché, nel giudizio
di legittimità, questa Corte non può prendere
direttamente in esame la condotta della parte, al fine
di stabilire se il comportamento dedotto abbia o meno
integrato la fattispecie della interversione, ma può
solo valutare se l'accertamento sul punto compiuto dal
giudice di merito sia sufficientemente e logicamente
motivato e sia rispondente ai criteri legali che
qualificano, dal punto di vista giuridico, il fenomeno
della interversione (Cass. n. 4404 del 2006; Cass. n.
12007 del 2004).
Tanto precisato, si osserva che la Corte di appello ha
ravvisato nel caso di specie l'interversione del
possesso nel fatto che sul terreno in oggetto, della
superficie di circa 450 mq., detenuto a titolo di
affitto, fosse stata edificata una costruzione con
destinazione abitativa di circa 50 mq., affermando che
il fatto di edificare costituisce esercizio di una
facoltà inerente al diritto di proprietà, con l'effetto
che essa manifesta, anche verso l'esterno, mediante una
condotta riconoscibile da parte di tutti e quindi anche
dal proprietario, l'intenzione di comportarsi come
proprietario del bene. Tale valutazione appare sottrarsi
alle critiche sollevate dalla ricorrente.
Sotto il profilo della motivazione, in quanto le ragioni
poste a base dell'accertamento appaiono sufficientemente
esplicitate e congrue e logicamente adeguate in ordine
alla conclusione raggiunta. Sotto il profilo della
violazione di diritto, avendo questa Corte già più volte
chiarito che l’interversione della detenzione in
possesso può avvenire anche attraverso il compimento di
sole attività materiali, se esse manifestano in modo
inequivocabile e riconoscibile dall'avente diritto
l'intenzione del detentore di esercitare il potere sulla
cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sé il
diritto corrispondente al possesso in contrapposizione
con quello del titolare della cosa (Cass. n. 5419 del
2011; Cass. n. 1296 del 2010). Né sembra sul punto che
possa negarsi, in via generale ed astratta e salva ogni
valutazione in concreto, che spetta, come rilevato, al
solo giudice di merito, che l'edificazione di una casa
su un terreno ricevuto in detenzione possa manifestare
la volontà di comportarsi come proprietario,
rappresentando essa l'estrinsecazione di una facoltà
tipica del diritto dominicale. In questo senso, del
resto, questa Corte risulta essersi già espressa,
affermando che la costruzione di un organismo edilizio
nuovo, realizzato dal detentore di un terreno su propria
iniziativa, senza il consenso, quanto meno tacito, dei
proprietari, i soli legittimati al compimento di
attività edificatorie sul fondo, costituisce un
comportamento suscettibile di manifestare pretese
dominicali sul bene, trascendenti i limiti della
detenzione, sia pur qualificata, incompatibili con il
possesso del titolare del diritto reale, come tali
idonee ad integrare gli estremi di un atto
d'interversione ai sensi dell'art. 1141, comma 2, cod.
civ. (Cass. n. 1296 del 2010; si vedano, inoltre, Cass.
n. 12968 del 2006 e Cass. n. 1802 del 1995, quest'ultima
con riferimento alla realizzazione da parte del
detentore di una strada sul fondo). Infondata appare
infine la censura di vizio di motivazione con
riferimento alla circostanza che la dante causa dei
convenuti, cui viene fatto risalire il fatto della
interversione del possesso, avesse stipulato la proroga
del contratto di affitto del fondo per l'anno 1956, che
è atto palesemente incompatibile con la volontà di
possedere. Dalla lettura della sentenza emerge infatti
che la costruzione è stata realizzata nella seconda metà
degli anni '50, sicché è da ritenere successiva alla
proroga, mentre risulta sfornita di qualsiasi
riferimento agli atti probatori la deduzione della
ricorrente secondo cui l'inizio della costruzione
sarebbe precedente all'atto di proroga in questione.
Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione e falsa
applicazione degli art. 1140, 1146, 1158 e 2697 cod.
civ. e 115 cod. proc. civ. ed omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, lamentando che la Corte di merito
abbia ritenuto verificato il presupposto del possesso
ventennale del bene da parte del convenuto ammettendolo
ai fini dell'elemento temporale ad unire il proprio
possesso con quello di S.R. , pur in mancanza di prova
di essere erede o avente causa della stessa. Sotto altro
profilo la Fondazione lamenta che il giudice di secondo
grado abbia ritenuto provato il possesso del G. , pur
non avendo lo stesso mai provato di avere esercitato
sull'immobile un possesso in via esclusiva.
Il motivo è infondato.
La prima censura non ha pregio in quanto, come risulta
dalla lettura della sentenza impugnata, la circostanza
che S.R. , originaria detentrice del bene, fosse la
madre del convenuto G. , che alla sua morte aveva
ereditato il terreno in questione, non aveva mai formato
oggetto di contestazione ed era quindi da considerarsi
pacifica.
La doglianza che lamenta la mancanza di prova in ordine
al possesso da parte del G. trova diretta confutazione
nell'accertamento compiuto dal giudice di merito,
laddove ha precisato che il convenuto aveva il possesso
esclusivo delle chiavi del cancello di ingresso ed
aveva, alla morte della madre, continuato ad usare del
bene con le medesime modalità.
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono
la soccombenza della parte ricorrente.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la Fondazione ricorrente
al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in
Euro 2.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese
generali ed accessori di legge.
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