Nel diritto.it
MASSIMA
1. E’ dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 16, comma 1, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della
finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4
della L. 23 ottobre 1992, n. 421) e, ai sensi dell’art.
27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), in via consequenziale, dell’articolo
37, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità), per violazione dell’art. 42,
terzo comma, Cost., e dell’art. 117, primo comma, Cost.,
in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale
alla CEDU.
2. Un nucleo minimo di tutela del
diritto di proprietà, garantito dall’art. 42, terzo
comma, Cost., e dall’art. 1 del primo protocollo
addizionale della CEDU, impone che l’indennità di
espropriazione non può ignorare ogni dato valutativo
inerente ai requisiti specifici del bene, né può eludere
un ragionevole legame con il valore di mercato.
3. L’ingerenza nel diritto al
rispetto dei beni deve realizzare, in primo luogo, un
«giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse
generale della comunità e il requisito della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In
secondo luogo, nonostante che al legislatore ordinario
spetti un ampio margine, l’acquisizione di beni senza il
pagamento di indennizzo in ragionevole rapporto con il
loro valore costituisce normalmente un’ingerenza
sproporzionata.
4. Il legislatore, sebbene non
abbia il dovere di commisurare integralmente l’indennità
di espropriazione al valore di mercato del bene ablato,
non può sottrarsi al «giusto equilibrio» tra l’interesse
generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali
degli individui. Tale principio conserva validità anche
con riferimento alle misure che lo Stato adotta in
questa materia al fine di «assicurare il pagamento delle
imposte o di altri contributi o delle ammende» di cui al
capoverso dell’art. 1 del primo protocollo addizionale
alla CEDU.
5. Il capoverso dell’art. 1 del
primo protocollo addizionale alla CEDU attribuisce ampia
discrezionalità ai legislatori nazionali nel definire le
proprie politiche fiscali e, tuttavia, non consente di
ritenere legittime misure di prevenzione e dissuasione
fiscale qualora non siano prevedibili (ovvero siano
meramente eventuali) o pretendano dal soggetto
dichiarante un eccessivo onere o, infine, comportino una
eccessiva conseguenza sanzionatoria, come nel caso in
cui possano giungere ad una sostanziale espropriazione
senza indennizzo.
6. La disciplina stabilita
dall’art. 16, comma 1, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,
non è compatibile con l’art. 42, terzo comma, Cost., e
con l’art. 1 del primo protocollo addizionale della
CEDU, che offrono un nucleo minimo di tutela del diritto
di proprietà, in quanto non contempla alcun meccanismo
che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia ICI,
consenta di porre un limite alla totale elisione di tale
indennità, garantendo comunque un ragionevole rapporto
tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare
della indennità. Resta ferma la discrezionalità del
legislatore di stabilire sanzioni che, eventualmente,
incidano anche sull’indennità di espropriazione, purché
non realizzino una sostanziale confisca del bene,
sacrificando illegittimamente il diritto di proprietà
all’esclusivo interesse finanziario leso dal
contribuente, tenuto conto della diversità di
procedimenti e di garanzie che sovrintendono
all’accertamento tributario ed alle relative sanzioni,
peraltro già autonomamente previste dal d.lgs. n. 504
del 1992.
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 22
dicembre 2011, n.338 - Pres. Quaranta – rel. Tesauro
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’articolo 16, comma 1, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della
finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4
della L. 23 ottobre 1992, n. 421), sostituito dall’art.
37, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione
per pubblica utilità), promossi dalla Corte di
cassazione, Sezioni Unite civili, con due ordinanze del
14 aprile 2011, iscritte ai nn. 158 e 159 del registro
ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 30, prima serie speciale, dell’anno
2011.
Visti gli atti di costituzione del
Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale
Sassari-Porto Torres-Alghero e dell’Astaldi S.p.a.,
nonché gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8
novembre 2011 e nella camera di consiglio del 9 novembre
2011 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Federico Isetta
per il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale
Sassari-Porto Torres-Alghero, Vittorio Biagetti per
l’Astaldi S.p.a. e l’avvocato dello Stato Giuseppe
Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— La Corte di cassazione a
Sezioni Unite, con due ordinanze del 14 aprile 2011,
iscritte al reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2011, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti
territoriali, a norma dell’articolo 4 della L. 23
ottobre 1992, n. 421) — norma abrogata dall’art. 58,
comma 1, numero 134), del decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità), come modificato
dal decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 302
(Modifiche ed integrazioni al d.P.R. 8 giugno 2001, n.
327, recante testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità) a decorrere dal 30 giugno 2003, in
virtù dell’art. 3 del decreto-legge 20 giugno 2002, n.
122 (Disposizioni concernenti proroghe in materia di
sfratti, di edilizia e di espropriazione), convertito
con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 1°
agosto 2002, n. 185 — oggi riversata nell’art. 37, comma
7, del citato d.P.R. n. 327 del 2001, in riferimento
agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 ed
all’art. 1 del primo protocollo addizionale della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali.
1.1.— Con la prima ordinanza il
giudice a quo premette in fatto che L.M.G. ha proposto
ricorso per la cassazione della sentenza della Corte di
appello di Catania, che aveva rideterminato l’indennità
dovutale dal Comune di Caltagirone per l’esproprio di
terreni di sua proprietà, siti nel predetto Comune,
destinati alla realizzazione di alloggi per scopi
sociali. A sostegno del ricorso, venivano prospettati
due motivi. Con il primo si denunciava la violazione di
legge per avere la sentenza fatto applicazione dell’art.
5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359 (Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 11 luglio
1992, n. 333, recante misure urgenti per il risanamento
della finanza pubblica), di cui si sosteneva la
illegittimità costituzionale. Con il secondo motivo si
denunciava la violazione dell’art. 24 della legge 13
giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato e di
procuratore per prestazioni giudiziali in materia
civile), per avere liquidato le spese processuali
violando i minimi tariffari. Il Comune di Caltagirone
resisteva con controricorso e proponeva a sua volta
ricorso incidentale denunciando la mancata decurtazione
della indennità, nella misura del 40%, a norma del
citato art. 5-bis, non avendo l’espropriata accettato la
somma offertale. Con il secondo motivo veniva poi
denunciata la violazione dell’art. 16 del
decreto-legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino
della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art.
4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), in quanto
all’espropriata non avrebbe dovuto essere liquidato
nulla, a titolo di indennità, avendo omesso di
presentare la dichiarazione ICI.
1.2.— Con la seconda ordinanza la
Corte rimettente premette che A.C., comproprietario pro
indiviso di un terreno situato nel Comune di Sassari,
interessato da un procedimento di espropriazione per
pubblica utilità, aveva proposto opposizione alla stima,
dinanzi alla Corte di appello di Cagliari, sezione
distaccata di Sassari, ai sensi dell’art. 19 della legge
22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento
dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla
espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed
integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18
aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel
settore dell’edilizia residenziale, agevolata e
convenzionata), nei confronti del Consorzio per l’Area
di Sviluppo Industriale (A.S.I.) Sassari? Porto
Torres?Alghero.
Il Consorzio A.S.I., aveva chiesto
nel merito il rigetto dell’opposizione e la riduzione
dell’indennità entro i limiti dei valori dichiarati ai
fini ICI, ovvero l’esclusione del diritto all’indennità
in caso di omessa dichiarazione, in forza dell’art. 16
del d.lgs. n. 504 del 1992. La Astaldi S.p.a., chiamata
in causa dal Consorzio A.S.I., aveva eccepito, a sua
volta, il difetto di legittimazione aderendo nel resto
alle difese del consorzio.
La Corte di appello adita aveva
proceduto alla determinazione della indennità di
esproprio e di occupazione dell’area ritenuta
edificabile. Quanto alla richiesta di riduzione
dell’indennità entro i limiti dei valori dichiarati ai
fini ICI, ovvero di totale rigetto della domanda di
A.C., per la perdita del diritto alla indennità, in caso
di omessa dichiarazione, la Corte di appello aveva
escluso che nella specie potesse trovare applicazione il
disposto dell’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992. Ciò,
in quanto la norma sarebbe stata applicabile soltanto
nel caso di presentazione della dichiarazione ICI, nel
mentre A.C. «[aveva] dichiarato di non avere mai
presentato alcuna dichiarazione ICI in relazione ai
terreni di cui è causa, di talchè incombeva al Consorzio
A.S.I., che ha domandato la riduzione dell’indennità di
esproprio, dimostrare sia che tale dichiarazione era
stata, invece, presentata […], sia che il valore
dichiarato era inferiore all’indennità calcolata ex art.
5-bis, legge n. 359 del 1992)».
Avverso tale decisione proponeva
ricorso il Consorzio, per ottenere la cassazione della
sentenza della Corte di merito.
In particolare, con il settimo
motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione
dell’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, il Consorzio
ribadiva la tesi che, in forza della citata disposizione
di legge, l’espropriato, avendo omesso di presentare la
dichiarazione ICI, relativa ai terreni in questione, non
avrebbe potuto vantare alcun diritto alle indennità di
esproprio. A giudizio del ricorrente, laddove l’art. 16
fosse applicabile soltanto al caso di denuncia infedele
e non anche al caso di omessa dichiarazione, il sistema
sarebbe irrazionalmente sbilanciato a favore degli
evasori totali, il cui trattamento sanzionatorio sarebbe
paradossalmente migliore di quello riservato agli
evasori parziali. In questo senso il Consorzio ha
eccepito l’incostituzionalità di una simile
interpretazione della norma, con riferimento all’art. 3
Cost.
1.3.— In entrambi i giudizi la
prima sezione civile della Corte di cassazione, alla
quale i ricorsi erano stati originariamente assegnati,
con ordinanze rispettivamente n. 880 e n. 15317 del
2010, dopo avere rilevato che la giurisprudenza di
legittimità si era conformata all’indirizzo
interpretativo fornito dal giudice delle leggi, secondo
il quale il pagamento dell’indennità di esproprio deve
essere subordinato, in ogni caso, alla regolarizzazione
degli obblighi fiscali, relativi all’ICI, evidenziava
problemi applicativi di non facile soluzione. In
particolare veniva esaminato il condizionamento
reciproco delle procedure, sul piano della
pregiudizialità incrociata delle questioni, con il
correlato rischio di conflitti di giudicati e di cumulo
dei tempi delle due procedure, difficilmente compatibile
con la ragionevole durata dei processi.
Trattandosi di questione di massima
di particolare importanza, le cause erano state rimesse
al Primo Presidente, il quale le aveva poi assegnate
alle SS.UU.
1.4.— Le Sezioni Unite civili hanno
quindi sollevato, con le ordinanze in epigrafe, la
questione di legittimità costituzionale con identica
motivazione in diritto, partendo da una approfondita
ricostruzione della interpretazione dell’art. 16, primo
comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, nella parte in cui
impone la riduzione della indennità di espropriazione
delle aree fabbricabili, in relazione all’obbligo di
dichiarazione (iniziale) o denuncia (per le variazioni)
ICI (art. 10 del d.lgs. n. 504 del 1992, vigente ratione
temporis).
La Corte di cassazione muove
dall’interpretazione che della norma è stata fornita
dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 351 del
2000, che a suo giudizio avrebbe escluso che la
apparente incompletezza della disciplina dettata
dall’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992 (circoscritta
alla sola ipotesi della dichiarazione infedele) fosse in
contrasto con l’art. 3 Cost., ipotizzando che anche il
contribuente evasore totale (al pari del contribuente
infedele) dovesse regolarizzare la propria posizione
fiscale, prima di ottenere il pagamento dell’indennità
di esproprio. Tale tesi interpretativa, pur seguita
anche dagli stessi giudici di legittimità, tuttavia, non
troverebbe il conforto del tenore letterale della norma,
specie alla luce della costituzionalizzazione del
principio del giusto processo e della sua ragionevole
durata. L’interpretazione seguita dalla sentenza n. 351
del 2000, infatti, pur avendo il merito di evidenziare
che la norma impugnata debba esplicare i suoi effetti
anche sull’evasore totale, non sarebbe condivisibile
perché finirebbe per introdurre una «inedita procedura
di necessitata conciliazione fiscale, che assurge a
condizione di pagamento dell’indennità di esproprio»,
laddove specifica che, «l’evasore totale non viene
affatto avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in
ogni caso le sanzioni per la omessa dichiarazione,
nonché l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di
evadere; inoltre, la erogazione dell’indennità di
espropriazione non può intervenire, se non dopo la
verifica che non superi il tetto massimo ragguagliato al
“valore” denunciato per l’ICI, e, quindi, solo dopo la
presentazione della denuncia ICI e la conseguente
regolarizzazione della posizione tributaria, con
concreto avvio del recupero dell’imposta e delle
sanzioni. Il che presuppone in ogni caso che si tratti
di area fabbricabile (tale al momento della
dichiarazione) e che il soggetto espropriato, fosse,
alla data di riferimento dell’indennità, tenuto
all’ICI».
A giudizio della Corte rimettente
una simile interpretazione non potrebbe in questi
termini essere seguita, in primo luogo perché la
collocazione sistematica (a ridosso degli artt. 14 e 15
che disciplinano le sanzioni ed il contenzioso ICI) ed
il tenore letterale della norma in esame ne
evidenzierebbero la chiara connotazione sanzionatoria,
collegata al comportamento tenuto dal soggetto.
L’effetto sanzionatorio atipico ed indiretto, costituito
dalla misura extratributaria della riduzione
dell’indennità di esproprio, si aggiunge alle sanzioni
tributarie dirette previste dal precedente art. 14, nel
caso in cui l’area edificabile venga interessata da una
procedura di esproprio (sanzione eventuale).
All’apparato sanzionatorio tipico del sistema tributario
si aggiungerebbe quindi una sanzione accessoria,
atipica, della “confisca” parziale o totale della
indennità o del suolo. Inoltre, l’effetto dell’art. 16,
primo comma, del d.lgs. n. 504 del 1992, opererebbe come
sanzione che non incide sui criteri primari di
determinazione dell’indennità di esproprio ed il
contenzioso tributario sviluppatosi a seguito della
rettifica, da parte dell’ufficio, della dichiarazione o
della denuncia presentata dal contribuente, o
dell’accertamento in caso di omessa dichiarazione o
denuncia, non rileverebbe ai fini dell’ammontare della
eventuale riduzione da praticare sulla indennità.
Il “fatto illecito” sanzionato
dalla norma in esame sarebbe costituito, a giudizio
della Corte di cassazione, dalla presentazione della
dichiarazione infedele o dalla omessa presentazione
della stessa. Tutto quanto segue andrebbe considerato un
post factum irrilevante, non in grado di vanificare o
sanare l’illecito già consumato e perfezionato, a pena
del totale svuotamento della forza cogente della norma.
I rimettenti ritengono poi, che
neppure potrebbe venire in rilievo l’emendabilità della
dichiarazione, non potendo farsene applicazione in un
caso in cui la modificazione sia giustificata dal solo
fine della convenienza di eludere la riduzione
dell’indennità. Infatti, laddove si spostasse «il
baricentro dell’art. 16 dal momento formale
dell’assolvimento degli obblighi fiscali (dichiarazione
denuncia) a quello delle procedure di verifica
dell’ammontare della obbligazione tributaria e del
relativo assolvimento», verrebbe vanificata la funzione,
evidenziata pure dalla Corte costituzionale, di
«incentivare fedeli autodichiarazioni di valore delle
aree fabbricabili ai fini ICI».
1.4.1.— Ciò posto, la Corte
rimettente procede ad una ricognizione dei propri
precedenti ed in particolare quello che aveva seguito
l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale.
A giudizio delle Sezioni Unite
civili, per le ragioni innanzi esposte, tale
orientamento andrebbe rivisto, dal momento che
renderebbe del tutto irrilevante il comportamento del
contribuente contrariamente ad ogni interpretazione
letterale o sistematica, determinando peraltro un vulnus
al principio della ragionevole durata del processo.
Sulla base di tutte queste
considerazioni, la Corte rimettente ritiene che l’art.
16, la cui ratio è quella di rafforzare l’obbligo di
dichiarare fedelmente il valore delle aree fabbricabili,
sia basato sul rapporto sinallagmatico tra valore
dichiarato ai fini dell’ICI ed indennità di esproprio
erogabile al contribuente espropriato. Il contribuente
evasore totale, quindi, non potrebbe pretendere una
indennità di esproprio, in quanto la omessa
dichiarazione dovrebbe essere equivalente alla
dichiarazione a valore irrisorio e le conseguenze non
potrebbero essere dissimili. Tanto più che il
comportamento dell’evasore parziale appare certamente
meno grave, avendo perlomeno l’effetto di esporlo al
controllo della dichiarazione.
Conclusivamente, la Corte afferma
che l’art. 16 del d.lgs. n. 504 del 1992, oggi art. 37
del testo unico in materia di espropriazione per
pubblica utilità, deve essere interpretato nel senso che
la “sanzione” della riduzione dell’indennità di
esproprio, in caso di dichiarazione infedele debba
trovare applicazione, con riferimento all’ultima
dichiarazione o denuncia presentata, prima della
determinazione formale dell’indennità, restando
irrilevanti eventuali successivi atti di ravvedimento o
di autorettifiche. Tale disciplina, inoltre, riguarda
anche le ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia ICI,
con la conseguenza che, in caso di omessa dichiarazione
ICI, al contribuente fiscalmente inadempiente,
espropriato, non spetti alcuna indennità.
1.5.— Tale conclusione, tuttavia, a
giudizio della Corte rimettente appare a sua volta porsi
in contrasto con altri parametri costituzionali, in
ragione, per un verso del mutato quadro normativo (con
riferimento all’art. 117, primo comma Cost., come
sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3
del 2001, in relazione all’art. 42, terzo comma, Cost.),
per l’altro dell’evoluzione della giurisprudenza della
Corte costituzionale. Secondo tale giurisprudenza,
infatti, le norme che non prevedono un “serio ristoro”
del danno subito per effetto dell’occupazione o
dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in
contrasto con l’art. 42, terzo comma Cost., e con gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. l del primo
protocollo addizionale alla CEDU, che il legislatore è
tenuto a rispettare in forza dell’art. 117, primo comma,
Cost. (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).
Il giudice a quo, inoltre, esclusa
ogni possibilità di un’interpretazione che possa
condurre ad individuare una sorta di «valore minimo
garantito», anche in caso di omessa dichiarazione o di
dichiarazione di valore irrisorio, ritiene che la norma
in questione alteri il rapporto diretto tra l’entità
della sanzione e la gravità della violazione. Pertanto,
la disciplina censurata, condizionando, sulla base di
elementi e circostanze che nulla hanno a che vedere con
il danno conseguente all’esproprio e con i criteri che
attengono alla congruità della indennità dovuta
all’espropriato, sarebbe per ciò stesso
incostituzionale, potendo determinare persino la
vanificazione del ristoro. E ciò, anche prendendo in
considerazione la giurisprudenza della Corte
costituzionale, secondo cui l’art. 42, terzo comma,
Cost., pur non imponendo al legislatore il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di espropriazione
al valore di mercato del bene ablato, attesa la
«funzione sociale» della proprietà, necessita comunque
che sia conservato un «ragionevole legame» con il valore
venale, a garanzia di un «serio ristoro».
1.6.— La Corte rimettente ha
chiesto quindi di dichiarare l’illegittimità
costituzionale dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 504
del 1992 (oggi art. 37, comma 7, d.P.R. n. 327 del
2001), nella parte in cui, in caso di omessa
dichiarazione/denuncia ICI o di dichiarazione/denuncia
di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un
limite alla riduzione dell’indennità di esproprio,
idoneo ad impedire la totale elisione di qualsiasi
ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo
espropriato e l’ammontare della indennità, pregiudicando
in tal modo anche il diritto ad un serio ristoro,
spettante all’espropriato.
2.— In entrambi i giudizi è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con
atti di identico contenuto depositati il 28 luglio 2011,
chiedendo che la questione proposta sia dichiarata
inammissibile o, comunque, infondata.
Secondo l’Avvocatura dello Stato
l’interpretazione seguita dalla Corte di cassazione, che
esclude la possibilità del cosiddetto pentimento
premiale, condurrebbe a conclusioni paradossali. Nel
caso di omessa dichiarazione, infatti, la mancanza di
una indicazione circa il valore dell’immobile, utile
come parametro per la determinazione dell’indennità di
esproprio, comporterebbe, alternativamente, o il mancato
riconoscimento di un’indennità di espropriazione o il
riconoscimento di un trattamento più favorevole rispetto
al dichiarante infedele. Ciò in quanto, alla luce
dell’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, il quale
prevede che l’indennità di esproprio sia determinata in
misura pari al valore venale del bene, colui che abbia
omesso la dichiarazione ICI potrebbe vedersi comunque
riconoscere, nonostante un comportamento obiettivamente
non conforme agli obblighi di legge, un’indennità di
esproprio pari addirittura al valore venale del bene
immobile.
In alternativa alla soluzione
prospettata dal rimettente, dunque, proprio il
ravvedimento operoso, ben potrebbe fungere da elemento
equilibratore della posizione dei contribuenti che
abbiano adempiuto all’obbligazione tributaria e dei
contribuenti lato sensu infedeli.
In conclusione, il Presidente del
Consiglio dei ministri, non ritiene che vi siano
sufficienti ragioni per discostarsi dall’interpretazione
che della norma censurata ha già offerto la Corte
costituzionale, sicchè, essendo possibile procedere a
tale lettura costituzionalmente orientata della
disposizione censurata, la questione sarebbe
inammissibile.
Inoltre, l’Avvocatura dello Stato
osserva che la disposizione di cui al comma 7 dell’art.
37 del d.P.R. n. 327 del 2001 andrebbe letta in
combinato con il successivo comma 8, il quale dispone il
rimborso dell’imposta maggiore pagata negli ultimi
cinque anni dall’espropriato rispetto all’indennità di
esproprio liquidata, in quanto la ratio legis delle due
disposizioni consiste nel rendere coerente il carico
fiscale sull’immobile espropriato con l’indennità di
esproprio liquidata, nel primo caso (comma 7)
coordinando le conseguenti obbligazioni, nel secondo
caso (comma 8) «correggendo automaticamente violazioni
al principio della capacità contributiva che si rendano
evidenti in occasione dell’esproprio». Anche in
quest’ottica, dunque, l’interpretazione offerta dalla
giurisprudenza costituzionale sul punto, consentirebbe
di rispettare i principi della Costituzione e della
CEDU, con la conseguenza che la censura prospettata
sarebbe nel merito comunque infondata.
3.— Nel giudizio iscritto al reg.
ord. n. 159 del 2011, si è costituito il Consorzio
Industriale e provinciale di Sassari (già Consorzio per
l’Area di Sviluppo Industriale di Sassari–Porto
Torres–Alghero), con atto depositato il 2 agosto 2011.
Secondo la difesa consortile
l’interpretazione della norma censurata non potrebbe non
tener conto del fatto che essa incide in realtà sulla
determinazione del valore di mercato del bene,
attraverso una parziale considerazione della
dichiarazione resa dal proprietario ai fini
dell’adempimento del proprio obbligo tributario. In
altri termini l’attenzione dell’interprete dovrebbe
spostarsi dall’ipotesi di una sanzione atipica e
aggiuntiva, a quella dell’accertamento del valore del
bene ai fini della determinazione dell’indennità
espropriativa. La stessa Corte costituzionale,
nell’ordinanza (recte: sentenza) n. 351 del 2000 ha
infatti affermato che «non è estranea all’ordinamento
giuridico la utilizzazione, in base a legge, di un
valore dichiarato anche ad altri fini e persino al di
fuori del rapporto intersoggettivo in cui è reso,
soprattutto quando il valore prezzo assuma la funzione
di corrispettivo per trasferimenti a carattere coattivo.
Sarebbe sufficiente, a tal fine, il richiamo
esemplificativo alle ipotesi di prelazione legale e
riscatto sia nel campo dei fondi rustici per lo sviluppo
della proprietà coltivatrice (legge 26 maggio 1965, n.
590), sia per gli immobili urbani in locazione (legge 27
luglio 1978, n. 392, art. 39), sia nell’ambito delle
aree protette a favore dell’ente parco (legge 6 dicembre
1991, n. 394) ed infine alla prelazione dello Stato ai
sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089, in caso di
alienazione di bene storico-artistico vincolato
(sentenza n. 269 del 1995) (v. ora d.lgs. 29 ottobre
1999, n. 490)». Conseguentemente, trattandosi di
determinazione del valore del bene ablato effettuata
anche tenendo conto della dichiarazione a sé sfavorevole
(di carattere confessorio) resa dal proprietario,
sarebbe insussistente la dedotta illegittimità
costituzionale.
4.— Nel medesimo giudizio iscritto
al reg. ord. n. 159 del 2011, si è costituita anche la
Astaldi S.p.a., con atto depositato il 20 luglio 2011,
concludendo per l’infondatezza della questione.
La parte costituita ritiene che tra
i limiti alla proprietà privata finalizzati a garantirne
la funzione sociale vi sarebbe anche quello introdotto
dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 504 del 1992, poi
ribadito dall’art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, e che
la legittimità della disposizione non potrebbe essere
revocata in dubbio dal richiamo all’art. 1 del primo
protocollo addizionale alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Tale norma, infatti, nel garantire il
libero esercizio del diritto di proprietà, espressamente
dispone che «Le disposizioni precedenti non portano
pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore
le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare
l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o
per assicurare il pagamento delle imposte o di altri
contributi o delle ammende».
In siffatto contesto, la «totale
vanificazione dell’indennità» di espropriazione, che le
Sezioni Unite della Corte di cassazione mirano a
scongiurare, discenderebbe da un comportamento
imputabile in via esclusiva al proprietario
dell’immobile oggetto della procedura ablativa che abbia
omesso l’essenziale adempimento in discussione, violando
il «principio secondo cui il soggetto privato, nei
rapporti con la pubblica amministrazione,
necessariamente improntati a lealtà, correttezza e
collaborazione, in quanto siano in gioco gli obblighi di
solidarietà, economici e sociali (art. 2 della
Costituzione), tra i quali quelli in materia tributaria,
non può sottrarsi alle conseguenze di una sua
dichiarazione» (sentenza n. 351 del 2000).
Tale meccanismo risulterebbe, al
contrario, incrinato da un’eventuale pronuncia di
illegittimità delle norme impugnate, con ingiusto
vantaggio per il soggetto che si è sottratto ai propri
doveri di leale collaborazione con l’Amministrazione.
5.— In prossimità dell’udienza,
hanno presentato memorie il Presidente del Consiglio dei
ministri e la Astaldi S.p.a.
Considerato in diritto
1.— Le Sezioni Unite civili della
Corte di cassazione, con due ordinanze di contenuto in
larga parte identico (reg. ord. n. 158 e n. 159 del
2011) — la seconda trattata all’udienza pubblica dell’8
novembre 2011 e la prima nella camera di consiglio del
successivo 9 novembre — hanno sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 1,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504
(Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma
dell’articolo 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421),
successivamente, a decorrere dal 30 giugno 2003,
riversato con analoga formulazione nell’art. 37, comma
7, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno
2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di espropriazione per
pubblica utilità), in riferimento agli artt. 42, terzo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 6 ed all’art. 1 del primo protocollo
addizionale della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, nella parte in cui, in caso di omessa
dichiarazione/denuncia ai fini dell’imposta comunale
sugli immobili (ICI) o di dichiarazione/denuncia di
valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite
alla riduzione dell’indennità di esproprio, idoneo ad
impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole
rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e
l’ammontare della indennità, pregiudicando il diritto ad
un serio ristoro, spettante all’espropriato.
1.1.— In virtù dell’identità delle
questioni sollevate va disposta la riunione dei giudizi,
ai fini di un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
2.— Secondo entrambe le ordinanze
di rimessione, l’interpretazione della norma censurata
offerta da questa Corte, con la sentenza n. 351 del
2000, non potrebbe essere seguita, nella parte in cui
detta pronuncia ha ritenuto che l’indennità di
espropriazione, nel caso di omessa dichiarazione ICI,
potrebbe essere corrisposta soltanto dopo la
regolarizzazione della posizione tributaria. Tale
esegesi non sarebbe, infatti, consentita dalla lettera
della disposizione e dall’interpretazione sistematica,
anche perché renderebbe irrilevante l’originaria
condotta del contribuente, recando altresì un vulnus al
principio della ragionevole durata del processo.
2.1.— I giudici a quibus, dopo
avere analiticamente esaminato gli orientamenti della
giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente
alla citata sentenza, ritengono che l’art. 16 del d.lgs.
n. 504 del 1992 debba essere interpretato nel senso che
la “sanzione” della riduzione dell’indennità di
esproprio, in caso di dichiarazione infedele, trovi
applicazione, con riferimento all’ultima dichiarazione o
denuncia presentata, prima della determinazione formale
dell’indennità, restando irrilevanti eventuali
successivi atti di ravvedimento o di spontanee
rettifiche e che tale disciplina debba necessariamente
riguardare anche le ipotesi di omessa
dichiarazione/denuncia ICI, con la conseguenza che in
questa fattispecie, al contribuente fiscalmente del
tutto inadempiente, non spetterebbe alcuna indennità di
esproprio.
2.2.— Secondo le Sezioni Unite
civili, siffatta interpretazione della norma censurata,
assunta come la sola possibile, violerebbe, tuttavia, i
parametri costituzionali evocati, in ragione sia della
loro parziale modifica — quanto all’art. 117, primo
comma, Cost., come sostituito dall’art. 3 della legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione), in
relazione all’art. 42, terzo comma, Cost. —, sia
dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte
costituzionale. Secondo tale giurisprudenza, infatti, le
norme che non prevedono un “serio ristoro” del danno
subito per effetto dell’occupazione o
dell’espropriazione di aree edificabili, si pongono in
contrasto con l’art. 42, terzo comma, Cost., e con gli
obblighi internazionali sanciti dall’art. l del
protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, che il legislatore è tenuto a rispettare
in forza del dell’art. 117, primo comma, della
Costituzione.
I giudici a quibus, esclusa ogni
possibilità di un’interpretazione della norma censurata
che consenta di individuare una sorta di «valore minimo
garantito» anche in caso di omessa dichiarazione o di
dichiarazione di valore irrisorio, ritengono che essa
altererebbe il rapporto tra l’entità della sanzione e la
gravità della violazione. Pertanto, il citato art. 16,
stabilendo l’indennità di esproprio in base ad elementi
e circostanze in alcun modo correlati al danno
conseguente all’esproprio ed ai criteri che attengono
alla congruità della indennità dovuta all’espropriato,
sarebbe costituzionalmente illegittimo, potendo
determinare persino la vanificazione del ristoro.
3.— Preliminarmente, con
riferimento al giudizio relativo all’ordinanza iscritta
al reg. ord. n. 158 del 2011, va rilevato che il
rimettente si limita, in fatto, a ricordare che il
giudizio principale è stato promosso con ricorso per la
cassazione della sentenza n. 928 del 5 ottobre 2004
della Corte di appello di Catania, senza specificare la
data dell’espropriazione e della liquidazione
dell’indennità, rilevante ai fini di stabilire
l’applicabilità ratione temporis della norma impugnata,
sostituita dall’art. 37, comma 7, del d.P.R. n. 327 del
2001.
La questione è, quindi,
manifestamente inammissibile, in quanto, come più volte
precisato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’omessa
o insufficiente descrizione della fattispecie, non
emendabile mediante la diretta lettura degli atti,
impedita dal principio di autosufficienza dell’atto di
rimessione, preclude il necessario controllo in punto di
rilevanza (ex plurimis: ordinanze nn. 6 e 3 del 2011;
nn. 343, 318 e 85 del 2010; nn. 211, 201 e 191 del
2009).
4.— Nel merito la questione
sollevata dall’ordinanza reg. ord. n. 159 del 2011 è
fondata.
5.— Il rimettente, nel prospettare
la questione di legittimità costituzionale, muove da
un’esegesi del citato art. 16, da lui ritenuta la sola
possibile. A suo avviso, la lettera della medesima e gli
ordinari criteri ermeneutici non consentirebbero,
infatti, un’interpretazione costituzionalmente orientata
di detta norma.
Siffatta premessa richiede, quindi,
un preliminare esame della giurisprudenza formatasi
sull’applicabilità della norma alle ipotesi di omessa
dichiarazione/denuncia a fini ICI del valore di terreni
edificabili.
5.1.— L’art. 16 del d.lgs. n. 504
del 1992, rubricato “indennità di espropriazione”, al
comma 1 così disponeva: «In caso di espropriazione di
area fabbricabile l’indennità è ridotta ad un importo
pari al valore indicato nell’ultima dichiarazione o
denuncia presentata dall’espropriato ai fini
dell’applicazione dell’imposta qualora il valore
dichiarato risulti inferiore all’indennità di
espropriazione determinata secondo i criteri stabiliti
dalle disposizioni vigenti» — articolo poi abrogato
dall’art. 58, comma 1, numero 134), del d.P.R. n. 327
del 2001, come modificato dal decreto legislativo 27
dicembre 2002, n. 302 a decorrere dal 30 giugno 2003 (in
virtù dell’art. 3 del decreto-legge 20 giugno 2002, n.
122, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1,
della legge 1° agosto 2002, n. 185).
La norma prevedeva dunque, per le
sole aree fabbricabili, una riduzione della indennità di
espropriazione, quando il valore venale, dichiarato o
denunciato dall’espropriato ai fini ICI, risultasse
inferiore all’indennità. Quale effetto ulteriore era
prevista (senza una distinzione tra aree fabbricabili e
altri immobili) una maggiorazione della indennità, pari
alla differenza (con l’aggiunta degli interessi) tra
l’importo della imposta (ICI) pagata dall’espropriato o
dal suo avente causa per il medesimo bene, negli ultimi
cinque anni, e quello risultante dal computo
dell’imposta sulla base della indennità liquidata.
5.2.— Questa Corte ha preso in
esame la disciplina stabilita dal citato art. 16
censurato, tra l’altro, in riferimento all’art. 3 Cost.,
con la sentenza n. 351 del 2000 e con le ordinanze n.
401 del 2002, n. 539 del 2000 e n. 333 del 1999. Secondo
tali pronunce, nell’interpretazione di detta norma,
sarebbe irrilevante accertare se essa prevedesse o no
una misura sanzionatoria, ovvero se presupposto della
stessa fosse una dolosa evasione d’imposta o un errore.
Siffatta disposizione costituiva, infatti, «ragionevole
applicazione del principio secondo cui il soggetto
privato, nei rapporti con la pubblica amministrazione,
necessariamente improntati a lealtà, correttezza e
collaborazione, in quanto siano in gioco gli obblighi di
solidarietà politici, economici e sociali (art. 2 della
Costituzione), tra i quali quelli in materia tributaria,
non può sottrarsi alle conseguenze di una sua
dichiarazione».
In particolare, individuata la
finalità della norma nel recupero dell’evasione fiscale
e nella sua disincentivazione, si è affermato che «il
fatto che questa evasione sia totale o parziale, ovvero
dipendente o meno da volontà consapevole o da mero
errore nella dichiarazione, poco interessa ai fini della
legittimità costituzionale», sicché le «varie ipotesi di
evasore totale o parziale formulate nelle ordinanze di
rimessione sono tutte erronee nei presupposti». La norma
avrebbe dovuto, quindi, essere correttamente
interpretata nel senso che «l’evasore totale non viene
affatto avvantaggiato, in quanto è destinato a subire in
ogni caso le sanzioni per la omessa dichiarazione,
nonché l’imposizione per l’ICI che aveva tentato di
evadere». Soprattutto, per quanto qui rileva, la
determinazione dell’indennità di espropriazione non
avrebbe potuto essere effettuata se non dopo avere
verificato che questa non eccedeva il tetto massimo
ragguagliato al “valore” denunciato per l’ICI, e,
quindi, solo dopo la presentazione della relativa
denuncia ICI e la conseguente regolarizzazione della
posizione tributaria, con l’effettivo avvio del recupero
dell’imposta e delle sanzioni. In ogni caso, ciò
presupponeva che si trattasse di area fabbricabile (e
tale al momento della dichiarazione) e che il soggetto
espropriato, fosse, alla data della liquidazione
dell’indennità, tenuto al pagamento dell’ICI.
5.3.— La giurisprudenza di
legittimità successiva alla sentenza interpretativa di
rigetto n. 351 del 2000 di questa Corte ha tenuto conto
in vario modo delle argomentazioni nella stessa
sviluppate, dando vita a molteplici orientamenti,
diversi soprattutto quanto alle modalità applicative del
meccanismo correttivo elaborato da questa Corte.
Le Sezioni Unite civili, con
l’ordinanza di rimessione, hanno provveduto ad
un’analitica ricognizione di tali indirizzi, ricordando
in primo luogo quello coevo alla citata sentenza,
orientato a negare l’applicabilità del citato art. 16
del d.lgs. n. 504 del 1992 all’ipotesi di omessa
presentazione della denuncia o della dichiarazione ai
fini dell’ICI.
Inoltre, esse hanno dato atto che
la successiva giurisprudenza di legittimità, dopo aver
ribadito la pregressa esegesi della norma, anche alla
luce della pronuncia della Corte costituzionale, ha
prevalentemente seguito l’interpretazione fornita da
questa Corte, nel senso che l’evasore totale non perde
il suo diritto all’indennizzo espropriativo, ma è
unicamente destinato a subire le sanzioni per l’omessa
dichiarazione e l’imposizione per l’ICI che aveva
tentato di evadere, potendo l’erogazione dell’indennità
di espropriazione intervenire solo dopo la verifica che
essa non superi il tetto massimo ragguagliato al valore
accertato per l’ICI, a seguito della regolarizzazione
della posizione tributaria.
6.— Le Sezioni Unite civili,
investite «della questione di massima di particolare
importanza, vertente sul tema dei rapporti tra
liquidazione dell’indennità di esproprio e soggezione
all’ICI», con l’ordinanza di rimessione ritengono,
quindi, che proprio tale orientamento debba essere
rivisto, nel senso che la lettera e la ratio della norma
impongono di ritenere che essa si applichi all’evasore
totale, senza alcuna possibilità di evitare il vulnus ai
parametri costituzionali evocati.
Pertanto, in presenza di un
orientamento non univoco, le Sezioni Unite civili della
Corte di cassazione, hanno ritenuto, nell’esercizio
della propria funzione nomofilattica, di cui questa
Corte deve tenere conto, di superare in tal modo il
contrasto. Siffatta interpretazione costituisce,
pertanto, «diritto vivente», del quale si deve accertare
la compatibilità con i parametri costituzionali evocati.
7.— Posta tale premessa, e ritenuta
applicabile la norma sia ai casi di omessa dichiarazione
a fini ICI, sia al caso di una dichiarazione per un
valore irrisorio, il rimettente ha concluso che
l’originario comportamento tenuto a fini fiscali
influisce necessariamente sulla quantificazione
dell’indennità di espropriazione.
7.1.— Nel delibare le censure
prospettate dal rimettente, giova ricordare che sia la
giurisprudenza di questa Corte che quella della Corte
EDU hanno individuato in materia di indennità di
espropriazione un nucleo minimo di tutela del diritto di
proprietà, garantito dall’art. 42, terzo comma, Cost., e
dall’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU,
in virtù del quale l’indennità di espropriazione non può
ignorare «ogni dato valutativo inerente ai requisiti
specifici del bene», né può eludere un «ragionevole
legame» con il valore di mercato (da ultimo sentenza n.
181 del 2011 e prima ancora, sentenza n. 348 del 2007).
In applicazione di tale principio,
l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve
realizzare, in primo luogo, un «giusto equilibrio» tra
le esigenze dell’interesse generale della comunità e il
requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell’individuo. In secondo luogo, nonostante che al
legislatore ordinario spetti un ampio margine,
l’acquisizione di beni senza il pagamento di indennizzo
in ragionevole rapporto con il loro valore costituisce
normalmente un’ingerenza sproporzionata.
Il legislatore, quindi, sebbene non
abbia il dovere di commisurare integralmente l’indennità
di espropriazione al valore di mercato del bene ablato,
non può sottrarsi al «giusto equilibrio» tra l’interesse
generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali
degli individui.
Tale principio conserva validità
anche con riferimento alle misure che lo Stato adotta in
questa materia al fine di «assicurare il pagamento delle
imposte o di altri contributi o delle ammende» di cui al
capoverso dell’art. 1 del primo protocollo addizionale
alla CEDU. Questa norma, interpretata anche alla luce
dell’orientamento della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, attribuisce ampia discrezionalità ai
legislatori nazionali nel definire le proprie politiche
fiscali e, tuttavia, non consente di ritenere legittime
misure di prevenzione e dissuasione fiscale qualora non
siano prevedibili (ovvero siano meramente eventuali) o
pretendano dal soggetto dichiarante un eccessivo onere
o, infine, comportino una eccessiva conseguenza
sanzionatoria, come nel caso in cui possano giungere ad
una sostanziale espropriazione senza indennizzo
(sentenza 22 settembre 1994, n. 13616188, Hentrich c.
Francia).
Nel quadro di tali principi, la
norma censurata, nell’interpretazione offerta dalle
Sezioni Unite civili, viola sia l’art. 42, terzo comma,
Cost., sia l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU.
La disciplina stabilita dall’art. 16 non è, infatti,
compatibile con il citato nucleo minimo di tutela del
diritto di proprietà, in quanto non contempla alcun
meccanismo che, in caso di omessa dichiarazione/denuncia
ICI, consenta di porre un limite alla totale elisione di
tale indennità, garantendo comunque un ragionevole
rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e
l’ammontare della indennità. Peraltro, tale vulnus si
determina anche per il caso di dichiarazione/denuncia di
valori irrisori, o di valori che potrebbero condurre
comunque ad elidere il necessario vincolo di
ragionevolezza e proporzionalità fra il comportamento
tributario illecito e la sanzione, e quindi la pronuncia
di illegittimità costituzionale deve necessariamente
riguardare anche siffatto profilo della disciplina.
Resta ferma la discrezionalità del legislatore di
stabilire sanzioni che, eventualmente, incidano anche
sull’indennità di espropriazione, purchè non realizzino
una sostanziale confisca del bene, sacrificando
illegittimamente il diritto di proprietà all’esclusivo
interesse finanziario leso dal contribuente, tenuto
conto della diversità di procedimenti e di garanzie che
sovrintendono all’accertamento tributario ed alle
relative sanzioni, peraltro già autonomamente previste
dal d.lgs. n. 504 del 1992.
8.— In definitiva, va dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1,
del d.lgs. n. 504 del 1992.
9.— Ai sensi dell’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), deve
essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, anche dell’art. 37, comma 7, del d.P.R.
n. 327 del 2001, che disciplina la riduzione
dell’indennità a decorrere dal 30 giugno 2003. Tale
norma, infatti, contiene una disciplina che riproduce
quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla
presente sentenza.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 16, comma 1, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della
finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo 4
della L. 23 ottobre 1992, n. 421);
2) dichiara, ai sensi dell’art. 27
della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, dell’articolo 37, comma 7, del decreto
del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327
(Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilità);
3) dichiara manifestamente
inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti
territoriali, a norma dell’articolo 4 della L. 23
ottobre 1992, n. 421), sollevata dalla Corte di
cassazione, Sezioni Unite civili, con ordinanza del 14
aprile 2011 (reg. ord. n. 158 del 2011), in riferimento
agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione.
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