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Ritengo che la sentenza
in commento si ponga (e possa essere, quindi,
considerata) come un caso di vera e propria estrema
evoluzione interpretativa – una sorta di provocazione
ermeneutica, (probabilmente involontaria ed incidentale)
– del concetto di detenzione punibile di sostanza
stupefacenti.
La pronunzia, infatti,
criticando e censurando le carenze motivazionali
dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame, afferma
la indefettibile necessità che l’esame della condotta
detentiva avvenga, avendo riguardo a tutte quei canoni
valutativi che il legislatore ha introdotto con la
novella del 2006, nessuno escluso.
Ma il significato
della decisione non si ferma qui, perchè vi è, però,
molto di più!
La Suprema Corte si
sofferma, infatti, specificatamente su alcuni altri
controversi profili, che hanno fatto versare, a
tutt’oggi, fiumi di inchiostro a giurisprudenza e
dottrina, senza, peraltro, addivenire a soluzioni
univoche.
La sentenza cioè:
1) esclude che, a
seguito della L. 49/2006 sia stata introdotta
un’inversione onere della prova in ordine alla
destinazione allo spaccio dello stupefacente;
2) afferma che
il dato ponderale deve essere assoggettato ad un
generale criterio di equiparazione sostanziale, rispetto
a qualsiasi altro fra gli indicatori contenuti nel comma
1 bis dell’art. 73 dpr 309/90;
3) riconnette
particolare importanza alla indagine valutativa
concernente sia la tipologia di confezionamento (unico
involucro), sia l’assenza – o la presenza - di strumenti
per il taglio dello stupefacente e per la pesatura dello
stesso, elementi sintomatici di un successiva diluizione
e moltiplicazione del quantitativo originario;
4) ritiene non
eludibile la valutazione della condizione di
tossicomania del detentore, delle sue effettive
condizioni economiche, onde comprendere se le stesse
siano compatibili con l’acquisto di un certo
quantitativo di stupefacente, nonchè della presunta
convenienza del rapporto quantità-prezzo, che legittima
la cd. “scorta”.
1)
Non è un principio
inedito che debba essere il PM a provare la destinazione
allo spaccio dello stupefacente e non l’inverso.
E’ questo, assioma
sacrosanto ed irrinunciabile, allo stato, però, troppo
discontinuo nella sua applicazione, pur nella
convinzione che, negli ultimi anni, si sia stratificato
l’auspicabile orientamento di assoluta ortodossia al
principio dell’onere della prova.
Significativa in
proposito, è, infatti, la pronunzia della Sez. VI,
12-02-2009, n. 12146 [(rv. 242923), Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Trento c. D.G., in
CED Cassazione, 2009, Riv. Polizia, 2009, 10-11, 709]
che ha statuito che “In materia di stupefacenti,
il mero dato quantitativo del superamento dei limiti
tabellari previsti dall'art. 73, comma primo-bis, lett.
a), d.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dalla L. 21
febbraio 2006, n. 49, non vale ad invertire l'onere
della prova a carico dell'imputato, ovvero ad introdurre
una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine
alla destinazione della sostanza ad un uso non
esclusivamente personale, dovendo il giudice globalmente
valutare, sulla base degli ulteriori parametri indicati
nella predetta disposizione normativa, se le modalità di
presentazione e le altre circostanze dell'azione siano
tali da escludere una finalità esclusivamente personale
della detenzione.”
[conf.
ex plurimis Cass. Sez. IV Sent., 17-12-2007, n.
16373 (rv. 239962), in
www.leggiditalia.it].
Una seria e concreta
realizzazione di tale principio, presuppone, dunque, di
addivenire ad un’armonizzazione di fondo della legge
sugli stupefacenti, la quale, invece, per converso,
opera, sulla base di una presunzione juris tantum
di destinazione allo spaccio dello stupefacente
detenuto.
Vale a dire che – ancor
prima della disamina dei canoni di ausilio ermeneutico,
introdotti con la L. 49/2006 – la valutazione da cui
l’esegeta muove è, purtroppo, quella del sospetto di un
destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.
Si tratta, dunque, di
uno schema di ordine mentale, che si pone in
irreversibile contraddizione con la regola generale
dell’onere della prova, e, dunque, una situazione che
crea indubbi imbarazzi interpretativi e che le
successive modifiche del T.U. sugli stupefacenti, in
epoca posteriore alla L. 685/1975 non hanno saputo (o
voluto) risolvere.
D’altronde, una
modifica che avesse introdotto una presunzione di segno
opposto a quella attualmente vigente, non avrebbe potuto
suscitare, sul piano giuridico, nessuno scandalo,
proprio perché conforme al postulato su cui si fonda il
nostro ordinamento costituzionale, la presunzione di non
colpevolezza.
Allo stato attuale,
invece, viviamo un paradosso processuale, che la
giurisprudenza tenta di risolvere contingentemente dando
– come giusto – preferendo al criterio generale
dell’onere della prova.
2)
Il parametro dato dal
peso dello stupefacente – dopo numerose oscillazioni
giurisprudenziali, ora nel senso di conferire importanza
decisiva, ora in senso opposto – pare avere
definitivamente perso quel carattere di assoluta
decisività prognostica, che lo rendeva un unicum
differente e, comunque, prevalente su tutti gli altri
canoni (1).
Il Supremo Collegio,
Sez. VI, con la sentenza 18-09-2008, n. 39017 [(rv.
241405), Procuratore Generale della Repubblica presso la
Corte d'Appello di Bologna c. C.G. in CED Cassazione,
2008] ha, infatti, ribadito l’esistenza, in capo
“..al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando
ritenga che dagli altri parametri normativi (modalità di
presentazione, peso lordo complessivo, confezionamento
frazionato, altre circostanze dell'azione) si debba
escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente
personale, pur in presenza del superamento dei suddetti
limiti massimi”, con ciò conferendo una valenza
paritaria anche agli altri canoni legislativi, che,
inizialmente parevano confinati in un ruolo subordinato.
Rimane, comunque, a
monte di ogni interpretazione che si intenda proporre,
un problema metodologico di assoluta e decisiva
importanza, vale a dire che l’attuale interpretazione
data dalla giurisprudenza, la quale supera il dettato
della norma (che avrebbe circoscritto la detenzione alla
dose media giornaliera, secondo i criteri tabellari),
costituisce una supplenza contingente, nell’insipienza
del legislatore.
La assoluta precarietà
di tale intervento interpretativo, viene confermata
dalla considerazione che esso potrebbe essere destinato
ad essere agevolmente superato, anche
in modo repentino ed
improvviso, ovviamente in caso di mutazione soggettiva
dell’orientamento indicato, circostanza tutt’altro che
inusuale o remota, non essendo – nella fattispecie – in
presenza di un dato normativo.
La stessa pronunzia che
si esamina in questa sede, come detto all’inizio, non
sfugge ad influenze di carattere soggettivo.
Essa appare, quindi,
molto particolare ed estrema, in quanto ipotizza – in
linea teorica e giurisprudenzialmente inedita (non si
ricordano, infatti, prese di posizione analoghe) - che
anche un quantitativo tutt’altro che modico e, comunque,
affatto limitato come quello di 500 grammi di sostanze
stupefacente, possa rientrare nel concetto di detenzione
personale, ove anche gli altri fattori interpretativi,
che il T.U. stup. prevede, non risultino ostativi a tale
prognosi.
Di fronte ad
un’applicazione così plastica ed oggettiva del principio
di ininfluenza del connotato ponderale, se inteso in
re ipsa, parametro che (bene o male) anche seppure
circoscritto, aveva funto da bussola, in presenza di
quantitativi del tipo di quello oggetto dell’imputazione
(ed anche in casi minori, comunque, sempre superiori ai
50 grammi lordi), non si può rimanere inerti ed
accettare tout court una simile soluzione del
problema.
E’ necessaria, infatti,
una soluzione legislativa, che eviti che l’applicazione
di un principio teoricamente giusto e corretto, possa
degenerare, però, come pare potrebbe accadere nella
fattispecie, in soluzioni di potenziale impunità, che
non sembrano accettabili, perché ontologicamente
incompatibili con la detenzione ad uso personale.
L’esperienza forense
(2) ci ha insegnato che è plausibile anche la
costituzione di una piccola scorta (“quantità non
esigue”), ma, francamente, pare di difficile
comprensione l’assimilazione di quantitativo quale in
questione alla categoria dell’uso personale.
La soluzione da
adottare, per porre termine, quantomeno, a denunziato
stato di incertezza deve essere di natura legislativa.
Due sono ad avviso di
chi scrive le soluzioni possibili.
O si depenalizza
qualsiasi condotta detentiva, qualunque sia il peso
dello stupefacente detenuto – intraprendendo una
pericolosissima deriva, che favorirebbe la
proliferazione di
sacche di illegalità –, oppure, più preferibilmente, si
cerca di stabilire in maniera meno empirica un limite
aritmetico-ponderale per la detenzione.
Chiunque può
comprendere che la seconda auspicata soluzione
costituisce una coperta corta, ma pur sempre un
contributo maggiormente praticabile alla soluzione dela
questione.
Non credo, infatti, vi
siano altre opzioni serie.
Con la scelta di fissare
limiti quantitativi, infatti, non vi sono rischi di
proliferazione ed aumento della circolazione e
diffusione degli stupefacenti, perché è dato reale e di
esperienza che il crimine organizzato continuerà il
proprio business, importando ed esportando, detenendo,
producendo o cedendo quantitativi di droga certamente
superiori a quelli che potrebbero formare oggetto della
previsione.
E’ bene precisare che
la soluzione sin qui esposta, non sta affatto a proporre
od a significare, quindi, l’introduzione di una
presunzione di non punibilità juris et de jure,
in favore di chi detenesse un certo quantitativo di
droga, normativamente predeterminato.
In realtà, il parametro
la cui introduzione si auspica, servirebbe a
circoscrivere e rendere tassative le fattispecie nelle
quali, il giudice, in presenza di ulteriori canoni
valutativi favorevoli all’indagato/imputato, potrebbe
operare fattivamente la delibazione in ordine alla
configurabilità dell’uso personale.
3)
Il depotenziamento del
valore assoluto – sul piano probatorio - riconnesso al
profilo ponderale, permette – in pari tempo – di
conferire rilevo ed importanza alla indagine valutativa
che venga a riguardare sia il tipo di confezionamento
(specialmente in ipotesi di un unico involucro), sia
l’assenza – o la presenza – di quegli strumenti per il
taglio dello stupefacente e per la pesatura dello
stesso, cioè di elementi che risultano sintomatici di un
successiva diluizione e moltiplicazione del quantitativo
originario di droga.
Si tratta di paradigmi,
oggetto di particolare valorizzazione da parte della
novella del 2006 e, certamente hanno prodotto effetti di
carattere positivo, permettendo l’introduzione,
all’interno della dinamica processuale, di ulteriori
criteri decisori, che permettono di pervenire ad un
giudizio finale di maggiore completezza in punto al
carattere ed alla rilevanza penale della condotta di
detenzione.
La sentenza in esame,
quindi, non deroga affatto a tale condivisibile
indirizzo, anzi, essa conferisce agli stessi (e nello
specifico alla loro presenza od assenza ed alla
metodologia del confezionamento) valore fortemente
sintomatico, che condiziona le conclusioni da formulare
(3).
4)
Ultimo aspetto,
potenzialmente esimente, su cui appare opportuno
soffermarsi brevemente, è quello concernente i parametri
economici, vale a dire quell’insieme di indicatori, che
possono indurre il giudice ad affermare che la
detenzione dello stupefacente è destinata ad uso
personale, in quanto l’agente – che sia abituale
assuntore - possiede una capacità economico-finanziaria
congrua in relazione al quantitativo rinvenuto nella sua
disponibilità.
Si deve osservare che
questo indirizzo, maturato nel tempo ha sempre più
condizionato le valutazioni dei giudici – v. ad esempio
Trib. Napoli, 6 aprile 2009, che assume tra i criteri
per la valutazione prognostica della destinazione della
sostanza anche “…le condizioni di reddito del
detentore e del suo nucleo familiare…” -,
divenendo, così, a pieno titolo canone ermeneutico
tutt’altro che secondario.
Appare, però,
necessario che il ricorso all’uso di tale parametro
tenga in debito conto alcuni elementi fattuali, che la
quotidiana esperienza presenta.
I parametri puramente
economici possono assumere una valenza meramente
teorica, si da privarli di concreta significanza, e
renderli vani, ove non consideri che :
a) il prezzo di
cessione dell’hashish e della marjiuana in special modo
(ma anche delle droghe pesanti) appare obbiettivamente
non elevato, sicchè anche quantitativi non modicissimi
non comportano affatto esborsi rilevanti.
Si può affermare,
quindi, che acquisti di tali sostanze possono venire
affrontati, attraverso la costituzione, in tempi brevi,
di riserve di danaro all’uopo destinate;
b) è evidente che anche
il commercio illecito della droga, segue criteri
puramente mercantili e, dunque, si adegua a logiche di
sconto del prezzo praticato in proporzione al
quantitativo di droga fornito, si da indurre
all’acquisto di quantitativi non limitati, attraverso un
meccanismo di cospicua riduzione od abbattimento del
prezzo, in questo si esplicita il rapporto
“quantità/prezzo”;
c) il limite
dell’argomento-esimente “scorta”,
riposa nella natura dello stupefacente (in particolare
hashish o marjiuana), il quale, spesse volte, non
essendo stato trattato chimicamente, ma costituendo
diretto risultato di una coltivazione – talora puramente
biologica – è portato ad un naturale degrado ed ad
un’altrettanto naturale consunzione.
Sicchè si dovrebbe, a
fini prognostici, anche valutare il tempo di
conservazione del prodotto, vale a dire entro quanto
tempo un certo quantitativo possa essere assunto od
utilizzato in modo da produrre effetti stupefacenti.
Vi è, poi, da
considerare che un’eventuale scelta consistente
nell’ancorare in modo automatico ed acritico la non
punibilità della detenzione dello stupefacente (e la sua
destinazione ad un uso esclusivamente personale) alla
disponibilità di danaro da parte dell’agente, o, meglio,
alla sua capacità di produrre un reddito di natura
lecita, determinerebbe - pertanto – una palese disparità
di trattamento sotto svariati profili.
In primo luogo, come
detto, così opinando – dal punto di vista oggettivo -
verrebbero poste sul medesimo piano condotte tra loro
ontologicamente e radicalmente differenti e
caratterizzate da un diversa carica di offensività,
legato, ovviamente, al profilo ponderale.
Il comparare come
omologhi quantitivi tra loro all’evidenza differenti (ad
esempio alcune decine con alcune centinaia di grammi o,
addirittura, con qualche chilo), sol perché il detentore
– in assenza di quegli elementi che, a mente del comma 1
bis dell’art. 73 dpr 309/90) inducano ad ipotizzare una
destinazione parziale o totale allo spaccio della
sostanza – appare in grado di giustificare l’acquisto,
appare intuitivamente opzione di difficile, se non
impossibile, configurazione giuridica.
In secondo luogo, a
cascata, deriva anche la considerazione che la
punibilità o la non punibilità del singolo
detentore-assuntore subirebbe il condizionamento del
censo dell’indagato/imputato.
Dunque, una vera e
propria discriminazione fra persone oggettivamente ed
originariamente nella medesima condizione di
tossicomania (con sospetti di contrasto con l’art. 3
Costituzione), posto che in una simile impostazione,
verrebbe valorizzato un dato che non necessariamente –
in presenza di quantitativi tutt’altro che esigui –
dimostra la finalizzazione a scopi personali della
detenzione e che verrebbe premiato in ammissibilmente lo
status economico e/o sociale.
La condizione di
possesso di risorse economiche, idonee a giustificare la
disponibilità anche di quantitativi rilevanti, comunque
eccedenti i criteri di modicità, di per sé sola, non
potrebbe (e non dovrà) mai, quindi, apparire risolutiva.
Soprattutto potrebbe
divenire un pericoloso – quanto apparente – presupposto,
atto a falsare la realtà, creando, così, in capo a
taluni soggetti, situazioni di impunità.
Si pensi solo alla
elementare circostanza che sodalizi criminosi potrebbero
fare sempre più uso, quali detentori, di persone che,
pur assuntori, siano incensurate e si trovino in
condizione di abbienza, onde eludere “legalmente”
il divieto ex lege di accumulo di quantitativi
non limitati (e, comunque, logicamente e giuridicamente
incompatibili anche con il concetto di scorta).
** ** **
La pronunzia della
Suprema Corte, quindi, pone molti interrogativi, ma
soprattutto ripropone la necessità di mettere mano in
modo serio ed articolato ad un progetto complessivo di
revisione della normativa vigente in materia di
stupefacenti.
Avv. Carlo Alberto
Zaina
_________
(1) Ciò non di meno, permangono talora ancora indirizzi
seguaci della valorizzazione del profilo ponderale,
vedi ad esempio Uff. indagini preliminari Napoli Sez.
VII, 13-12-2010, n. 2771 In tema di detenzione e
spaccio di stupefacenti, qualora il dato ponderale della
droga superi il limite rappresentato da una soglia
ragionevole di valore economico ed il dato quantitativo
della sostanza stupefacente assuma valore preponderante
per il giudizio, diviene irrilevante la valutazione di
ogni altro elemento.
(2) Cass. Sez. VI Sent., 01-10-2008, n. 40575 (rv.
241522) , Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Trento c. M.F.
(3) Sul punto esplicativa appare la sentenza Trib. Bari
Sez. II, 26 luglio 2011, in
www.leggiditalia.it “Incorre nell'imputazione
per il reato di detenzione di sostanza stupefacente, ai
fini di spaccio, il prevenuto che detenga sostanze
psicotrope di tipo hashish che per modalità di
confezionamento e rinvenimento appare destinata allo
spaccio. Nel caso di specie, rivelano la finalità di
spaccio il rinvenimento, nell'abitazione del prevenuto
degli strumenti atti alla preparazione della sostanza
oltre a due piantine di marijuana coltivate, già
estirpate ed in fase di essiccamento, un tritaerba, un
bilancino di precisione, un taglierino, delle banconote
di piccolo taglio nascoste in una confezione ed una
lista di nominativi con delle cifre indicanti i
pagamenti. Tutti questi elementi, complessivamente
valutati, escludono che possa parlarsi di uso personale
della sostanza rinvenuta, in quanto sintomatici di
un'attività organizzata a procurarsi numerose confezioni
di stupefacenti destinati alla vendita.
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