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La sentenza annotata ha ritenuto
integrato il reato di tentata frode nell'esercizio del
commercio nei confronti del presidente di un oleificio
per la detenzione di 401 lattine di olio di oliva
destinate alla vendita e prodotte da un’azienda diversa
da quella risultante dall’etichetta.
Il delitto di cui all’art. 515 c.p.
che punisce chiunque consegni all’acquirente una cosa
mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per
origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da
quella dichiarata o pattuita, nell’esercizio di
un’attività commerciale ovvero in uno spaccio aperto al
pubblico, mira alla tutela di una pluralità di interessi
tra cui:
a) l’affidamento che i consumatori
di beni fanno sull’affidabilità e correttezza dei
produttori;
b) l’interesse del produttore a non
vedere i suoi prodotti scambiati surrettiziamente con
prodotti diversi.
Nel caso di specie, si sarebbe
trattato della cosiddetta frode qualitativa, che si
configura nell’ipotesi in cui l’agente, nell’esercizio
di un’attività commerciale, consegni all’acquirente un
prodotto che, per la sua qualità, risulti diversa da
quella dichiarata.
Tuttavia, in questo caso, non vi
era stata alcuna traditio del bene, atteso che la
condotta dell’agente era consistita nel detenere, presso
lo stabilimento di produzione, numerose bottiglie d’olio
pronte ad essere immesse sul mercato che, tuttavia,
recavano etichette con informazioni diverse da quelle
reali: dalle indagini era risultato, infatti, che l’olio
contenuto nelle lattine era stato acquistato da altra
cooperativa, come risultante dalla documentazione
contabile.
Il presidente dell’oleificio,
quindi, veniva tratto in giudizio e, successivamente,
condannato dalla Corte territoriale per il reato di cui
agli articoli 56 e 515 c.p. per il delitto di tentata
frode in commercio.
Costui proponeva allora ricorso per
cassazione rilevando, con uno dei due motivi di ricorso,
la violazione degli articoli 56 e 515 c.p., atteso che
non vi era alcuna trattativa in corso per la vendita
delle lattine di olio e che, le stesse, erano state
semplicemente conservate presso il suo magazzino.
La Suprema Corte veniva, dunque,
chiamata a decidere se il reato di tentata frode in
commercio possa configurarsi anche nel caso in cui non
sussista alcun tipo di contrattazione destinato alla
vendita della merce.
I giudici di legittimità, nel
risolvere la questione loro sottoposta, partono
dall’individuazione degli elementi che rendono
configurabile il delitto in esame.
Osservano gli Ermellini che il
reato di frode in commercio punisce la condotta di chi,
nell'esercizio di un'attività commerciale, ovvero in uno
spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una
cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per
origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da
quella dichiarata o pattuita.
La consumazione del reato, dunque,
coincide con la consegna materiale della merce
all'acquirente.
Proprio in relazione alle modalità
con cui si consuma il reato in commento, è sorta
un’accesa disputa sull’esatta individuazione del momento
in cui comincia l’attività punibile nella diversa
fattispecie di tentata frode in commercio, dando vita a
due orientamenti di segno opposto.
Un primo insegnamento ravvisa
l’ipotesi di cui all’art. 56 e 515 c.p. quando, oltre
alla predisposizione o all’offerta di un bene in vendita
diverso da quello dichiarato, vi sia stato un inizio di
contrattazione con un determinato acquirente.
In questo caso la mera detenzione o
l’esposizione per la vendita di un prodotto diverso, non
sarebbero sufficienti ad integrare il tentativo di
delitto in parola (Cass. pen. sez. III, 11.6.2003, n.
28828, in Riv. Pen., 2003, 1067; Cass. pen. sez. VI,
3.10.1972, in Giust. Pen., 1973, II, 191).
Altro indirizzo interpretativo,
invece, si rifà al principio accolto anche dalle Sezioni
unite penali nella nota sentenza n. 28 del 25.10.2000,
secondo cui non è richiesta l'effettiva messa in vendita
del prodotto, essendo sufficiente l'accertamento della
destinazione alla vendita di un prodotto diverso per
origine, provenienza, qualità o quantità da quelle
dichiarate o pattuite (ex multis: Cass. pen., sez. III,
25.11.2010, n. 41758 in Giur. It., 2004, 6, Diritto e
Procedura Penale).
Per quanto riguarda la sentenza
annotata, i giudici di legittimità hanno ritenuto
interpretare le direttive date dalle Sezioni unite con
sentenza n. 28/2000, in tema di valutazione della
univocità di direzione degli atti, andando ad analizzare
in concreto le modalità di compimento della frode,
sottolineando come soggetto passivo dell’esame possa
essere sia il pubblico dei consumatori, ma anche quello
dei commercianti (Cass. pen. 8.9.2004, n. 36056, in
Giur. It., 2004, 6, Diritto e Procedura Penale).
Alla stregua di tale principio, va
configurato il tentativo anche nella mera detenzione in
magazzino di merce non rispondente per origine,
provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o
pattuita (Cass. pen., Sez. III, 5.11.2008, n. 1454, in
Riv. pen., 2009, 6, 688).
Deve, dunque, senza dubbio
riconoscersi integrato il reato di tentativo di frode in
commercio nella condotta dell'imprenditore che detiene
in proprio magazzino confezioni di olio extravergine di
oliva proveniente da altra azienda con etichettatura
attestante la produzione ed il confezionamento presso il
proprio stabilimento e successivamente destinate alla
vendita.
La pronuncia annotata, affronta, da
ultimo, la questione afferente la provenienza e
l'origine del prodotto.
Il ricorrente affermava, infatti,
che la condotta da egli posta in essere non sarebbe
stata comunque riconducibile all’art. 515 c.p., in
considerazione del fatto che l’indicazione riportata
sull’etichetta non riguardava informazioni essenziali,
delle quali neppure la normativa comunitaria impone
l’inserimento sulle etichette delle confezioni di olio
oliva.
Tuttavia, la Cassazione da conto,
invece, dell’assoluta rilevanza che la provenienza e
l’origine del prodotto assumono ai fini della
configurabilità del reato di frode in commercio.
Si tratta, osserva la Corte, di
dati certamente significativi ai fini del corretto
esercizio delle attività commerciali e che, come avviene
ad esempio con alcuni prodotti alimentari mediante
l'attribuzione dei c.d. marchi di qualità,
contribuiscono in modo determinante alla corretta
identificazione di un prodotto proprio in ragione, tra
l'altro, dell'origine e della provenienza.
La Corte, inoltre, non trascura
neppure l'affidamento che il consumatore può rivolgere
all'indicazione del luogo di produzione e
confezionamento di un prodotto e, di conseguenza, degli
effetti che tali informazioni possano avere sulle scelte
del consumatore.
Tale ragionamento trae origine
dalle disposizioni contenute nell’art. 2 del D.Lgs.
109/1992 in materia di etichettatura degli alimenti.
La norma in parola specifica,
infatti, in modo inequivocabile che la presentazione e
la pubblicità dei prodotti alimentari non devono indurre
in errore l’acquirente sulle caratteristiche del
prodotto, a nulla rilevando l’obbligatorietà o meno
dell’indicazione riportata sull’alimento da
commercializzare posto che, una volta apposta
l’etichetta sulla confezione, questa non può contenere
indicazioni in grado di indurre in errore il consumatore
sull’origine o provenienza della merce.
Alla stregua dei principi
enunciati, si afferma, in definitiva, che il reato di
tentativo di frode in commercio può ben essere integrato
anche dalla “[…]condotta dell’imprenditore che detiene
per la vendita confezioni di olio extravergine di oliva
proveniente da altra azienda con etichettatura
attestante la produzione ed il confezionamento presso il
proprio stabilimento.”
L’approdo cui giunge la Cassazione,
con la pronuncia annotata, si inserisce, tra l’altro,
sulla scia di una recentissima giurisprudenza di
legittimità che ravvisa il tentativo di frode in
commercio nella detenzione, presso un magazzino, di
prodotti finiti dell'impresa di produzione, di prodotti
alimentari con false indicazioni di provenienza,
destinati non al consumatore finale ma ad utilizzatori
commerciali intermedi (Cass. pen., sez. III, 15.2.2011,
n. 22313 in CED Cass. pen. 2011). |