Un uomo si era invaghito d'una
donna che aveva conosciuto quale cliente e, adducendo
d'aver ricevuto un sms sul telefono cellulare, relativo
ad una asserita relazione che la stessa aveva con un di
lei collega sposato, incaricò un investigatore privato
d'indagare sulla vita privata di costei, allo scopo di
ottenere informazioni su chi gli avesse inviato il
messaggio con cui gli si intimava di stare attento,
dopodiché l'uomo informò il superiore gerarchico della
donna che lei aveva tale relazione occulta sul lavoro e,
così, ne avrebbe finito col lederne la reputazione.
È ravvisabile, nelle condotte del
committente e del detective privato che agì su suo
mandato, la scriminante di cui all'art. 24, lett. f),
del D.L.vo n° 196/03?
Va esclusa l'applicabilità,
all'indagine de qua, dell'esclusiva finalità personale
del trattamento effettuato da un soggetto privato ex
art. 5 D.L.vo n° 196/03, se la notizia venne inoltrata
solo ai funzionari dell'ente da cui dipendeva
quell'impiegata oggetto delle sue attenzioni?
Comunicare a qualcuno che altri
"esce con persona sposata" significa trattare dati
sensibili, poiché il concetto implica necessariamente
altrui rapporti sessuali con l'amante?
Tale lettura promana dalla
concezione, che si potrebbe definire pan-sensibilistica
(in relazione alla quale nemmeno Freud avrebbe osato
tanto), secondo cui ogni aspetto della vita di relazione
latu sensu intesa è tout court dato sensibile. Oppure
bisognerebbe accedere ad altra tesi, per la quale la
natura intima d'una relazione uomo-donna non esclude un
rapporto meramente platonico?
Se il consenso al trattamento viene
acquisito dalla persona "bersaglio" col pretesto di
collaborare con l'investigatore, può ritenersi che la
frode ne escluda la liceità?
Quale il significato processuale
del nocumento richiesto dall'art. 167 del D.L.vo n°
196/03 quale condizione obiettiva di punibilità?
A queste, e ad altre importanti
questioni, ha cercato di rispondere la S.C., con la
pronuncia qui sotto riportata.
Essa appare, peraltro, assai poco
condivisibile sotto molti profili: in particolare,
quanto all'eccessiva disinvolta liquidazione delle
finalità difensive sottese all'incarico ad indagare
conferito dal privato all'investigatore privato, non
meno che alla pretesa catalogazione delle altrui
frequentazioni sentimentali nel novero dei dati
personali di natura c.d. supersensibile; così, ancora,
quanto alle finalità personali, che ai sensi dell'art. 5
codice privacy scriminerebbero la comunicazione di dati
personali a soggetti determinati, non meno che
all'equiparazione della ricerca dell'appartenenza della
targa d'una autovettura alla indagine condotta
sull'intestazione di un numero di utenza cellulare (come
se il pubblico registro automobilistico fosse
equiparabile all'elenco delle utenze dei portatili dei
privati). Le soluzioni tracciate dalla Cassazione,
insomma, non convincono affatto.
Corte di Cassazione, Sez. V Penale,
Sentenza 28.09/02.12.2011 n° 44940
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. GRASSI Aldo, Presidente
Dott. SCALERA Vito, Consigliere
Dott. DE BERARDINIS Silvana,
Consigliere
Dott. PALLA Stefano, Consigliere
Dott. FUMO Maurizio, Rel.
Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da: 1) C.C.,
nata il (omissis); 2) R.C., nato il (omissis);
avverso la Sentenza n° 12553/08
della Corte d'Appello di Torino, del 21.05.2010;
visti gli atti, la Sentenza e i
Ricorsi;
udita in pubblica udienza del
28.09.2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott.
Maurizio Fumo;
udito il P.G., in persona del sost.
Proc. Gen° Dott. G. Izzo, il quale ha concluso chiedendo
rigettarsi i Ricorsi;
udito il difensore della P.C., Avv.
S. Comellini, che ha chiesto dichiararsi inammissibili
ovvero rigettarsi i ricorsi e ha depositato nota spese;
uditi i difensori della C.C., Avv. F. Bosco, e del R.C.,
Avv. V. Nizza, che, illustrando i motivi dei Ricorsi, ne
hanno chiesto l'accoglimento, facendo comunque rilevare
la prescrizione dei reati.
Rilevato in fatto
A carico di R.C. e di C.C. furono
formulati i seguenti capi di imputazione:
a) art. 81 cpv., 110, 660 C.P.,
per avere, con più azioni esecutive di medesimo disegno
criminoso, C.C., quale titolare di agenzia
investigativa, su incarico del R.C., disposto controlli
sulla vita privata di K.Y., in tal modo arrecandole
molestia e disturbo;
b) art. 110 C.P., 35, co. 2 e
u.c., in relazione alla L. n° 675/96, 22, per avere la
C.C., tramite personale dipendente, su incarico del
R.C., acquisito e raccolto dati sensibili della vita
privata della K.Y., rilevandone sistematicamente le
attività quotidiane e le frequentazioni, così trattando
anche dati non pertinenti e comunque eccedenti le
finalità e l'oggetto dell'incarico conferito; nonché per
aver acquisto e comunicato dati personali relativi alla
vita privata e alla sfera sessuale della predetta K.Y.,
riguardanti le sue relazioni sentimentali, cagionandole
nocumento, ponendo in essere le condotte di cui al capo
a) e del seguente capo c).
Il solo Ri. anche:
c) del reato di cui all'art. 595
C.P., co. 1 e 2, per avere, agendo sulla base delle
informazioni fornite dalla C.C., comunicando con più
persone, offeso la reputazione della K.Y., in
particolare trasmettendo alla banca (omissis), della
quale la predetta era dipendente, comunicazioni dal
contenuto diffamatorio, con l'aggravante di avere
attribuito un fatto determinato, vale a dire la
sussistenza di una relazione della K.Y. con un collega.
In relazione alla contravvenzione
sub a), il Tribunale di Torino pronunziava sentenza di
n°d.p. per intervenuta oblazione; con riferimento ai
residui reati, C.C. veniva condannata alla pena di anni
1 di reclusione, R.C., ritenuta la continuazione, alla
pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione; a entrambi gli
imputati veniva concesso il beneficio della sospensione
condizionale; entrambi erano poi condannati al
risarcimento dei danni a favore della costituita P.C.,
da liquidarsi in separato giudizio; R.C. veniva
condannato inoltre a corrispondere una provvisionale,
provvisoriamente esecutiva, nella misura di € 10.000,00
di cui € 5.000,00 in via solidale con la C.C.; entrambi,
infine, erano condannati alla rifusione delle spese
sostenute dalla P.C.
La C.d.A. di Torino, con la
Sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia
di primo grado.
Ricorrono per cassazione i
difensori di entrambi gli imputati, deducendo censure,
in gran parte, comuni.
I) Prima censura. Violazione degli
artt. 522-521 C.P.P., per mancata correlazione tra
contestazione e sentenza.
L'imputazione infatti fa
riferimento all'art. 35 in relazione alla L. n°
675/1996, art. 22 (oggi Decreto Legislativo n° 196/2003,
art. 167), mentre in tutta la parte motiva si fa
riferimento agli artt. 23 e 26 codice della privacy, in
relazione al Decreto Legislativo citato, art. 17.
Il Decreto Legislativo citato, art.
17, fa riferimento alla categoria dei dati cc.dd.
semisensibili, mentre la condanna é intervenuta in
ordine all'illecito trattamento dei dati sensibili e non
sensibili.
Nel capo di imputazione, poi, non é
fatta menzione alcuna dell'illecito trattamento dei dati
non sensibili, ma le condanne in 1 e 2 grado attengono
anche all'utilizzo di tal tipo di dati.
Secondo la C.d.A., il fatto storico
é stato descritto in rubrica, ma non é affatto chiaro a
quale tipo di dato (sensibile, semisensibile, personale)
si sia inteso fare riferimento. Né si può chiedere
all'imputato o al suo difensore di "indovinare" quale
sia la fattispecie che si intende contestare. La
violazione del diritto di difesa consegue dalla
incertezza della contestazione.
II) Seconda censura. Violazione del
Decreto Legislativo n° 196/03, artt. 35 e 167 e art. 2
C.P., per erronea applicazione della legge penale quanto
all'identificazione della fattispecie applicabile.
In presenza di successione di leggi
nel tempo, i giudici del merito non hanno in realtà
applicato la legge più favorevole, ma hanno dato vita a
una creatura ibrida, che ha unito parte della vecchia e
parte della nuova legge.
Invero la L. n° 675/96, art. 35,
oltre a essere stato abrogato dal Decreto Legislativo n°
196/03, art. 167, non era strutturato sulle violazioni
degli artt. 23 e 26 del codice privacy, ma su
norme-precetto articolate in forma diversa e
difficilmente sovrapponigli a quelle poi modificate nel
2003. La nuova normativa configura il reato in questione
non più come reato di pericolo, ma come reato di danno.
Ebbene: la norma più favorevole va
individuata solo all'esito della istruttoria
dibattimentale e solo con riferimento al trattamento
sanzionatorio.
III) Terza censura. Violazione del
Decreto Legislativo n° 196/03, art. 5, in relazione
all'applicazione del codice della privacy.
É stato erroneamente ritenuto che
non fosse applicabile il predetto articolo con
riferimento al requisito della sistematicità della
comunicazione, ovvero alla diffusione dei dati.
R.C. si é limitato a notiziare
alcuni funzionari di banca circa le attività, le
frequentazioni e le modalità di comportamento della K.Y.
Manca il requisito della
sistematicità, perché esso si avvera quando la
comunicazione avviene tramite call center, catene di
sms, mailing list; manca quello della diffusione, ciò in
quanto diffondere vuol dire divulgare, cioé dirigere
un'informazione a un numero illimitato di persone.
La C.d.A., inoltre, sembra non
tener conto del concetto di "fine personale" esplicitato
dall'art. 5 del predetto Decreto Legislativo.
Con esso s'intende il
soddisfacimento di una esigenza di natura strettamente
privata.
R.C. ha affidato un incarico a
un'investigatrice privata, allo scopo di avere
informazioni su chi avesse inviato un messaggio
minaccioso sul suo telefono cellulare.
L'imputato dunque non aveva scopi
commerciali, né professionali, né collettivi o pubblici.
IV) Quarta censura. Violazione del
Decreto Legislativo n° 196/03, artt. 4, 26, 167, co. 2,
per erronea applicazione della legge penale e manifesta
illogicità della motivazione quanto alla qualificazione
dei dati trattati quali dati sensibili.
Per i giudici del merito "avere una
relazione con un uomo sposato" é sinonimo di avere
rapporti sessuali con il predetto.
L'interpretazione é arbitraria in
quanto riduttiva.
La C.d.A. crede di rafforzare tale
opinione ricordando che una dipendente della C.C. ebbe a
definire la persona con la quale la K.Y. aveva contatti
come "amante" di costei, dimenticando che questa era
l'opinione della predetta dipendente e non un dato
obiettivo e indiscutibile.
Peraltro, il codice della privacy
si prefigge lo scopo di tutelare quei dati personali
quali le convinzioni politiche, religiose, filosofiche i
gusti sessuali, anche nei suoi aspetti patologici
(pedofilia, sadomasochismo et similia).
V) Quinta censura. Violazione del
Decreto Legislativo n° 196/03, artt. 23, 24, 167, per
manifesta illogicità della motivazione ed erronea
applicazione della legge penale, quanto alla ritenuta
mancanza di consenso, in realtà validamente prestato da
parte della K.Y. al trattamento di dati personali.
Invero la K.Y. aveva prestato
consenso al trattamento dei dati, avendo ella accettato
di collaborare con l'agenzia investigativa, in relazione
alle minacce che "poteri forti e occulti", operanti
presumibilmente all'interno dell'istituto di credito nel
quale ella prestava servizio avevano indirizzato al R.C.
I giudici del merito sostengono che
detto consenso era stato estorto con l'inganno e che poi
era stato revocato.
In realtà, per quel che riguarda
R.C., va detto che lo stesso non ha avuto contatti con
la K.Y. e che quindi le modalità in cui si é svolta
"l'intervista" riguardano solo il personale che a ciò ha
effettivamente proceduto.
I dati, per altro, forniti dalla
K.Y. certamente non possono dirsi sensibili (numero di
targa della sua autovettura, ecc.).
VI) Sesta censura. Violazione dei
medesimi articoli e dell'autorizzazione generale del
Garante n° 6/2002, con conseguente erronea applicazione
della legge penale, quanto al trattamento dei dati
(personali o sensibili) da parte dell'investigatore
privato.
Va ritenuta la piena validità della
predetta autorizzazione, cioè la possibilità per gli
investigatori privati di prescindere lecitamente dal
consenso dell'avente diritto nel trattare dati
personali, anche sensibili.
C.C. fu incaricata per iscritto da
R.C. di effettuare determinati accertamenti.
R.C. si risolse a tanto avendo
subito minacce via sms.
Peraltro, la C.d.A. sembra far
confusione tra la pretesa violazione di tale
autorizzazione e la condotta descritta dall'art. 167 del
Decreto Legislativo più volte indicato, mentre in realtà
le due fattispecie non sono sovrapponibili.
I dati sono stati trattati
esclusivamente a fini d'indagine e solo per periodo di
tempo limitato.
É poi evidente che i dati trattati
dalla C.C. non sono sensibili, ma semplici dati
personali.
É dunque irrilevante la pretesa
mancata ottemperanza alla prescrizioni della
autorizzazione n° 6/2002 e occorre considerare che
l'art. 167 non prevede alcun reato per il trattamento di
dati personali in violazione del Decreto Legislativo n°
196/03, art. 24, lett. f).
VII) Settima censura (relativa al
solo R.C.). Violazione dell'art. 110 C.P. e Decreto
Legislativo n° 196/03, art. 167, per erronea
applicazione della legge penale e manifesta illogicità
della motivazione, per quanto ritenuto contributo
concorsuale nel reato ascritto alla titolare della
struttura investigativa.
R.C. si limitò a conferire
l'incarico alla C.C., che gestì professionalmente il
rapporto.
Secondo i giudici di merito, il
R.C. sarebbe stato il vero dominus dell'indagine, ma ciò
non ha fondamento né in fatto, né in diritto, atteso che
l'art. 170 codice della privacy indica il responsabile
della condotta addebitata agli imputati, come persona
rivestente una posizione di garanzia, posizione alla
quale il R.C., in quanto semplice committente, é
estraneo.
La C.d.A., travisando i fatti,
ritiene che il R.C. avrebbe ammesso di aver dato "carta
bianca" alla C.C., ma l'assunto é privo di fondamento,
in quanto risulta ex actis che a R.C. interessava solo
il risultato della indagine, non certo le modalità.
VIII) Ottava censura. Violazione
del Decreto Legislativo n° 196/03, art. 167, per erronea
interpretazione della legge penale in ordine alla
sussistenza della condizione obiettiva di punibilità del
nocumento.
La questione é già stata sollevata
nei precedenti gradi di giudizio.
Trattasi di condizione obiettiva di
punibilità per entrambe le condotte previste dal Decreto
Legislativo del 2003, art. 167.
Ciò ha trasformato la fattispecie
in reato di danno e non (più) di mero pericolo.
É dunque indispensabile che il
nocumento risulti provato a contestato nel corso del
dibattimento.
Tale non é il caso di specie, in
quanto esso é contestato per la contravvenzione del capo
a), che é stata oblata, e per il delitto del capo c),
vale a dire per la diffamazione, con la conseguenza che
non può ritenersi che esso sia derivato dalla condotta
di cui al capo b).
Per quanto specificamente riguarda
la C.C., si fa rilevare che la stessa non é stata
chiamata a rispondere del delitto di diffamazione e,
quindi, del relativo nocumento.
Invero il nocumento ex art. 167 del
ricordato Decreto Legislativo non va confuso con il
risultato dannoso delle molestie o con il sentimento di
offesa provato dalla K.Y. in seguito ai reclami scritti
del R.C., indirizzati ai vertici dell'agenzia bancaria.
IX) Nona censura (relativa al solo
R.C.). Violazione degli artt. 595 e 51 C.P. per
insussistenza dell'elemento materiale del delitto di
diffamazione e per mancata applicazione della
scriminante del diritto di critica.
Manca innanzitutto il requisito
della comunicazione con più persone, atteso che le
lettere sono state inviate al superiore gerarchico della
K.Y.
In ogni caso, furono utilizzate
espressioni continenti e certo non volgari.
Infine, va riconosciuto al R.C.
l'esercizio del diritto di apprezzamenti sulla qualità
del servizio e sulla condotta degli impiegati della
banca della quale egli é cliente.
X) Decima censura (relativa alla
C.C.). Violazione di legge in ordine al trattamento
sanzionatorio.
É stato operato giudizio di
equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la
aggravante di cui al ricordato art. 35, ma i giudici del
merito hanno ritenuto che concorressero entrambe le
fattispecie circa l'illecito trattamento dei dati
(personali e sensibili).
Ebbene, nulla é detto circa la pena
applicata in concreto alle due distinte ipotesi.
Né é chiarito se le stesse debbano
essere considerate in continuazione tra loro, mancando
ogni precisazione e motivazione in merito all'eventuale
aumento ex art. 81 cpv. C.P.
Il che costituisce ulteriore prova
che in sentenza é stato ritenuto un fatto diverso da
quello contestato.
In ogni caso, non é stata tenuto
nel debito conto la condotta processuale della C.C.,
ispirata alla massima collaborazione.
Ella dunque sarebbe, comunque,
stata meritevole di un più moderato trattamento
sanzionatorio.
Considerato in diritto
I) La prima censura, meramente
iterativa di quella proposta alla C.d.A. e motivatamente
respinta, é inammissibile per manifesta infondatezza.
Invero, la violazione del principio
di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto
in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato
si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di
eterogeneità o d'incompatibilità sostanziale.
Infatti, le previsioni di cui agli
artt. 521 e 522 C.P.P., hanno lo scopo di garantire il
contraddittorio sul contenuto dell'accusa e, quindi,
l'esercizio effettivo del diritto di difesa
dell'imputato, con la conseguenza che non é possibile
ipotizzarne una violazione in astratto, prescindendo
dalla natura dell'addebito specificamente formulato
nell'imputazione e dalle possibilità di difesa che
all'imputato sono state concretamente offerte dal reale
sviluppo della dialettica processuale.
Nel caso in esame, il riferimento
agli articoli di legge é parzialmente errato, ma la
condotta addebitata agli imputati al capo b) é
puntualmente descritta nelle sue scansioni logiche e
temporali:
1) avere il R.C. incaricato la C.C.
di svolgere investigazioni sulla vita privata della
K.Y.,
2) avere la C.C. - anche tramite
suoi dipendenti - acquisito dati, sensibili e non
sensibili, relativi alla vita privata della K.Y.,
3) avere gli imputati acquisito e
comunicato a terzi dati personali e dati relativi alla
sfera sessuale della K.Y. (e dunque, ancora, dati
sensibili) e dati relativi alla sua vita sentimentale,
4) avere, in tal modo, e,
commettendo i reati di cui agli altri capi a) e c),
recato nocumento alla K.Y.
Su tali - precisi - dati fattuali i
due imputati sono stati chiamati a difendersi.
Non vi era, dunque, nulla da
"indovinare", bastava leggere, con la dovuta attenzione
il capo di imputazione.
D'altra parte, i ricorrenti hanno
semplicemente enunziato la lesione del diritto di
difesa, ma poi, non hanno chiarito come essa si sarebbe
realizzata attraverso un'effettiva menomazione del suo
esercizio nell'ambito di una piena e completa
contrapposizione processuale.
Insomma, non si può certo sostenere
che i fatti enunziati in imputazione e ritenuti, poi in
Sentenza, si pongano in rapporto di eterogeneità, atteso
che i fatti addebitati in imputazione, pur con erroneo
riferimento agli articoli di legge, sono gli stessi
ritenuti in Sentenza.
II) La seconda censura é infondata.
Ha correttamente ritenuto la C.d.A.
che tra la norma incriminatrice della L. n° 675/96 e
quella del Decreto Legislativo n° 196/03 vi sia (vi
possa essere) continuità normativa.
Entrambe prevedono la presenza del
nocumento della P.O., ma, come é già stato osservato da
questa Corte, mentre il reato di pericolo presunto, di
cui al previgente L. n° 675/96, art. 35, lo prevedeva
come circostanza aggravante per la persona alla quale i
dati illecitamente trattati si riferiscono, il Decreto
Legislativo n° 196/03, art. 167, ha tipizzato il citato
nocumento, da intendersi, sia riferito al soggetto
stesso, che al suo patrimonio, come condizione obiettiva
di punibilità (introducendo anche un dolo specifico di
danno).
Peraltro, é noto (cfr. Cass. pen.,
Sez. Un., Sent. n° 25887 del 2003) che, in tema di
successione di leggi penali, perché sia applicabile la
regola dell'art. 2 C.P., co. 3, occorre che il fatto
costituente reato secondo la legge precedente sia
tuttora punibile secondo la nuova legge (ovviamente non
sono più punibili i fatti commessi in precedenza e
rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie).
Tale situazione va verificata in
base al criterio di coincidenza strutturale tra le
fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo.
Orbene, la condotta degli imputati,
come descritta nel capo di imputazione, era punibile
sotto il vigore della L. del 1996 ed é punibile sotto il
vigore di quella del 2003. A R.C. e C.C. é contestato di
aver arrecato, con la loro condotta, nocumento alla P.O.
È di tutta evidenza che il fatto
che il nocumento fosse previsto come circostanza
aggravante nella normativa previgente ed é previsto,
viceversa, come condizione obiettiva di punibilità in
quella attuale non può aver rilievo.
Ciò che ha rilievo, come appena
chiarito, é che il fatto (condotta più elemento
psicologico) costituente reato prima, sia considerato
(dal legislatore, ovviamente) reato anche dopo. E tale é
il caso in esame.
Tanto premesso, é corretta la
opinione dei giudici di merito, in base alla quale la
legge precedente deve ritenersi più favorevole agli
imputati, atteso che una circostanza aggravante può
essere oggetto del giudizio di bilanciamento ex art. 69
C.P., mentre tale trattamento non può mai essere
riservato a una condizione obiettiva di punibilità.
L'individuazione e la "scelta"
della legge più favorevole va evidentemente fatta con
riferimento al trattamento sanzionatorio (globalmente
inteso, naturalmente).
D'altronde, se così non fosse, e si
dovesse condividere il punto di vista dei ricorrenti,
posto che la condotta addebitata ai due imputati
costituirebbe comunque reato, se si dovesse applicare
quoad poenam la nuova normativa, si giungerebbe alla
paradossale conclusione che essi hanno impugnato tale
capo della sentenza per avere un trattamento
sanzionatorio più severo.
Il fatto poi che il nocumento sia
stato contestato, per così dire, per relationem ai due
imputati (ottava censura) non può avere rilievo alcuno.
É di tutta evidenza che le condotte
dei capi a) e b) si pongono (si porrebbero) tra loro in
rapporto di concorso formale.
La violazione della privacy di K.Y.
é avvenuta anche con le modalità di cui al capo a).
É vero che la contravvenzione ex
art. 660 C.P. é stata oblata, ma l'oblazione non
cancella il fatto storico.
L'ipotesi di accusa voleva che R.C.
e C.C. avessero posto in essere il delitto del capo b),
anche mediante la condotta del capo a).
E i giudici del merito hanno
condiviso tale impostazione.
Non si tratta insomma, come
pretendono i ricorrenti, di confondere il nocumento con
il risultato dannoso delle molestie, atteso che avere
abusivamente esercitato controlli sulla K.Y., averle
carpito informazioni sulla sua vita privata (con
riferimento, come si vedrà, anche a sfere
particolarmente riservate), aver diffuso presso terzi
tali notizie costituisce, inevitabilmente, nocumento.
É di tutta evidenza, invero, che il
concetto di nocumento é ben più ampio di quello di
danno, volendo esso abbracciare qualsiasi effetto
pregiudizievole che possa conseguire all'arbitraria
condotta invasiva altrui.
Nel richiedere - appunto quale
condizione obiettiva di punibilità - il nocumento, la
legge vuole escludere dalla sfera del penalmente
rilevante quelle condotte, pure intrusive, che tuttavia
siano rimaste del tutto irrilevanti nelle loro
conseguenze.
É dunque evidente che la condotta
sub c) riguardi il solo R.C. (tale é la contestazione),
ma é altrettanto evidente che essa é, quanto alle
conseguenze, relativa al danno da lesione della
reputazione.
La condotta sub a) e b), viceversa,
riguarda entrambi i ricorrenti.
III) La terza censura é
manifestamente infondata.
Costituisce opinione personalissima
dei ricorrenti (che evidentemente confondono
"sistematico" con "automatico" o con "telematico")
quella in base alla quale la comunicazione sistematica
di dati é solo quella che si svolge con l'utilizzo di
macchine e attrezzature o comunque attraverso la "rete".
L'assunto é per altro
normativamente smentito, atteso che l'art. 4, co. 1,
lett. l) del vigente D.L.vo sulla privacy fornisce il
concetto di comunicazione (esplicitata come dare
conoscenza dei dati a uno o più soggetti determinati
diversi dall'interessato), laddove al co. 2, lett. a),
fornisce il preciso concetto di comunicazione
elettronica ("ogni informazione scambiata o trasmessa
tra un numero finito di soggetti, tramite un servizio di
comunicazione elettronica accessibile al pubblico, ecc).
Invero, nella comune accezione,
"sistematico" sta a significare "metodico", "reiterato",
"organizzato".
Per altro, é stato ritenuto che il
trattamento dei dati personali, effettuato da un
soggetto privato per fini esclusivamente personali é
soggetto alle disposizioni della normativa sulla
privacy, tanto se i dati siano destinati ad una
comunicazione sistematica, quanto se siano destinati
alla diffusione.
E, in tal caso, é necessario il
consenso dell'interessato.
IV) Ancora manifestamente infondata
é la quarta censura.
Sostenere che l'espressione
(riferita a una donna) "avere una relazione con un uomo
sposato" non implichi un coinvolgimento di natura
sessuale é, considerato l'uso corrente della
espressione, addirittura paradossale, ai limiti della
provocazione.
I giudici del merito desumono la
natura intima della relazione tra la P.O. e un suo
collega di lavoro, non solo dalla accezione che -
correntemente e pacificamente - tutti ne fanno, ma anche
dal fatto che la moglie "dell'uomo sposato", venuta a
conoscenza della "relazione" tra il coniuge e la K.Y.,
minacciò azioni ritorsive, non escludendo la possibilità
di informare della situazione i superiori gerarchici
della K.Y. e ancora dal fatto che l'amante della P.O.
(così esplicitamente qualificato da una collaboratrice
della C.C. che aveva avuto contatto diretto con la K.Y.)
si mostrò, quantomeno, contrariato dalla diffusione
della notizia.
Difficilmente, argomenta la C.d.A.,
simili reazioni avrebbero potuto esser scatenate dalla
scoperta di un legame platonico.
E che poi oggetto di tutela non
siano solo i gusti sessuali di un individuo
(astrattamente e genericamente considerati), ma, anche,
le concrete scelte che, in questo campo, il soggetto va
ad operare, é chiaramente evincibile dalla stessa
lettera del citato art. 4, laddove (co. 1, lett. d))
definisce i dati sensibili con riferimento ai dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale (non semplicemente le tendenze o le aspirazioni
in tale campo).
V) La quinta censura é
inammissibile in quanto articolata in fatto.
La C.d.A. ha motivatamente chiarito
perché ebbe a ritenere che il consenso alla K.Y. fosse
stato carpito con modalità ingannevoli e come le
attività "investigative" siano proseguite nonostante la
predetta, resasi conto di quanto stava accedendo, si
fosse, a un certo punto, rifiutata di offrire la sua
collaborazione.
I ricorrenti altro non fanno che
contestare, frontalmente, ma sterilmente, tale
ricostruzione in fatto.
Per quanto specificamente riguarda
la posizione del R.C., la Corte torinese ha chiarito per
qual motivo lo stesso é da ritenersi concorrente nella
illecita attività investigativa predisposta e fatta
porre in essere dalla C.C.
I giudici di secondo grado hanno
ricordato che R.C., quale cliente della agenzia
investigativa, chiese di raggiungere i risultati a ogni
costo, non interessandogli i metodi, ma solo il
risultato.
E che questa non fosse una mera
affermazione di principio, del tutto slegata dalla
condotta in concreto tenuta, la C.d.A. lo desume dal
fatto che gli sviluppi della "indagine" venivano
capillarmente seguiti dal committente, che interveniva
con prescrizioni, indicazioni e suggerimenti.
Va poi chiarito che i dati carpiti
alla K.Y. ben possono ritenersi "dati personali" (quelli
sensibili furono acquisti con altra metodologia), tale
essendo, ad es., anche il numero di targa del suo
veicolo, a nulla rilevando che esso sia visibile a tutti
quando l'auto circola per la strada.
Ciò che rileva, ovviamente non é il
numero in sé, ma il suo abbinamento a una persona.
Del resto, in tal senso si é
orientata la giurisprudenza di questa Corte, ad es. con
riferimento al numero della utenza cellulare di un
soggetto.
Anche in questo caso, per altro,
soccorre, la stessa lettera della legge (art. 4, co. 1,
lett. b)) che qualifica "dato personale" qualunque
informazione relativa a una persona (fisica, giuridica
ecc.), identificata o identificabile, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra
informazione, ivi compreso un numero di identificazione
personale.
VI) La sesta censura é
inammissibile perché, in parte articolata in fatto, in
parte manifestamente infondata.
La C.d.A. ha motivatamente
illustrato la natura pretestuosa della "giustificazione"
in base alla quale R.C. conferì e C.C. sviluppò
l'attività di indagine che si concretizzò esclusivamente
in un controllo della vita privata della K.Y.
Si legge in Sentenza che il R.C.
ricevette sul suo cellulare un sms dal seguente tenore
"é inutile che perdi tempo dietro alla K.Y. perché lei
esce con un suo collega sposato. Stai attento”.
Sentendosi minacciato dai "poteri
forti e occulti", che - a suo dire - operavano
all'interno dell'istituto bancario nel quale la K.Y. era
impiegata e nel quale egli era cliente, il predetto R.C.
si rivolse alla C.C., titolare dell'agenzia di
investigazioni (omissis), perché accertasse l'identità
dell'autore del messaggio.
Il modulo che R.C. sottoscrisse
(cfr. Sentenza pag. 6), contenente l'incarico
all'agenzia, recava come causale dell'incarico la
generica dicitura "servizi di sicurezza per
molestie-persona da identificare con riferimento
all'intenzione di "far valere a difendere un diritto in
sede giudiziaria", con riferimento evidente all'art. 24,
lett. f) del Decreto Legislativo sulla privacy, che
prevede uno dei casi in cui il consenso
dell'interessato, per la raccolta dei suoi dati, non é
necessario.
I Giudici di appello, al proposito,
hanno evidenziato:
1) che il R.C. aveva, in passato e
senza successo, corteggiato la K.Y.,
2) che lo stesso, nei confronti
della ragazza, aveva tenuto un atteggiamento oscillante
tra il rimprovero per presunte manchevolezze sul lavoro
(non sollecita esecuzione di fotocopiatura di assegni
che egli, quale cliente, richiedeva) e le reiterate
avance (inviti a cena, ecc.) che formulava,
3) che tutta l'attività di indagine
della (omissis) Investigazioni si era concentrata sulla
vita privata della K.Y., con particolare riferimento
alla sua relazione con un collega sposato,
4) che nessun accertamento tecnico
era stato condotto per risalire all'apparecchio che
aveva inviato il messaggio "minaccioso",
5) che la querela che il R.C. aveva
presentato alla Procura della Repubblica con riferimento
al predetto messaggio "minaccioso" era stata archiviata
in assenza di qualsiasi opposizione del querelante. Da
ciò la Corte territoriale é giunta, non certo
illogicamente, alla conclusione che ciò che realmente
interessava al R.C. era controllare la vita privata
dalla K.Y., utilizzando il messaggio sul cellulare quale
pretesto per incaricare un'agenzia di investigazioni.
E a tale conclusione la C.d.A.
perviene anche sulla base del successivo comportamento
dell'uomo, che utilizzò le informazioni ottenute per
danneggiare la reputazione della K.Y. nel suo ambiente
di lavoro, senza che ciò potesse svolgere alcun ruolo
funzionale nella scoperta (e neutralizzazione) dei
"poteri forti e occulti" dai quali l'imputato si sentiva
(o diceva di essere) perseguitato.
Dalla natura riconoscibilmente
pretestuosa (con aspetti addirittura paradossali, cfr.
il riferimento, appunto, ai poteri occulti che si
sarebbero accaniti contro un quisque de populo, ecc.)
della richiesta avanzata alla C.C., la C.d.A. trae la
conclusione che non ricorreva la ipotesi di cui all'art.
24, lett. f) (casi nei quali il consenso
dell'interessato non é necessario).
Trattandosi, come premesso, sia di
dati personali che di dati sensibili, ricorrono le
ipotesi ex art. 167 D.L.vo n° 196/03, mentre rimane del
tutto assorbita la questione della eventuale violazione
della autorizzazione del Garante n° 6/2002.
VII) La settima censura é
inammissibile, perché articolata in fatto.
Circa il concorso del R.C.
nell'illecita attività della C.C. si é già detto supra a
proposito della quinta censura.
VIII) Della ottava censura si é già
trattato a proposito della seconda.
IX) La nona censura é
manifestamente infondata.
Quanto all'elemento materiale del
delitto di diffamazione, non é dubbio che la diffusione
- all'interno del ristretto ambito lavorativo - della
notizia della esistenza di una relazione, sentimentale e
sessuale, clandestina tra due impiegati può avere natura
diffamatoria, specie se uno dei due é sposato.
É pur vero che la condotta
adulterina fu, nel caso di specie, addebitata, non alla
K.Y., ma al suo amante (l'unico che fosse coniugato), ma
é altrettanto vero, che la riprovazione sociale (anche
se, spesso, materiata da una non trascurabile dose di
ipocrisia) colpisce, solitamente, in casi del genere,
entrambi i partner; d'altronde, anche in assenza di
valutazioni "morali" da parte di terzi, fatti del genere
sono oggetto di malevolo pettegolezzo.
In ogni caso, il fatto che la K.Y.
abbia voluto mantenere segreta la relazione con il
collega costituisce controprova del fatto che entrambi
si sarebbero ritenuti danneggiati (anche sul piano della
reputazione) dalla diffusione della notizia.
E che la notizia sia stata,
appunto, diffusa, non é dubitabile, atteso che il
destinatario della lettera (il direttore della filiale)
non poteva, né doveva, tenere per sé l'informazione,
che, essendo relativa a una impiegata per una sua
presunta scorrettezza comportamentale, doveva
necessariamente essere portata a conoscenza dei
competenti organi aziendali.
Quanto alla pretesa sussistenza
della scriminante del diritto di critica, é appena il
caso di notare che manca del tutto il requisito della
rilevanza sociale delle notizie che il R.C. si era
premurato di diffondere all'interno dell'ambiente di
lavoro della K.Y.
Che la stessa avesse (o avesse
avuto) una relazione con un collega (sposato), che
portasse minigonne vistose o vestisse in modo, secondo
il R.C., non appropriato, non si vede in che maniera
potesse riguardare, non si vuoi dire la salus rei
publicae, ma nemmeno il rendimento professionale della
donna.
Come cliente, il R.C. avrebbe
potuto lamentarsi delle (vere o pretese) defaillance
professionali della impiegata, se esse lo avessero
danneggiato, ma non si vede quale rilievo possano avere
avuto, per il R.C. e per la ristretta comunità dei
colleghi della K.Y., le sue vicende personali,
sentimentali e sessuali.
Il fatto che il R.C. fosse cliente
della banca non lo autorizzava certo a ritenere che gli
impiegati dell'istituto di credito fossero suoi
dipendenti, né - tanto meno - lo investiva di alcuna
delega disciplinare.
X) La decima cesura é
inammissibile, nella parte in cui rileva la omessa
applicazione della continuazione tra la prima e la
seconda ipotesi dell'art. 167 D.L.vo n° 196/03, per
mancanza di interesse; nella parte in cui lamenta
l'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio é
generica, in quanto non tiene in alcun conto le diffuse
argomentazioni sviluppate in merito dalla C.d.A. nella
parte finale della Sentenza impugnata.
Invero, non infondatamente i
Giudici di secondo grado ritengono la estrema gravità
dei fatti accertati, fatti che, si osserva, se fossero
stati commessi dopo la entra in vigore della L. n°
11/2009, avrebbero integrato il ben più grave reato di
cui all'art. 612-bis C.P. (c.d. stalking).
La prescrizione non é maturata,
atteso che le sospensioni intervenute nel corso
dell'iter processuale, la hanno "spostata" al
05.10.2011.
Conclusivamente, i Ricorsi meritano
rigetto e i ricorrenti vanno singolarmente condannati al
pagamento delle spese processuali.
Gli stessi vanno anche condannati
solidalmente al ristoro delle spese sostenute in questo
grado di giudizio dalla P.C., che si liquidano come da
dispositivo.
Deve farsi luogo al c.d.
"oscuramento" dei dati in quanto previsto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta i Ricorsi e condanna i
ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese
processuali e, in solido, alla rifusione alla Parte
Civile delle spese sostenute in questo grado di
giudizio, che liquida in compressivi € 2.835,00 oltre
accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 28
settembre 2011.
Depositato in cancelleria il 02
dicembre 2011 |