Carmelo MICELI
Palazzo Spada ravviva la tematica di diritto iniziata
dalle aperture copernicane dei giudici di Torino del
’99: tutti si accorsero subito che non si trattava di
isolati missionari, né di ideologia giuridica alla
moda!
Prosegue a ritmo incessante l’ attività di
ricostruzione della fattispecie del mobbing ad opera
della giurisprudenza, al fine di scongelare i caratteri
dell’ identità dell’ emarginazione professionale, chiave
di accesso alla giustizia civile, sensibile da tempo a
pregiudizi diversi dalla compromissione del reddito.
Il quadro complessivo si presenta invero piuttosto
nebuloso, specie nei suoi rintocchi amministrativi, in
un nuovo e “tormentato capitolo della tutela
risarcitoria del danno alla persona”. L’ idée directrice
sarebbe quella di rafforzare le maglie dell’
armamentario di tutela predisposto dall’ ordinamento,
evitando che fra di esse scivoli indifferentemente la
personalità da lavoro: saltare cent’ anni in un giorno
solo!
La giurisprudenza ha ricondotto le
concrete fattispecie di cui trattasi nella versione
dell’ articolo 2087 c.c. che contiene il precetto
secondo cui “l’ imprenditore è tenuto ad adottare.. le
misure…necessarie a tutelare l’ integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”. La
scoperta del mobbing, e ancora prima, la riedizione del
citato 2087, diluito nel pubblico impiego, hanno aperto
inediti scenari verso una più completa tutela del
lavoratore, dischiudendo nuovi orizzonti nella
protezione esistenziale dei dipendenti pubblici. Eppure,
non può non rilevarsi come tale norma debba essere
oggetto di adeguati assestamenti rispetto agli enti
pubblici in generale che non sono qualificabili nè come
imprenditori, né come imprese, essendo mossi da finalità
a carattere istituzionale e non di mercato.
Particolarmente interessante, in questa sede, è il
richiamo al concetto di organizzazione, riferito non
solo al datore di lavoro privato ma anche a quello
pubblico, evocandosi così un termine più volte
ricorrente nel d.lgs. 165/2001. In breve il concetto di
organizzazione travalica i confini dell’ art. 2082 c.c.
per connotare qualsiasi entità in cui si svolga lavoro
umano e venga quindi in gioco il bisogno di tutela della
salute dei lavoratori. Esemplare, al riguardo, la
cornice definitoria disegnata dal Consesso di giustizia
amministrativa: “Il mobbing rappresenta la somma di
comportamenti direttamente connessi all’organizzazione
del lavoro, oscillanti dall’eccessivo carico di lavoro
ai soprusi del superiore e che quindi sembrano gravitare
su più aspetti organizzativi che su specifiche, singole
situazioni tranquillizzanti” (Cons. Stato, Ordinanza n.
6311/2000). Nel solco del pubblico impiego, la
burocrazia, per dirla con Agrifoglio, si assesta con
particolari e ben precise caratteristiche: la gerarchia
degli uffici e il loro disporsi a struttura piramidale,
la separazione, quanto ai poteri esercitati, tra ufficio
e funzionario (il burocrate lascia il potere in
ufficio), la selezione e la stessa assunzione del
personale sulla base di qualificazioni tecniche,
accertate attraverso procedimenti concorsuali (si
spera!), l’ impiego che diviene carriera, professione,
sia perché viene ad assorbire, quasi, l’ intera vita del
pubblico dipendente, sia perché rappresenta la sua
essenziale fonte di sostentamento.
Accade allora che, forte del proprio vigore weberiano,
per così dire, il pubblico dipendente ebbe ben presto a
sviluppare una concezione che fu esattamente definita
“proprietaria” del proprio posto di lavoro (Sanviti). A
ciò fa da contraltare il fatto, lumeggiato in dottrina,
che nel pubblico impiego si è soliti adornare con solide
motivazioni gli atti peggiori, sì da dare ad essi una
parvenza di legittimità. A meno di non avere a che fare
con degli sprovveduti, infatti, “gli atti con i quali il
datore di lavoro pubblico dispone, un trasferimento, un
mutamento di mansioni, si troveranno redatti in modo
tale da far emergere sempre una esigenza organizzativa
che ha reso necessario quel trasferimento o mutamento di
mansioni”. Invero, la forza dell’ art. 97 Cost. sta
nelle finalità di buon andamento e imparzialità dell’
amministrazione: dal tenore dell’ art. 2 del D. Lgs.
165/01, quest’ ultimi, coniugate nel perseguimento dell’
interesse pubblico, assurgono a causa del contratto del
lavoro pubblico, nonchè quali elementi che, integrano l’
esportazione del contenuto degli artt. 1175 e 1375 c.c.
del codice civile. In altri termini, gli artt 97 e 98
della Carta Fondamentale, costituiscono la giusta
misura, il grimaldello, per valutare la correttezza (non
solo degli atti organizzativi, ma anche) delle
determinazioni inerenti alla gestione dei rapporti,
adottate con la capacità e i poteri del privato datore
di lavoro.
È solo, allora, una questione di etichette oppure di
sostanza? Il concetto di mobbing non si esaurisce in una
comodità lessicale (come pure era stato ritenuto da
qualche giudicante nelle sue prime esplorazioni della
fattispecie), ma contiene un valore aggiunto perché
consente di arrivare a qualificare come tale ed a
sanzionare anche quel complesso di situazioni che,
valutate singolarmente, potevano anche non contenere
elementi di illiceità ma che, considerate unitariamente
e in un contesto appunto “mobbizzante”, assumono un
particolare valore molesto e una finalità persecutoria
che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il
quadro d’ insieme che il mobbing consente di valutare
(Trib. di Forlì, sent. del 28 gennaio 2005). Il termine
de quo ha dimostrato di possedere una formidabile
capacità evocativa relativamente ad un’ esigenza diffusa
di attenzione e di riconoscimento di situazioni di
disagio, malessere, sofferenza, variamente createsi all’
interno degli ambienti di lavoro. Come sottolineato da
taluni, il contesto generale di “grida al lupo”, nel
quale il concetto in esame risulta inflazionato e troppo
spesso abusato, certo non aiuta ma questo non deve fare
perdere all’ interprete la capacità critica di
individuare le caratteristiche tipiche del fenomeno in
oggetto, fatto tanto di conflittualità evidente e quasi
“rumorosa”, quanto di conflittualità sottile, ma non per
questo meno pesante da sopportare per la vittima. Si
tratta principalmente di verificare quel legal framework
che racchiude una serie di condotte entro un unico
quadro giuridicamente rilevante, al fine di offrire l’
agognato ombrello protettivo al pubblico dipendente. Si
badi bene, però, che il percorso di giuridica
esplorazione è lungi dall’ essere completato, come ci
ricorda in questo inizio d’ estate il Consiglio di
Stato: ci troviamo, per vero, ancora nel pieno del
guado! Ciò obbliga ancora l’ interprete ad addentrarsi
in un terreno alquanto accidentato. Su questa linea si
schiera la sentenza in commento, che, nella sua
razionalità di ulissiana memoria, non cede al canto
delle sirene del danno biologico. La vicenda vagliata
dai giudicanti, attiene a un pubblico dipendente che
impugnava l’ordine con il quale era stato assegnato ad
un ufficio di nuova istituzione, sostenendo che tale
assegnazione funzionale, unitamente ad un ulteriore
complesso di atti e condotte assunti dal datore di
lavoro, ne avrebbero determinato una progressiva
marginalizzazione ed un connesso demansionamento, da
inquadrarsi in un contesto di condotte riconducibili
nella fattispecie del mobbing. In punto di diritto, si
evidenzia, sulla base di una ormai robusta tradizione
esegetica, che ai fini della configurabilità della
condotta lesiva posta in essere dal datore di lavoro
sono rilevanti: la molteplicità e globalità di
comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche
di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un
disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute
psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e la
lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la
prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio. “Ne consegue che la ricorrenza di
un'ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante
volte la valutazione complessiva dell'insieme di
circostanze addotte (ed accertate nella loro
materialità), non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed
unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti
del singolo sul luogo di lavoro”. L’ anelito
risarcitorio del pubblico dipendente è stato, nel caso
specifico, sonoramente bocciato dai Giudici di palazzo
Spada. E tuttavia permane nell’ interprete un vago senso
di rammarico, ove si consideri la lentezza organica del
legislatore nazionale (non sottaciuta nel testo della
decisione) rispetto ad un fenomeno che ormai è divenuto
una sorta di fantasma che si aggira per le aule
giudiziarie (Carinci). Come desumibile indirettamente
dalla sentenza della Consulta n. 359/03, giova
sottolineare, che proprio la rilevanza da attribuire al
complessivo disegno persecutorio dovrebbe consentire di
arginare il rischio, indubbiamente grave, di una
dilatazione eccessiva della fattispecie, spesso
paventato della dottrina. Ricordiamo le osservazioni di
Del Punta: “non si può evidentemente pensare che
qualsiasi screzio, o inurbanità, o scortesia, vengano
attratte nell’ imbuto cieco di un’ ipertrofia delle
tutele risarcitorie. È opportuno riservare la
valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di
patologia dell’ organizzazione, e questo richiede
indagini delicate e complesse, rispetto alle quali il
suggerimento empirico di focalizzarsi sulle condotte
frequenti e ripetitive conserva indubbiamente un’
utilità”.
Un arretramento di tutela? No cari lettori! La tutela
giudiziale non è gratuito dispensatore di felicità, ma
difesa realizzativa di diritti e interessi panciuti,
ricchi di sostanza probatoria e di identità deduttiva
plausibile. Ecco quindi, che l’ impiegato, dall’ altare
dei ricorsi, se ne va triste come chi deve: quasi un
sussulto alla memoria, accettando il pessimismo
hobbesiano, nella sua lucida e disincantata accettazione
dell’ umana inaffidabilità che insedia le basi delle
democrazie fondate sul lavoro.
Consiglio
di Stato
Sezione
VI
Sentenza
15 giugno 2011, n. 3648
Svolgimento del processo
Con la sentenza gravata il Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio ha accolto il ricorso con cui
l'odierno appellante ha impugnato l'atto con cui
l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private
e di interesse collettivo (d'ora in avanti Istituto o
ISVAP) ha istituito l'Ufficio per lo studio
dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale
delle assicurazioni, preponendo l'odierno ricorrente, in
precedenza incaricato delle funzioni di Capo del
Servizio Albi e della reggenza della Sezione Albi
intermediari e periti (ric. n. 6970/2008); ha invece
respinto il ricorso con cui l'appellante ha lamentato di
essere stato vittima di una complessiva condotta di
mobbing posta in essere dall'ISVAP (ric. n. 1406/2009).
Nel dettaglio, ad avviso del primo giudice "non sono
invero ravvisabili nel caso di specie gli elementi
identificativi del mobbing: per l'effetto dovendosi
escludere che la lamentata condotta assunta da ISVAP nei
confronti dell'odierno ricorrente sia caratterizzabile
nel quadro di un comportamento persecutorio e possa,
conseguentemente, dar luogo al pure sollecitato
risarcimento del pregiudizio dal dott. M. lamentato. La
pur riscontrata illegittimità dell'atto (ordine di
servizio) con il quale l'interessato è stato preposto al
neoistituito l'Ufficio per lo studio dell'evoluzione del
diritto interno ed internazionale delle assicurazioni
non consente, infatti, di apprezzare - ex se riguardata
- la presenza di quella molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove
singolarmente considerati, la cui realizzazione
miratamente sistematica e prolungata riveli un sotteso
(quanto univoco) intento vessatorio. Né, a tali fini,
rivelano concludente valenza dimostrativa le condotte
dell'Istituto di appartenenza alle quali il dott. M.
annette il divisato carattere "vessatorio" (rimozione
dal Servizio Sanzioni, estromissione da attività
preparatorie di regolamenti, riunioni, gruppi di studio,
comitati, incontri), che si sarebbero accentuate a
seguito della proposizione, da parte del medesimo, del
ricorso n. 3312/2008. Se, infatti, l'intento "ritorsivo"
da parte di ISVAP che il ricorrente annette alla
sollecitazione del sindacato giurisdizionale dal
medesimo promossa non incontra elementi di accertabile
conferma (rilevanti anche sotto il profilo meramente
indiziante), va parimenti escluso che, sulla base delle
evidenze documentali acquisite al giudizio, sia emersa
la presenza di un complessivo disegno "persecutorio"
qualificato da comportamenti materiali, ovvero da
provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria
e organica vessazione nonché di discriminazione, con
connotazione emulativa e pretestuosa. Difetta
conseguentemente, nella prospettazione di parte
ricorrente, la dimostrata presenza di elementi a
supporto della complessità ed organicità della strategia
vessatoria che, sola, può consentire di accedere alla
prospettata ipotesi di mobbing".
Con la stessa sentenza il Tribunale amministrativo
regionale per il Lazio ha anche disatteso il ricorso
proposto avverso gli atti con cui l'Istituto ha
deliberato, per il periodo intercorrente fra il 1°
luglio 2003 ed il 31 dicembre 2007 e per quello dal 1°
gennaio 2008 al 31 dicembre 2010, l'adeguamento del
trattamento retributivo spettante ai suoi dirigenti
(ric. n. 3312 del 2008).
Avverso la reiezione del ricorso n. 1406/2009 insorge
con il presente ricorso l'appellante sostenendo
l'erroneità della sentenza di cui chiede l'annullamento;
la reiezione del ricorso n. 3312 del 2008 è invece
impugnata dallo stesso appellante con distinto ricorso
dal Collegio definito con distinta sentenza.
All'udienza del 15 aprile 2011 la causa è stata
trattenuta per la decisione.
Motivi
della decisione
Il ricorso va respinto.
Giova considerare che in primo grado l'odierno
appellante ha, da un lato, impugnato l'ordine del 14
maggio 2008 n. 218, con il quale è stato assegnato al
neoistituito Ufficio per lo studio dell'evoluzione del
diritto interno ed internazionale delle assicurazioni
(ric. n. 6970/2008); dall'altro sostenuto che tale
assegnazione funzionale, unitamente ad un ulteriore
complesso di atti e condotte assunti dall'ISVAP, ne
avrebbero determinato una progressiva marginalizzazione
ed un connesso demansionamento, assuntamente
inquadrabili in un contesto di condotte sussumibili
nella fattispecie del mobbing (ric. n. 1406/2009).
Il primo giudice - ritenuta l'indicata assegnazione
del ricorrente all'istituito Ufficio per lo studio
dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale
delle assicurazioni affetta da insufficienza
motivazionale, carenza di preliminari approfondimenti
istruttori, nonché da omesso avviso di inizio del
procedimento- ha invece respinto il ricorso con cui
l'appellante ha assunto che l'ISVAP abbia posto in
essere in suo danno una complessiva condotta
mobbizzante.
Ritiene il Collegio di confermare gli esiti cui è
pervenuto il primo giudice, escludendo che la condotta
complessivamente posta in essere dall'ISVAP nei
confronti dell'odierno appellante sia inquadrabile in
una fattispecie di mobbing.
Giova considerare che per mobbing si intende
comunemente - in assenza di una definizione normativa -
una condotta del datore di lavoro o del superiore
gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di
lavoro, che si manifesta con comportamenti
intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici,
esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione
del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del
lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della
sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva
del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la
molteplicità e globalità di comportamenti a carattere
persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti
in essere in modo miratamente sistematico e prolungato
contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
il nesso eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e la lesione dell'integrità
psicofisica del lavoratore; la prova dell'elemento
soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Nel verificare l'integrazione della fattispecie che
si esamina è quindi necessario, anche in ragione della
sua indeterminatezza, attendere ad una valutazione
complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal
lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro:
- da un lato, l'idoneità offensiva della condotta
datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di
persecuzione e discriminazione),
- e, dall'altro, la connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della condotta.
Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di
condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la
valutazione complessiva dell'insieme di circostanze
addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se
idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di
conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di
individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il
carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e
discriminante nei confronti del singolo del complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E' in primo luogo necessaria, quindi, la prova
dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio,
tale da piegare alla sue finalità i singoli atti cui
viene riferito.
D'altra parte, determinati comportamenti non possono
essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini
della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato
che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al
comportamento datoriale. Nella specie, questo non si può
escludere con riferimento all'atto - peraltro mai
contestato - di assegnazione ad altro dirigente del
Servizio sanzioni, alle sfavorevoli determinazioni del
Consiglio dell'ISVAP relative all'adeguamento del
trattamento retributivo dei propri dirigenti per il
periodo 20032010, alla mancata corresponsione del premio
di rendimento per gli anni 2008 e 2009.
Tanto premesso, ritiene il Collegio che gli indicati
elementi costitutivi della fattispecie di mobbing non
risultino presenti nel caso di specie: in particolare,
non può dirsi in alcun modo provata l'esistenza di un
disegno persecutorio elaborato e perseguito dall'ISVAP
in danno dell'odierno ricorrente.
In sé, un atto illegittimo, o più atti illegittimi di
gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono
sintomatici della presenza di un comportamento
mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri
elementi sopra richiamati. Perciò, come correttamente
osservato dal giudice di primo grado, la pur acclarata
illegittimità dell'ordine di servizio recante
preposizione dell'appellante al neoistituito Ufficio per
lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed
internazionale delle assicurazioni non permette - da sé
sola considerata- di affermare l'integrazione della
fattispecie di mobbing. tanto più che al riscontro della
indicata illegittimità lo stesso giudice di prima
istanza è pervenuto avendo accertato vizi di tipo solo
procedimentale.
Non è in senso più generale emersa la presenza di un
complessivo disegno persecutorio qualificato da
comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti,
contraddistinti da finalità di volontaria e organica
vessazione nonché di discriminazione, con connotazione
emulativa e pretestuosa.
A maggior ragione risulta indimostrata la complessità
ed organicità della strategia vessatoria che, sola, può
consentire di accedere alla prospettata ipotesi di
mobbing.
Alla stregua delle esposte ragioni l'appello va
quindi respinto.
Segue la condanna del ricorrente alle spese
processuali, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando
sull'appello, lo respinge.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali, liquidate in complessivi euro 4.000,00
(quattromila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita
dall'autorità amministrativa.
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