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Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 15 giugno 2011, n. 3648, pres. Giuseppe Severini, rel. Roberto Garofoli – “MOBBING NEL PUBBLICO IMPIEGO..PROBLEMI GIURIDICI..NEL PIENO DEL GUADO!” –Persona e danno.it

 

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 Carmelo MICELI

Palazzo Spada ravviva la tematica di diritto iniziata dalle aperture copernicane dei giudici di Torino del ’99: tutti si accorsero subito che non si trattava di isolati missionari, né di ideologia giuridica alla moda! 

Prosegue a ritmo incessante l’ attività di ricostruzione della fattispecie del mobbing ad opera della giurisprudenza, al fine di scongelare i caratteri dell’ identità dell’ emarginazione professionale, chiave di accesso alla giustizia civile, sensibile da tempo a pregiudizi diversi dalla compromissione del reddito. 

Il quadro complessivo si presenta invero piuttosto nebuloso, specie nei suoi rintocchi amministrativi, in un nuovo e “tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona”. L’ idée directrice sarebbe quella di rafforzare le maglie dell’ armamentario di tutela predisposto dall’ ordinamento, evitando che fra di esse scivoli indifferentemente la personalità da lavoro: saltare cent’ anni in un giorno solo!

La giurisprudenza ha ricondotto le concrete fattispecie di cui trattasi nella versione dell’ articolo 2087 c.c. che contiene il precetto secondo cui “l’ imprenditore è tenuto ad adottare.. le misure…necessarie a tutelare l’ integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La scoperta del mobbing, e ancora prima, la riedizione del citato 2087, diluito nel pubblico impiego, hanno aperto inediti scenari verso una più completa tutela del lavoratore, dischiudendo nuovi orizzonti nella protezione esistenziale dei dipendenti pubblici. Eppure, non può non rilevarsi come tale norma debba essere oggetto di adeguati assestamenti rispetto agli enti pubblici in generale che non sono qualificabili nè come imprenditori, né come imprese, essendo mossi da finalità a carattere istituzionale e non di mercato. Particolarmente interessante, in questa sede, è il richiamo al concetto di organizzazione, riferito non solo al datore di lavoro privato ma anche a quello pubblico, evocandosi così un termine più volte ricorrente nel d.lgs. 165/2001. In breve il concetto di organizzazione travalica i confini dell’ art. 2082 c.c. per connotare qualsiasi entità in cui si svolga lavoro umano e venga quindi in gioco il bisogno di tutela della salute dei lavoratori. Esemplare, al riguardo, la cornice definitoria disegnata dal Consesso di giustizia amministrativa: “Il mobbing rappresenta la somma di comportamenti direttamente connessi all’organizzazione del lavoro, oscillanti dall’eccessivo carico di lavoro ai soprusi del superiore e che quindi sembrano gravitare su più aspetti organizzativi che su specifiche, singole situazioni tranquillizzanti” (Cons. Stato, Ordinanza n. 6311/2000). Nel solco del pubblico impiego, la burocrazia, per dirla con Agrifoglio, si assesta con particolari e ben precise caratteristiche: la gerarchia degli uffici e il loro disporsi a struttura piramidale, la separazione, quanto ai poteri esercitati, tra ufficio e funzionario (il burocrate lascia il potere in ufficio), la selezione e la stessa assunzione del personale sulla base di qualificazioni tecniche, accertate attraverso procedimenti concorsuali (si spera!), l’ impiego che diviene carriera, professione, sia perché viene ad assorbire, quasi, l’ intera vita del pubblico dipendente, sia perché rappresenta la sua essenziale fonte di sostentamento.

Accade allora che, forte del proprio vigore weberiano, per così dire, il pubblico dipendente ebbe ben presto a sviluppare una concezione che fu esattamente definita “proprietaria” del proprio posto di lavoro (Sanviti). A ciò fa da contraltare il fatto, lumeggiato in dottrina, che nel pubblico impiego si è soliti adornare con solide motivazioni gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità. A meno di non avere a che fare con degli sprovveduti, infatti, “gli atti con i quali il datore di lavoro pubblico dispone, un trasferimento, un mutamento di mansioni, si troveranno redatti in modo tale da far emergere sempre una esigenza organizzativa che ha reso necessario quel trasferimento o mutamento di mansioni”. Invero, la forza dell’ art. 97 Cost. sta nelle finalità di buon andamento e imparzialità dell’ amministrazione: dal tenore dell’ art. 2 del D. Lgs. 165/01, quest’ ultimi, coniugate nel perseguimento dell’ interesse pubblico, assurgono a causa del contratto del lavoro pubblico, nonchè quali elementi che, integrano l’ esportazione del contenuto degli artt. 1175 e 1375 c.c. del codice civile. In altri termini, gli artt 97 e 98 della Carta Fondamentale, costituiscono la giusta misura, il grimaldello, per valutare la correttezza (non solo degli atti organizzativi, ma anche) delle determinazioni inerenti alla gestione dei rapporti, adottate con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. 

È solo, allora, una questione di etichette oppure di sostanza? Il concetto di mobbing non si esaurisce in una comodità lessicale (come pure era stato ritenuto da qualche giudicante nelle sue prime esplorazioni della fattispecie), ma contiene un valore aggiunto perché consente di arrivare a qualificare come tale ed a sanzionare anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente, potevano anche non contenere elementi di illiceità ma che, considerate unitariamente e in un contesto appunto “mobbizzante”, assumono un particolare valore molesto e una finalità persecutoria che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d’ insieme che il mobbing consente di valutare (Trib. di Forlì, sent. del 28 gennaio 2005). Il termine de quo ha dimostrato di possedere una formidabile capacità evocativa relativamente ad un’ esigenza diffusa di attenzione e di riconoscimento di situazioni di disagio, malessere, sofferenza, variamente createsi all’ interno degli ambienti di lavoro. Come sottolineato da taluni, il contesto generale di “grida al lupo”, nel quale il concetto in esame risulta inflazionato e troppo spesso abusato, certo non aiuta ma questo non deve fare perdere all’ interprete la capacità critica di individuare le caratteristiche tipiche del fenomeno in oggetto, fatto tanto di conflittualità evidente e quasi “rumorosa”, quanto di conflittualità sottile, ma non per questo meno pesante da sopportare per la vittima. Si tratta principalmente di verificare quel legal framework che racchiude una serie di condotte entro un unico quadro giuridicamente rilevante, al fine di offrire l’ agognato ombrello protettivo al pubblico dipendente. Si badi bene, però, che il percorso di giuridica esplorazione è lungi dall’ essere completato, come ci ricorda in questo inizio d’ estate il Consiglio di Stato: ci troviamo, per vero, ancora nel pieno del guado! Ciò obbliga ancora l’ interprete ad addentrarsi in un terreno alquanto accidentato. Su questa linea si schiera la sentenza in commento, che, nella sua razionalità di ulissiana memoria, non cede al canto delle sirene del danno biologico. La vicenda vagliata dai giudicanti, attiene a un pubblico dipendente che impugnava l’ordine con il quale era stato assegnato ad un ufficio di nuova istituzione, sostenendo che tale assegnazione funzionale, unitamente ad un ulteriore complesso di atti e condotte assunti dal datore di lavoro, ne avrebbero determinato una progressiva marginalizzazione ed un connesso demansionamento, da inquadrarsi in un contesto di condotte riconducibili nella fattispecie del mobbing. In punto di diritto, si evidenzia, sulla base di una ormai robusta tradizione esegetica, che ai fini della configurabilità della condotta lesiva posta in essere dal datore di lavoro sono rilevanti: la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. “Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo sul luogo di lavoro”. L’ anelito risarcitorio del pubblico dipendente è stato, nel caso specifico, sonoramente bocciato dai Giudici di palazzo Spada. E tuttavia permane nell’ interprete un vago senso di rammarico, ove si consideri la lentezza organica del legislatore nazionale (non sottaciuta nel testo della decisione) rispetto ad un fenomeno che ormai è divenuto una sorta di fantasma che si aggira per le aule giudiziarie (Carinci). Come desumibile indirettamente dalla sentenza della Consulta n. 359/03, giova sottolineare, che proprio la rilevanza da attribuire al complessivo disegno persecutorio dovrebbe consentire di arginare il rischio, indubbiamente grave, di una dilatazione eccessiva della fattispecie, spesso paventato della dottrina. Ricordiamo le osservazioni di Del Punta: “non si può evidentemente pensare che qualsiasi screzio, o inurbanità, o scortesia, vengano attratte nell’ imbuto cieco di un’ ipertrofia delle tutele risarcitorie. È opportuno riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell’ organizzazione, e questo richiede indagini delicate e complesse, rispetto alle quali il suggerimento empirico di focalizzarsi sulle condotte frequenti e ripetitive conserva indubbiamente un’ utilità”. 

Un arretramento di tutela? No cari lettori! La tutela giudiziale non è gratuito dispensatore di felicità, ma difesa realizzativa di diritti e interessi panciuti, ricchi di sostanza probatoria e di identità deduttiva plausibile. Ecco quindi, che l’ impiegato, dall’ altare dei ricorsi, se ne va triste come chi deve: quasi un sussulto alla memoria, accettando il pessimismo hobbesiano, nella sua lucida e disincantata accettazione dell’ umana inaffidabilità che insedia le basi delle democrazie fondate sul lavoro.

Consiglio di Stato

Sezione VI

Sentenza 15 giugno 2011, n. 3648

Svolgimento del processo

Con la sentenza gravata il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha accolto il ricorso con cui l'odierno appellante ha impugnato l'atto con cui l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (d'ora in avanti Istituto o ISVAP) ha istituito l'Ufficio per lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale delle assicurazioni, preponendo l'odierno ricorrente, in precedenza incaricato delle funzioni di Capo del Servizio Albi e della reggenza della Sezione Albi intermediari e periti (ric. n. 6970/2008); ha invece respinto il ricorso con cui l'appellante ha lamentato di essere stato vittima di una complessiva condotta di mobbing posta in essere dall'ISVAP (ric. n. 1406/2009).

Nel dettaglio, ad avviso del primo giudice "non sono invero ravvisabili nel caso di specie gli elementi identificativi del mobbing: per l'effetto dovendosi escludere che la lamentata condotta assunta da ISVAP nei confronti dell'odierno ricorrente sia caratterizzabile nel quadro di un comportamento persecutorio e possa, conseguentemente, dar luogo al pure sollecitato risarcimento del pregiudizio dal dott. M. lamentato. La pur riscontrata illegittimità dell'atto (ordine di servizio) con il quale l'interessato è stato preposto al neoistituito l'Ufficio per lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale delle assicurazioni non consente, infatti, di apprezzare - ex se riguardata - la presenza di quella molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove singolarmente considerati, la cui realizzazione miratamente sistematica e prolungata riveli un sotteso (quanto univoco) intento vessatorio. Né, a tali fini, rivelano concludente valenza dimostrativa le condotte dell'Istituto di appartenenza alle quali il dott. M. annette il divisato carattere "vessatorio" (rimozione dal Servizio Sanzioni, estromissione da attività preparatorie di regolamenti, riunioni, gruppi di studio, comitati, incontri), che si sarebbero accentuate a seguito della proposizione, da parte del medesimo, del ricorso n. 3312/2008. Se, infatti, l'intento "ritorsivo" da parte di ISVAP che il ricorrente annette alla sollecitazione del sindacato giurisdizionale dal medesimo promossa non incontra elementi di accertabile conferma (rilevanti anche sotto il profilo meramente indiziante), va parimenti escluso che, sulla base delle evidenze documentali acquisite al giudizio, sia emersa la presenza di un complessivo disegno "persecutorio" qualificato da comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa. Difetta conseguentemente, nella prospettazione di parte ricorrente, la dimostrata presenza di elementi a supporto della complessità ed organicità della strategia vessatoria che, sola, può consentire di accedere alla prospettata ipotesi di mobbing".

Con la stessa sentenza il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha anche disatteso il ricorso proposto avverso gli atti con cui l'Istituto ha deliberato, per il periodo intercorrente fra il 1° luglio 2003 ed il 31 dicembre 2007 e per quello dal 1° gennaio 2008 al 31 dicembre 2010, l'adeguamento del trattamento retributivo spettante ai suoi dirigenti (ric. n. 3312 del 2008).

Avverso la reiezione del ricorso n. 1406/2009 insorge con il presente ricorso l'appellante sostenendo l'erroneità della sentenza di cui chiede l'annullamento; la reiezione del ricorso n. 3312 del 2008 è invece impugnata dallo stesso appellante con distinto ricorso dal Collegio definito con distinta sentenza.

All'udienza del 15 aprile 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

Il ricorso va respinto.

Giova considerare che in primo grado l'odierno appellante ha, da un lato, impugnato l'ordine del 14 maggio 2008 n. 218, con il quale è stato assegnato al neoistituito Ufficio per lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale delle assicurazioni (ric. n. 6970/2008); dall'altro sostenuto che tale assegnazione funzionale, unitamente ad un ulteriore complesso di atti e condotte assunti dall'ISVAP, ne avrebbero determinato una progressiva marginalizzazione ed un connesso demansionamento, assuntamente inquadrabili in un contesto di condotte sussumibili nella fattispecie del mobbing (ric. n. 1406/2009).

Il primo giudice - ritenuta l'indicata assegnazione del ricorrente all'istituito Ufficio per lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale delle assicurazioni affetta da insufficienza motivazionale, carenza di preliminari approfondimenti istruttori, nonché da omesso avviso di inizio del procedimento- ha invece respinto il ricorso con cui l'appellante ha assunto che l'ISVAP abbia posto in essere in suo danno una complessiva condotta mobbizzante.

Ritiene il Collegio di confermare gli esiti cui è pervenuto il primo giudice, escludendo che la condotta complessivamente posta in essere dall'ISVAP nei confronti dell'odierno appellante sia inquadrabile in una fattispecie di mobbing.

Giova considerare che per mobbing si intende comunemente - in assenza di una definizione normativa - una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Nel verificare l'integrazione della fattispecie che si esamina è quindi necessario, anche in ragione della sua indeterminatezza, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l'altro:

- da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione),

- e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta.

Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.

E' in primo luogo necessaria, quindi, la prova dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue finalità i singoli atti cui viene riferito.

D'altra parte, determinati comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale. Nella specie, questo non si può escludere con riferimento all'atto - peraltro mai contestato - di assegnazione ad altro dirigente del Servizio sanzioni, alle sfavorevoli determinazioni del Consiglio dell'ISVAP relative all'adeguamento del trattamento retributivo dei propri dirigenti per il periodo 20032010, alla mancata corresponsione del premio di rendimento per gli anni 2008 e 2009.

Tanto premesso, ritiene il Collegio che gli indicati elementi costitutivi della fattispecie di mobbing non risultino presenti nel caso di specie: in particolare, non può dirsi in alcun modo provata l'esistenza di un disegno persecutorio elaborato e perseguito dall'ISVAP in danno dell'odierno ricorrente.

In sé, un atto illegittimo, o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra richiamati. Perciò, come correttamente osservato dal giudice di primo grado, la pur acclarata illegittimità dell'ordine di servizio recante preposizione dell'appellante al neoistituito Ufficio per lo studio dell'evoluzione del diritto interno ed internazionale delle assicurazioni non permette - da sé sola considerata- di affermare l'integrazione della fattispecie di mobbing. tanto più che al riscontro della indicata illegittimità lo stesso giudice di prima istanza è pervenuto avendo accertato vizi di tipo solo procedimentale.

Non è in senso più generale emersa la presenza di un complessivo disegno persecutorio qualificato da comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa.

A maggior ragione risulta indimostrata la complessità ed organicità della strategia vessatoria che, sola, può consentire di accedere alla prospettata ipotesi di mobbing.

Alla stregua delle esposte ragioni l'appello va quindi respinto.

Segue la condanna del ricorrente alle spese processuali, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

 

 

 

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