Urbanistica. Natura della d.i.a. e
tutela del terzo
La Sezione rimettente ha sottoposto
il ricorso alla cognizione dell’Adunanza Plenaria, ex
art. 99 del codice del processo amministrativo, ai fini
della soluzione delle questioni di diritto, di
particolare importanza e fonti di contrasti
giurisprudenziali, relative alla natura giuridica della
dichiarazione di inizio attività ed alle conseguenti
tecniche di tutela sperimentabili dal terzo leso dallo
svolgimento dell’attività denunciata.
N.
00015/2011/REG.PROV.COLL.
N.00001/2011
REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza
Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro
generale 1 di A.P. del 2011, proposto da:
Serma Costruzioni Srl, in persona
del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e
difeso dagli avv. Raffaele Bucci, Paolo Fiorilli, con
domicilio eletto presso Paolo Fiorilli in Roma, via Cola
di Rienzo 180;
contro
Dovesi Giancarlo, rappresentato e
difeso dagli avv. Francesco Iaderosa, Giovanni Minelli,
Paolo Stella Richter, con domicilio eletto presso Paolo
Stella Richter in Roma, viale Mazzini N.11;
nei confronti di
Comune di Venezia, in persona del
Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti
Maurizio Ballarin, Giulio Gidoni, Antonio Iannotta, M.M.
Morino, Nicoletta Ongaro, Nicolo' Paoletti, Giuseppe
Venezian, con domicilio eletto presso Niccolo' Paoletti
in Roma, via B. Tortolini N. 34; Masiero Marco;
e con l'intervento di
ad opponendum:
Ordine degli Architetti,
Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e
Provincia, in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe
Lavitola, con domicilio eletto presso Giuseppe Lavitola
in Roma, via Costabella 23;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. VENETO -
VENEZIA: SEZIONE II n. 03881/2008, resa tra le parti,
concernente DIA IN VARIANTE AL PERMESSO DI COSTRUIRE
Visti il ricorso in appello e i
relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del
giorno 2 maggio 2011 il Cons. Francesco Caringella e
uditi per le parti gli avvocati Fiorilli, Minelli,
Stella Richter, Paoletti e Lavitola.;
Ritenuto e considerato in fatto e
diritto quanto segue.
FATTO
La Serma Costruzioni srl,
proprietaria di due distinti immobili affacciati sui
lati opposti di via S. Elena nel territorio del Comune
di Venezia, veniva autorizzata, con permesso di
costruire n.84298 del 2003, alla ristrutturazione e al
risanamento conservativo di entrambi gli edifici.
Sia la galleria che un porticato
ovest-est erano interamente gravati da servitù di
pubblico passaggio pedonale in forza di atto notarile
del 16 luglio 1956; il porticato, in particolare,
risultava essere, per tutta la sua lunghezza e metà
della sua larghezza, di proprietà Serma e per l’altra
metà (longitudinale) di proprietà Dovesi.
Il Dovesi contestava dapprima il
permesso di costruire n. 84198 del 2003 che,
autorizzando il transito nel portico anche con
automezzi, aveva aggravato la servitù da pedonale a
carrabile; a seguito di tale contestazione, la società
Serma produceva la DIA n.403111/2004 con cui, in
variante al primo titolo abilitativo, ripristinava l’uso
esclusivamente pedonale del portico.
Con l’ultima denuncia di inizio
attività n.197703 del 2007, presentata in variante al
permesso di costruire n. 84298/2003, la società Serma
dichiarava di voler effettuare lavori edilizi volti, tra
l’altro, a rendere carrabile la propria metà
(longitudinale) del porticato ed a realizzare un
marciapiede sul fronte est della via S.Elena dalla via
Miranese al porticato stesso.
Con il ricorso di primo grado il
sig. Dovesi impugnava tale ultima DIA, sostenendo che, a
mezzo di tali lavori, si sarebbe prodotto un aggravio
della servitù di passaggio sul suolo di sua proprietà in
violazione del disposto dell’art. 1067 c.c.
Il giudice di primo grado
accoglieva il ricorso pervenendo all’annullamento della
DIA.
Secondo la sentenza impugnata, la
trasformazione della servitù, da pedonale in carrabile,
gravante sulla porzione longitudinale del portico di
proprietà Serma, avrebbe aggravato l’esercizio della
servitù pedonale alla quale era assoggettato l’intero
portico. In tal modo, infatti, non si sarebbe aggravato
soltanto il peso della servitù sul fondo Serma, ma si
sarebbe imposto abusivamente a carico del fondo Dovesi
un peso diverso da quello originariamente costituito per
contratto.
Avverso tale sentenza ha proposto
appello la società Serma Costruzioni srl, deducendo che:
1) la denuncia di inizio attività
non costituisce atto amministrativo impugnabile,
trattandosi di attività del privato e non assumendo essa
valore provvedimentale; la sentenza sarebbe quindi
erronea laddove ha ritenuto direttamente impugnabile la
denuncia di inizio di attività.
Secondo la società, l’unico rimedio
avverso la d.i.a. (atto di parte privato), consisterebbe
nel rivolgere formale istanza all’amministrazione e
nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto su di essa
formatosi. Il primo giudice avrebbe dovuto concludere
per la inammissibilità della impugnativa della denuncia
di inizio attività;
2) la sentenza sarebbe errata anche
nel punto in cui ha individuato, a fondamento
dell’illegittimità della denuncia di inizio di attività,
una mera violazione di tipo civilistico, attinente ai
rapporti privatistici fra le parti. Tale doglianza
avrebbe potuto proporsi soltanto dinanzi al giudice
ordinario alla cui cognizione spettano le controversie
circa l’esistenza di diritti di uso pubblico su strade
private.
Si è costituito l’appellato Dovesi,
chiedendo il rigetto dell’appello. Ha proposto altresì
ricorso incidentale subordinato, rispetto ai motivi
proposti in prime cure, deducendo vizi di violazione di
legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.
Si è costituito anche il Comune di
Venezia, rimettendosi alla decisione di questo Consesso.
La Sezione rimettente ha sottoposto
il ricorso alla cognizione dell’Adunanza Plenaria, ex
art. 99 del codice del processo amministrativo, ai fini
della soluzione delle questioni di diritto, di
particolare importanza e fonti di contrasti
giurisprudenziali, relative alla natura giuridica della
dichiarazione di inizio attività ed alle conseguenti
tecniche di tutela sperimentabili dal terzo leso dallo
svolgimento dell’attività denunciata.
Ha inoltre spiegato intervento ad
opponendum l’Ordine degli Architetti, Pianificatori,
Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia.
Le parti hanno affidato al deposito
di apposite memorie l’ulteriore illustrazione delle
rispettive tesi difensive.
All’udienza pubblica del 2 maggio
2011 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. La Sezione rimettente sottopone
al vaglio dell’Adunanza Plenaria le questioni di diritto
relative alla natura giuridica della denuncia di inizio
attività ed alle tecniche di tutela azionabili dal terzo
che deduca un pregiudizio per effetto dell’illegittimo
svolgimento dell’attività denunciata.
2. Ai fini dell’esame dei quesiti
sottoposti dall’ordinanza di rimessione, si deve, in via
preliminare, esaminare e confutare il motivo d’appello
con cui la parte ricorrente eccepisce il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo.
E’ sufficiente, all’uopo, ribadire
che, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 3, del
codice del processo amministrativo, in materia di
dichiarazione di inizio attività sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e
che, in ogni caso, l’iniziativa proposta nel caso di
specie da parte del terzo mira a far valere l’interesse
legittimo leso dal non corretto esercizio del potere
amministrativo di verifica della conformità
dell’attività dichiarata rispetto al paradigma
normativo, nella specie rappresentato dal divieto di
aggravio della servitù ai sensi dell’art. 1067 del
codice civile. La controversia sottoposta alla
cognizione di questo Giudice non riguarda, quindi, un
rapporto meramente privatistico, ossia il conflitto tra
il denunciante che intenda svolgere l’attività oggetto
della dichiarazione ed il terzo che lamenti l’indebita
ingerenza nella sua sfera giuridica, ma si appunta su un
rapporto amministrativo che ha come fulcro il corretto e
tempestivo esercizio del potere amministrativo di
controllo circa la conformità dell’attività dichiarata
al paradigma normativo, con conseguente adozione delle
misura inibitoria in caso di esito negativo del
riscontro. Il contenzioso ha quindi come oggetto
l’esercizio di un potere pubblicistico finalizzato alla
tutela di interessi pubblici, in coerenza con il
disposto dell’art. 7, comma 1, del codice del processo
amministrativo, che assegna alla giurisdizione del
giudice amministrativo la cognizione delle controversie
concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del
potere amministrativo.
E’ pur vero che il ricorrente
avrebbe potuto contestare direttamente all’autore della
d.i.a. la violazione della servitù, ma ciò, in base al
noto principio giurisprudenziale della doppia tutela,
non esclude che egli possa avere invece interesse –
legittimo in senso tecnico – a pretendere l’intervento
repressivo dell’amministrazione in una più ampia e più
efficace prospettiva di tutela degli interessi pubblici
coinvolti. Basti a tal fine considerare che l’accesso in
auto invece che pedonale non è certo circostanza
irrilevante dal punto di vista urbanistico.
3. E’ possibile ora passare
all’esame del motivo di appello con il quale la società
appellante deduce l’erroneità della sentenza impugnata,
nella parte in cui ha annullato la denuncia di inizio
attività.
Secondo l’appellante la denuncia di
inizio attività non costituirebbe atto amministrativo
suscettibile di rimedi demolitori (pagine 20 e 21
dell’appello), trattandosi di attività del privato e non
assumendo essa valore provvedimentale. L’unico rimedio
esperibile avverso un titolo abilitativo derivante da
una denunzia di inizio attività consisterebbe, quindi,
nella sollecitazione della successiva attività dell’
amministrazione nel senso che il terzo potrebbe agire,
con il rimedio del silenzio, per rimuovere l’eventuale
inerzia amministrativa o impugnare i successivi atti
amministrativi eventualmente adottati a fronte delle
istanze a tal fine formulate.
L’Adunanza rileva che le
problematiche giuridiche sottoposte al suo esame hanno
dato luogo ad un articolato dibattito giurisprudenziale,
puntualmente analizzato dall’ordinanza di rimessione,
sulle questioni relative alla natura sostanziale
dell’istituto della denuncia di inizio attività ed alle
conseguenti tecniche di tutela azionabili dai terzi.
4. Prima di passare all’esame delle
questioni di diritto rimesse al vaglio dell’Adunanza,
occorre analizzare il quadro normativo al fine di
delimitare l’oggetto del presente giudizio.
Va ricordato che la DIA è stata
introdotta, in via generale, dall’art. 19 della 7 agosto
1990, n. 241 e, con riferimento alla materia edilizia,
dagli artt. 22 e 23 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Il modello della dichiarazione di
inizio attività è stato inoltre recepito dall’art. 12
del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, in materia di
promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti
rinnovabili, dagli artt. 87 e 87 bis del D. Lgs. 1°
agosto 2003, n. 259, in materia di comunicazioni
elettroniche, dall’art. 38 del D.L, 25 giugno 2008, n.
112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, in
materia di attività produttive, e dagli articoli 8, 17 e
64 del D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della
direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006, in materia
di attività imprenditoriali e professionali.
Va, in particolare, osservato che
il modello della d.i.a., come regolato dalle leggi nn.
15 e 80/2005 e n. 69/2009, prima delle modifiche da
ultimo apportate dalla legge n. 122/2010 di cui si dirà
in seguito, si articola in una d.i.a. a legittimazione
differita, per effetto della quale l’attività denunciata
può essere intrapresa, con contestuale comunicazione,
solo dopo il decorso del termine di trenta giorni dalla
comunicazione (art.19, comma 2, primo periodo, della
legge n. 241/1990) e in una d.i.a. a legittimazione
immediata, che consente l’esercizio dell’attività sin
dalla data di presentazione della dichiarazione (art.
19, comma 2, secondo periodo, con riferimento
all’esercizio delle attività di impianti produttivi di
beni e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva
2006/123/CE, compresi gli atti che dispongono
l’iscrizione in albi o ruoli o registri ad efficacia
abilitante). Ai sensi del comma 3 dell’art. 19 cit.
l’amministrazione competente, in caso di dichiarazione
presentata in assenza delle condizioni, modalità e fatti
legittimanti, adotta provvedimenti motivati di divieto
dell’esercizio di detta attività nel termine di trenta
giorni, decorrente, per la denuncia ad efficacia
differita, dalla comunicazione dell’avvenuto inizio
dell’attività e, per la d.i.a. ad efficacia
immediatamente legittimante, dalla presentazione
dell’originaria denuncia. In materia edilizia tale
potere inibitorio è esercitabile nel termine di trenta
giorni dalla presentazione della dichiarazione, che, a
sua volta, deve precedere di almeno trenta giorni
l’inizio concreto dell’attività edificatoria (art. 23,
commi 1 e e 6, del d.P.R. n. 380/2001).
Decorso senza esito il termine per
l’esercizio del potere inibitorio, la pubblica
amministrazione dispone del potere di autotutela ai
sensi degli articoli 21 quinquies e 21nonies della legge
7 agosto 1990, n. 241.
Restano inoltre salve, ai sensi
dell’art. 21 della legge n. 241/1990, le misure
sanzionatorie volte a reprimere le dichiarazioni false o
mendaci nonché le attività svolte in contrasto con la
normativa vigente, così come sono impregiudicate le
attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo
previste dalla disciplina di settore.
Da ultimo, si deve considerare
l’ulteriore evoluzione dell’ordinamento che, a seguito
delle modifiche apportate all’art. 19 della legge n.
241/1990 dal D.L. n. 78 del 31 maggio 2010, convertito
dalla legge n. 122 del 30 luglio 2010, consente sempre
l’immediato inizio dell’attività oggetto
dell’informativa a seguito della presentazione della
segnalazione certificata di inizio attività (cd.
s.c.i.a.). Restano salvi, anche nella rinnovata
architettura normativa, il potere dell’amministrazione
di vietare, entro il modificato termine di sessanta
giorni dal ricevimento della segnalazione, l’esercizio
dell’attività in assenza delle condizioni di legge,
nonché il potere di autotutela esercitabile in caso di
decorso infruttuoso di tale termine e dei poteri
sanzionatori e di vigilanza di cui al rammentato art.
21.
Il modello della s.c.i.a. è stato
recepito dal d.P.R. 9 luglio 2010, n. 159, in materia di
accreditamento delle agenzie delle imprese, e dal d.P.R.
7 settembre 2010, n. 160, in tema di sportello unico
delle attività produttive.
Orbene, se da un canto va precisato
che il giudizio in esame concerne, una fattispecie
anteriore a dette ultime modifiche e che quindi esulano
dall’oggetto del presente giudizio le novità apportate
con l’introduzione della s.c.i.a. per effetto della
legge n. 122/2010 nonché la tematica dell’applicabilità
di detto modello alla materia edilizia (tematica sulla
quale è da ultimo intervenuto il legislatore con l’art.
5 del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito
dalla legge 12 luglio 2011, n. 106), dall’altro è pur
vero che le problematiche affrontate e le relative
soluzioni non possono non trovare fondamento in una
ricostruzione degli istituti in questione di portata
generale e quindi valevole anche per il futuro.
5. Così delimitata la portata delle
questioni sulle quali l’Adunanza Plenaria è chiamata a
pronunciarsi, si deve muovere dall’analisi della
problematica preliminare della natura giuridica
dell’istituto della dichiarazione di inizio attività
(d’ora in poi d.i.a.).
5.1. Secondo un primo approccio
ermeneutico (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 4
maggio 2010, n. 2558; 24 maggio 2010, n, 3263; 8 marzo
2011, n. 1423), sostenuto anche dall’interventore ad
opponendum, la d.i.a. non è uno strumento di
liberalizzazione imperniato sull’abilitazione legale
all’esercizio di attività affrancate dal regime
autorizzatorio pubblicistico ma rappresenta un modulo di
semplificazione procedimentale che consente al privato
di conseguire, per effetto di un’informativa
equiparabile ad una domanda, un titolo abilitativo
costituito da un’autorizzazione implicita di natura
provvedimentale che si perfeziona a seguito
dell’infruttuoso decorso del termine previsto dalla
legge per l’adozione del provvedimento di divieto.
Trattasi, quindi, di una
fattispecie a formazione progressiva che, per effetto
del susseguirsi dell’informativa del privato e del
decorso del tempo per l’esercizio del potere inibitorio,
culmina in un atto tacito di assenso, soggettivamente e
oggettivamente amministrativo.
Corollario processuale di detta
tesi è l’affermazione secondo cui i terzi lesi dal
silenzio serbato dall’amministrazione a fronte della
presentazione della d.i.a. sono legittimati a reagire
con le forme e nei tempi del ricorso ordinario di
annullamento del provvedimento amministrativo (art. 29 e
41 del codice del processo amministrativo).
5.1.1. Un primo argomento a
sostegno della valenza provvedimentale dell’istituto è
desunto dalla previsione espressa del potere
amministrativo di assumere, una volta decorso il termine
per l’esplicazione del potere inibitorio, determinazioni
in via di autotutela ai sensi degli articoli
21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990 (art.
19, comma 3, come mod. dall’art. 3 del D.L. 14 maggio
2005, n. 35, conv. dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 e,
poi, dall’art. 9 della legge 18 giugno 2009, n. 69).
Tale riferimento all'autotutela decisoria di secondo
grado, con esito di ritiro, sembra, invero, presupporre,
ad avviso di tale ricostruzione, un provvedimento, o
comunque un titolo, su cui sono destinati ad incidere,
secondo la logica propria del contrarius actus, i
provvedimenti di revoca o di annullamento.
Come è stato rilevato, inoltre, se
è ammesso l'annullamento d'ufficio, parimenti, e tanto
più, deve essere consentita l'azione di annullamento
davanti al giudice amministrativo (Cons. Stato, Sez. VI,
5 aprile 2007, n. 1550).
Un ulteriore referente normativo a
supporto della tesi della sostanziale equiparabilità
della d.i.a. al silenzio assenso è rinvenuto nel
disposto dell’art. 21, comma 2 bis, della stessa legge
n. 241/1990- comma aggiunto dall'articolo 3, comma
6-nonies, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con
modificazioni, in legge 14 maggio 2005, n. 80- secondo
cui “restano ferme le attribuzioni di vigilanza,
prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di
assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste
da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio
all'attività ai sensi degli articoli 19 e 20”.
Si aggiunge, poi, che
l’accoglimento della tesi del provvedimento implicito
coniuga l’esigenza di piena tutela del terzo,
legittimato a reagire in sede giurisdizionale a seguito
della formazione del titolo senza bisogno
dell’attivazione della procedura finalizzata alla
formazione del silenzio-rifiuto (o inadempimento), con i
principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela
dell’affidamento legittimo in capo al denunciante,
soddisfatti dall’applicazione dei termini del giudizio
impugnatorio che precludono la contestazione giudiziaria
dell’assetto impresso dal titolo amministrativo,
ancorché perfezionatosi per silentium, a seguito del
decorso del termine decadenziale di sessanta giorni,
decorrente dalla piena conoscenza del silenzio
significativo.
5.1.2. Ulteriori elementi a
sostegno della ricostruzione provvedimentale si
ricaverebbero, con particolare riferimento alla d.i.a in
materia edilizia, da alcune norme contenute nel testo
unico approvato con D.P.R. n. 380/2001.
In prima battuta, si sottolinea che
il titolo II del testo unico annovera tra i “Titoli
abilitativi” sia la denunzia di inizio di attività che
il permesso di costruire.
Gli articoli 22 e 23 del testo
unico considerano, poi, la d.i.a. quale titolo che
abilita all’intervento edificatorio. Ebbene, in teoria
generale, il titolo è l’atto o fatto giustificativo
dell’acquisto di una posizione soggettiva e il
provvedimento è, ad avviso della dottrina tradizionale,
l’atto che costituisce, modifica o estingue una
posizione giuridica amministrativa.
Rilevante viene considerato, in
particolare, l’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, il quale
stabilisce che il confine tra l'ambito di operatività
della d.i.a. e quello del permesso di costruire non è
fisso: le Regioni possono, infatti, ampliare o ridurre
l'ambito applicativo dei due titoli abilitativi, ferme
restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4), ed è
comunque fatta salva la facoltà dell'interessato di
chiedere il rilascio di permesso di costruire per la
realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a.
(art. 22, comma 7).
Per la tesi in esame, una simile
previsione dimostrerebbe che d.i.a. e permesso di
costruire sono titoli abilitativi di analoga natura, che
si diversificano solo per il procedimento da seguire.
Sarebbe, infatti, irragionevole, oltre che lesivo del
canone costituzionale di effettività della tutela
giurisdizionale, reputare che il terzo controinteressato
incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo
abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte
o da una diversa normativa regionale.
Viene poi in considerazione il
comma 2-bis dell'art. 38 che, prevedendo la possibilità
di "accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la
formazione del titolo", equipara detta ipotesi ai casi
di "permesso annullato", in modo da avallare la
costruzione che configura d.i.a alla stregua di titolo
suscettibile di annullamento.
Sulla stessa linea si pone l'art.
39, comma 5-bis, che consente l'annullamento
straordinario della d.i.a. da parte della Regione,
confermando, così, che la denuncia viene considerata dal
legislatore come un titolo passibile di annullamento (in
sede amministrativa e, quindi, a maggior ragione, in
sede giurisdizionale).
5.2. La tesi esposta, seppure
sostenuta dalla condivisibile esigenza di evitare che
l'introduzione della d.i.a. possa sortire l'effetto di
assottigliare gli spazi di tutela giurisdizionale
offerti al terzo controinteressato, si presta, tuttavia,
ad alcune considerazioni critiche.
Un primo profilo di debolezza
strutturale della tesi del silenzio significativo con
effetto autorizzatorio è dato dal rilievo che detta
soluzione elimina ogni differenza sostanziale tra gli
istituti della d.i.a. e del silenzio-assenso e, quindi,
si pone in distonia rispetto al dato normativo che
considera dette fattispecie diverse con riguardo sia
all’ambito di applicazione che al meccanismo di
perfezionamento. Infatti, la legge n. 241/1990, agli
articoli 19 e 20, manifesta il chiaro intento di tenere
distinte le due fattispecie, considerando la d.i.a. come
modulo di liberalizzazione dell'attività privata non più
soggetta ad autorizzazione ed il silenzio assenso quale
modello procedimentale semplificato finalizzato al
rilascio di un pur sempre indefettibile titolo
autorizzatorio. Anche la disciplina recata dagli artt.
20 e segg. del testo unico sull’edilizia di cui al
citato d.P.R. n. 380/2001, a seguito delle modifiche
apportate dal decreto legge n. 70/2011, distingue il
modello provvedimentale del permesso di costruire che si
perfeziona con il silenzio assenso ed i moduli (d.i.a. e
s.c.i.a.) fondati sull’inoltro di un’informativa circa
l’esercizio dell’attività edificatoria.
A sostegno dell’assunto depone,
poi, la formulazione letterale del primo comma dell’art.
19 della legge n. 241/1990, che, seguendo un disegno che
contrappone la d.i.a. al provvedimento amministrativo di
stampo autorizzatorio, sostituisce, in una logica di
eterogeneità, ogni autorizzazione comunque denominata
(quando il rilascio dipenda esclusivamente
dall'accertamento dei requisiti o presupposti di legge o
di atti amministrativi a contenuto generale, e non sia
previsto alcun limite o contingente complessivo o
specifici strumenti di programmazione settoriale per il
rilascio) con una dichiarazione del privato ad efficacia
(in via immediata o differita) legittimante.
La principale caratteristica
dell'istituto, di recente accentuata dall’introduzione
di denunce ad efficacia legittimante immediata, risiede,
quindi, nella sostituzione dei tradizionali modelli
provvedimentali autorizzatori con un nuovo schema
ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche
private consentite dalla legge in presenza dei
presupposti fattuali e giuridici normativamente
stabiliti (così già il parere 19 febbraio 1987, n. 7,
reso dall’ Adunanza Generale del Consiglio di Stato sul
disegno di legge poi confluito nella legge n. 241/1990).
L’attività dichiarata può, quindi,
essere intrapresa senza il bisogno di un consenso
dell’amministrazione, surrogato dall’assunzione di
auto-responsabilità del privato, insito nella denuncia
di inizio attività, costituente, a sua volta, atto
soggettivamente ed oggettivamente privato (in questi
termini, Cons. Stato. Sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 717 e
15 aprile 2010, n., 2139; Sez. IV, 13 maggio 2010, n.
2919).
In questo assetto legislativo non
c’è quindi spazio, sul piano concettuale e strutturale,
per alcun potere preventivo di tipo ampliativo
(autorizzatorio, concessorio e, in senso lato, di
assenso), sostituito dall’attribuzione di un potere
successivo di verifica della conformità a legge
dell’attività denunciata mediante l’uso degli strumenti
inibitori e repressivi.
Il denunciante è, infatti, titolare
di una posizione soggettiva originaria, che rinviene il
suo fondamento diretto ed immediato nella legge, sempre
che ricorrano i presupposti normativi per l’esercizio
dell’attività e purché la mancanza di tali presupposti
non venga stigmatizzata dall’amministrazione con il
potere di divieto da esercitare nel termine di legge,
decorso il quale si consuma, in ragione dell’esigenza di
certezza dei rapporti giuridici, il potere vincolato di
controllo con esito inibitorio e viene in rilievo il
discrezionale potere di autotutela.
E’ a questo punto chiaro che detta
liberalizzazione dei settori economici in esame ha
carattere solo parziale in quanto il principio di
autoresponsabilità è temperato dalla persistenza del
potere amministrativo di verifica dei presupposti
richiesti dalla legge per lo svolgimento dell’attività
denunciata. Trattasi, in sostanza, di attività ancora
sottoposte ad un regime amministrativo, pur se con la
significativa differenza che detto regime non prevede
più un assenso preventivo di stampo autorizzatorio ma un
controllo -a seconda dei casi successivo alla
presentazione della d.i.a. o allo stesso inizio
dell’attività dichiarata-, da esercitarsi entro un
termine perentorio con l’attivazione ufficiosa di un
doveroso procedimento teso alla verifica della
sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto per
l’esercizio dell’attività dichiarata. Nella stessa
prospettiva della sostituzione dell’assenso preventivo
con la vigilanza a valle, l’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 19 stabilisce che i pareri e le
verifiche a carattere preventivo di organi o enti sono
sostituiti dalle certificazioni variamente denominate
presentate dal privato, con salvezza delle verifiche
successive da parte delle amministrazioni competenti.
Analizzando il fenomeno
dall’angolazione del denunciante, si può affermare che
costui è titolare di una posizione soggettiva di
vantaggio immediatamente riconosciuta dall’ordinamento,
che lo abilita a realizzare direttamente il proprio
interesse, previa instaurazione di una relazione con la
pubblica amministrazione, ossia un contatto
amministrativo, mediante l’inoltro dell’informativa. Il
privato è, poi, titolare di un interesse oppositivo a
contrastare le determinazioni per effetto delle quali
l’amministrazione, esercitando il potere inibitorio o di
autotutela, incida negativamente sull’agere licere
oggetto della denuncia. Per converso, il terzo
pregiudicato dallo svolgimento dell’attività denunziata
è titolare di una posizione qualificabile come interesse
pretensivo all’esercizio del potere di verifica previsto
dalla legge.
5.2.1. La tesi della formazione del
silenzio significativo positivo è anche incompatibile,
sul piano logico e ontologico, con l’avvento del modello
della d.i.a. a legittimazione immediata (oggi
generalizzato con l’introduzione della s.c.i.a.), nonché
con il modello a legittimazione differita in cui il
termine per l’esercizio del potere inibitorio si
esaurisce dopo la comunicazione dell’avvenuto inizio
dell’attività. In tali ipotesi la legge, infatti,
consente l’inizio dell’attività in un torno di tempo
anteriore allo spirare del termine per l’esercizio del
potere inibitorio e alla conseguente formazione del
preteso titolo tacito. Ne deriva che, salvo accedere
alla complessa configurazione di un silenzio assenso con
efficacia retroattiva o alla tesi, ancora più opinabile,
secondo cui il silenzio assenso si perfezionerebbe prima
del decorso del termine per l’esercizio del potere
inibitorio, in tali casi il passaggio del tempo non
produce un titolo costitutivo avente valore di assenso
ma impedisce l’inibizione di un’attività già intrapresa
in un momento anteriore.
5.2.2. Non assume poi particolare
rilievo, al fine di infirmare la ricostruzione offerta e
di suffragare la tesi del silenzio-assenso, la
circostanza che la scelta tra detti due opposti moduli
di intervento amministrativo – l’autorizzazione
preventiva ed il controllo successivo - sia, in materia
edilizia, rimessa alla normativa regionale o addirittura
all’iniziativa del privato (art. 22 del D.P.R.
380/2001).
I dubbi sollevati circa la coerenza
di tale sistema duttile con l’esigenza di assicurare una
tutela adeguata ed efficace del terzo anche con riguardo
al modulo della denuncia legittimante, sono fugati dal
riconoscimento giurisprudenziale della praticabilità di
tecniche di tutela efficaci ed adeguate anche in caso di
configurazione della d.i.a. come modello di
liberalizzazione.
5.2.3. La lettura dell’istituto in
termini di provvedimento tacito di assenso non è
giustificata neanche dal richiamo legislativo
all’esercizio dei poteri di autotutela di cui agli artt.
21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990.
Come già osservato da questo
Consiglio (Sez. VI, n. 717/2009; 2139/2010, citt.), con
tale prescrizione il legislatore, lungi dal prendere
posizione sulla natura giuridica dell'istituto a favore
della tesi del silenzio assenso, ha voluto solo chiarire
che il termine per l’esercizio del potere inibitorio
doveroso è perentorio e che, comunque, anche dopo il
decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un
potere residuale di autotutela. Detto potere, con cui
l’amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato
esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i
principi regolatori sanciti, in materia di autotutela,
dalle norme citate, con particolare riguardo alla
necessità dell’avvio di un apposito procedimento in
contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una
valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli
interessi in rilievo, idonea a giustificare la
frustrazione dell’affidamento incolpevole maturato in
capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e
della conseguente consumazione del potere inibitorio.
5.3. L’iscrizione dell’art. 19
della legge n. 241/1990 in una logica di
liberalizzazione impedisce anche di dare ingresso alla
tesi secondo cui, pur dovendosi escludere che per
effetto del silenzio dell'amministrazione si formi uno
specifico ed autonomo provvedimento di assenso, sarebbe
la denuncia stessa a trasformarsi da atto privato in
titolo idoneo ad abilitare sul piano formale lo
svolgimento dell’attività.
Secondo questo approccio
ricostruttivo, cioè, la norma prefigurerebbe una
fattispecie a formazione progressiva per effetto della
quale, in presenza di tutti gli elementi costitutivi,
verrebbe a formarsi un titolo costitutivo che non
proviene dall'amministrazione ma trae origine
direttamente dalla legge. Tali elementi sarebbero la
denuncia presentata dal privato, accompagnata dalla
prescritta documentazione, il decorso del termine
fissato dalla legge per l’esercizio del potere
inibitorio ed il silenzio mantenuto dall'amministrazione
in tale periodo di tempo.
Nella concomitanza di questi tre
elementi, sarebbe, dunque, la legge stessa a conferire
alla denuncia del privato la natura di "titolo"
abilitante all'avvio delle attività in essa contemplate,
senza bisogno di ulteriori intermediazioni
provvedimentali, esplicite od implicite,
dell'amministrazione.
Ritiene il Collegio che anche tale
tesi sia incompatibile con il rammentato assetto
legislativo che rinviene il fondamento giuridico diretto
dell'attività privata nella legge e non in un apposito
titolo costitutivo, sia esso rappresentato
dall'intervento dell'amministrazione o dalla denuncia
stessa come atto di auto-amministrazione integrante
esercizio privato di pubbliche funzioni (cd. “d.i.a.
vestita in forma amministrativa”).
Del resto, la sussistenza di un
potere inibitorio, qualitativamente diverso e
cronologicamente anteriore al potere di autotutela, è
incompatibile con ogni valenza provvedimentale della
d.i.a. in quanto detto potere non potrebbe certo essere
esercitato in presenza di un atto amministrativo se non
previa la sua rimozione. Il riconoscimento di un potere
amministrativo di divieto, da esercitare a valle della
presentazione della d.i.a. e senza necessità della
rimozione di quest’ultima secondo la logica del
contrarius actus, dimostra, in definitiva,
l’insussistenza di un atto di esercizio privato del
potere amministrativo e l’adesione ad un modello di
liberalizzazione temperata che sostituisce l’assenso
preventivo con il controllo successivo.
6. Appurato che la denuncia di
inizio attività non è un provvedimento amministrativo a
formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un
titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto
a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività
direttamente ammessa dalla legge, si devono ora
analizzare, al fine di rispondere al secondo quesito
sottoposto all’Adunanza Plenaria, gli strumenti di
tutela a disposizione del terzo che si ritenga leso
dallo svolgimento dell’attività dichiarata e dal mancato
esercizio del potere inibitorio.
6.1. Secondo una tesi in passato
maggioritaria il terzo potrebbe invocare la tutela
dell’interesse legittimo pretensivo di cui è titolare
con l’esercizio dell’azione nei confronti del
silenzio-rifiuto (o inadempimento), oggi disciplinata
dagli artt. 31 e 117 del codice del processo
amministrativo (così, ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22
febbraio 2007, n. 948; Sez. IV, 4 settembre 2002, n.
4453).
Una prima impostazione,
inquadrabile in questa linea di pensiero, reputa che
detto silenzio-rifiuto (o inadempimento) si configuri
con riferimento all’esercizio del doveroso potere
inibitorio. Ad avviso di un’altra lettura, invece, il
terzo, decorso senza esito il termine per l'esercizio
del potere inibitorio, sarebbe legittimato a richiedere
all'Amministrazione l’adozione dei provvedimenti di
"autotutela", attivando, in caso di inerzia, il rimedio
di cui alle richiamate norme del codice del processo
amministrativo. Non manca, infine, chi fa riferimento al
silenzio-rifiuto maturato in ordine all’esplicazione del
potere sanzionatorio di cui all’art. 21 della legge n.
241/1990.
Nessuna delle esposte ricostruzioni
risulta dogmaticamente ineccepibile e, soprattutto,
idonea a garantire al terzo, titolare di una situazione
giuridica differenziata e qualificata, una tutela piena,
immediata ed efficace.
6.1.1. L’applicazione del rito del
silenzio all’omesso esercizio del potere inibitorio
doveroso è resa problematica dalla circostanza che il
silenzio-rifiuto postula, sul piano strutturale, la
sopravvivenza del potere al decorso del tempo fissato
per la definizione del procedimento amministrativo,
mentre, nella specie, lo spirare del termine perentorio
di legge implica la definitiva consumazione del potere
in esame. In altre parole, nel silenzio-inadempimento lo
spirare del termine di legge non conclude il
procedimento ma accentua il dovere della p.a. di porre
fine all’illecito comportamentale permanente, al
contrario di quanto accade nel caso di specie dove
l’inerzia dell’amministrazione che si protragga oltre i
confini di cui all’art. 19, comma 3, della legge n.
241/1990, conclude il procedimento estinguendo il potere
amministrativo di divieto. Ne consegue che, anche a
voler ritenere che l’azione nei confronti del
silenzio-rifiuto sia proponibile, in conformità
all’ampio tenore letterale dell’art. 31, comma 1, del
codice del processo amministrativo, con riguardo ad un
potere ufficioso, nel caso in esame il decorso del tempo
non configura una mera inerzia nell’esercizio di un
potere ancora esistente - ossia una violazione del
permanente obbligo di definizione della procedura,
stigmatizzabile con un ricorso, proposto nel termine
annuale di cui all’art. 31, comma 2, del codice del
processo amministrativo, al fine di sollecitare una
risposta esplicita dell’amministrazione ancora titolare
del potere - ma produce un esito negativo della
procedura, sotto il profilo della definitiva preclusione
dell’esercizio del potere inibitorio.
La protrazione del silenzio
amministrativo dà luogo, quindi, ad un esito negativo
del procedimento che produce la lesione dell’interesse
pretensivo del terzo al conseguimento della misura
inibitoria (con correlato consolidamento della
legittimazione del denunciante a porre in essere
l’attività), non tutelabile con il rimedio congegnato
dal legislatore con riguardo al silenzio-inadempimento.
6.1.2. Non è persuasiva neanche la
ricostruzione che, proprio prendendo le mosse da tali
considerazioni, reputa praticabile il rimedio avverso il
silenzio non significativo mantenuto
dall’amministrazione a fronte dell’istanza proposta dal
terzo al fine di eccitare l’esercizio del potere di
autotutela di cui si è detto.
Anche questa soluzione non coglie
nel segno perché non è idonea a tutelare in modo
efficace la sfera giuridica del terzo.
Innanzitutto, questi avrebbe
l'onere, prima di agire in giudizio, di presentare
apposita istanza sollecitatoria alla P.A., così subendo
una procrastinazione del momento dell’accesso alla
tutela giurisdizionale, e, quindi, specie con riguardo
alla d.i.a. ad efficacia immediata, un’incisiva
limitazione dell’effettività della tutela
giurisdizionale in spregio ai principi di cui agli artt.
24, 103 e 113 Cost.
Inoltre, e soprattutto, l'istanza
sarebbe diretta ad eccitare non il potere inibitorio di
natura vincolata (che si estingue decorso il termine
perentorio di legge), ma il c.d. potere di autotutela
evocato dall’art. 19, comma 3, della legge n. 241/1990
tramite il richiamo ai principi sottesi agli artt.
21-quinquies e 21-nonies. Tale potere, tuttavia, è
ampiamente discrezionale in quanto postula la rammentata
ponderazione comparativa, da parte dell’amministrazione,
degli interessi in conflitto, con precipuo riferimento
al riscontro di un interesse pubblico concreto e attuale
che non coincide con il mero ripristino della legalità
violata. Nell'eventuale giudizio avverso il
silenzio-rifiuto, quindi, il giudice amministrativo non
potrebbe che limitarsi ad una mera declaratoria
dell'obbligo di provvedere, senza poter predeterminare
il contenuto del provvedimento da adottare. Evidente
risulta, allora, la compressione dell’interesse del
terzo ad ottenere una pronuncia che impedisca lo
svolgimento di un’attività illegittima mediante un
precetto giudiziario puntuale e vincolante che non
subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio di un
potere discrezionale.
In definitiva, se la lesione
dell’interesse pretensivo del terzo è ascrivibile alla
mancata adozione di un provvedimento inibitorio
doveroso, è incongruo che la tutela debba riguardare
l'esercizio del diverso e più condizionato potere
discrezionale di autotutela.
6.1.3. Non è immune da censure
neanche la tesi che postula l’attivazione del rito del
silenzio rifiuto al fine di contrastare l’omessa
adozione dei provvedimenti sanzionatori, posto che il
potere richiamato dall’articolo 21 della legge n.
241/1990 è soggetto a stringenti limiti che lo rendono
inidoneo a soddisfare, in modo effettivo e pieno, la
posizione del terzo. Si consideri, in particolare, che
la legislazione di settore consente all’amministrazione
l’adozione di sanzioni pecuniarie che, per loro natura,
sono inidonee a soddisfare l’interesse del terzo ad
ottenere una misura che impedisca l’attività denunciata
e neutralizzi gli effetti dalla stessa già prodotti.
La sincronizzazione del meccanismo
di tutela con i connotati della posizione soggettiva
lesa, ossia l’interesse pretensivo ad ottenere una
concreta misura interdittiva, esige allora, in un’ottica
costituzionalmente orientata, di accedere ad una lettura
del sistema delle tutele che consenta al terzo di
esperire un’azione idonea ad ottenere il risultato della
cessazione dell’attività lesiva non consentita dalla
legge mediante il doveroso intervento
dell’amministrazione titolare del potere di inibizione.
6.2. Ai fini dello scrutinio delle
tecniche di tutela praticabili dal terzo si deve allora
approfondire la questione della natura giuridica del
silenzio osservato dall’amministrazione nel termine
perentorio previsto dalla legge per l’esercizio del
potere inibitorio.
6.2.1. Riprendendo le
considerazioni in precedenza svolte sul tema, detto
silenzio si distingue dal silenzio-rifiuto (o
inadempimento) in quanto, mentre quest’ultimo non
conclude il procedimento amministrativo ed integra una
mera inerzia improduttiva di effetti costitutivi, il
decorso del termine in esame pone fine al procedimento
amministrativo diretto all’eventuale adozione dell’atto
di divieto; pertanto, nella fattispecie in esame, il
silenzio produce l’effetto giuridico di precludere
all’amministrazione l’esercizio del potere inibitorio a
seguito dell’infruttuoso decorso del termine perentorio
all’uopo sancito dalla legge. In definitiva, a
differenza del silenzio rifiuto che costituisce un mero
comportamento omissivo, ossia un silenzio non
significativo e privo di valore provvedimentale, il
silenzio di che trattasi, producendo l’esito negativo
della procedura finalizzata all’adozione del
provvedimento restrittivo, integra l’esercizio del
potere amministrativo attraverso l’adozione di un
provvedimento tacito negativo equiparato dalla legge ad
un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego
dell’adozione del provvedimento inibitorio.
Che detta inerzia costituisca un
silenzio significativo negativo lo si ricava anche dalla
considerazione che l’attivazione di un procedimento
doveroso finalizzato all’adozione della determinazione
inibitoria implica l’esistenza di un potere il quale,
all’esito della verifica circa la sussistenza dei
presupposti per l’esercizio dell’attività denunciata,
può naturalmente essere speso tanto in senso positivo,
con l’adozione dell’atto espresso di interdizione,
quanto con una determinazione negativa tacita
alternativa all’esito provvedimentale espresso.
Trattasi, quindi, di un provvedimento per silentium con
cui la p.a., esercitando in senso negativo il potere
inibitorio, riscontra che l’attività è stata dichiarata
in presenza dei presupposti di legge e, quindi, decide
di non impedire l’inizio o la protrazione dell’attività
dichiarata.
La disciplina in esame può essere
accostata a fattispecie concettualmente analoghe, con
particolare riguardo a quelle prese in esame
dall’indirizzo giurisprudenziale che ammette
l'impugnabilità, da parte dei terzi controinteressati,
dei c.d. provvedimenti negativi, con cui l'Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato archivia una
determinata denuncia o comunque rifiuta di esercitare il
proprio potere interdittivo o sanzionatorio (Cons.
Stato, Sez. VI, 23 luglio 2009, n. 4597; 3 febbraio
2005, n. 280).
Sul piano delle situazioni
soggettive detto atto tacito consolida l’affidamento del
denunciante circa la legittimazione allo svolgimento
dell’attività, lasciando detto soggetto esposto al
rischio del più limitato potere di autotutela. Al tempo
stesso il silenzio frustra l’interesse pretensivo del
terzo, portatore di una posizione differenziata e
qualificata, ad ottenere l’adozione del provvedimento
interdittivo nel rispetto del principio di imparzialità
dell’azione amministrativa.
Detto silenzio significativo
negativo si differenzia dal silenzio accoglimento (o
assenso) di cui all’articolo 20 della legge n. 241/1990
perché si riferisce al potere inibitorio mentre il
silenzio assenso presuppone la sussistenza di un potere
ampliativo di stampo autorizzatorio o concessorio che
nella specie si è visto non ricorrere. Ne consegue che
mentre nel silenzio assenso il titolo abilitativo è dato
dal provvedimento tacito dell’autorità, nella
fattispecie in esame il titolo abilitante è
rappresentato dall’atto di autonomia privata che, grazie
alla previsione legale direttamente legittimante,
consente l’esercizio dell’attività dichiarata senza il
bisogno dell’intermediazione preventiva di un
provvedimento amministrativo.
Va ancora osservato che la
qualificazione del silenzio in parola alla stregua di
atto tacito di diniego del provvedimento inibitorio
chiarisce la portata del richiamo dell’articolo 19,
comma 3, della legge n. 241/1990 alle disposizioni di
cui all’art. 21 quinquies e 21 nonies in quanto
l’esercizio del potere di autotutela si traduce nel
superamento della precedente determinazione favorevole
al denunciante.
Da ultimo, la qualificazione del
silenzio in esame come provvedimento tacito, onerando il
terzo portatore dell’interesse pretensivo leso al
rispetto del termine decadenziale di impugnazione,
soddisfa l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici
ed il principio comunitario di tutela dell’affidamento
legittimo del denunciante consolidatosi a seguito del
decorso del tempo.
6.3. La configurazione del silenzio
in esame alla stregua di silenzio significativo produce,
infatti, precise conseguenze in merito alle tecniche di
tutela praticabili del terzo controinteressato
all’esercizio dell’attività denunciata.
Venendo in rilievo un provvedimento
per silentium, la tutela del terzo sarà affidata
primariamente all’esperimento di un’azione impugnatoria,
ex art. 29 del codice del processo amministrativo, da
proporre nell’ordinario termine decadenziale.
Quanto al dies a quo del ricorso
per annullamento, ai sensi di legge il termine
decadenziale di sessanta giorni per proporre l'azione
prende a decorrere solo dal momento della piena
conoscenza dell’adozione dell’atto lesivo (cfr. art. 41,
comma 2, del codice).
A tale proposito, ai fini
dell’accertamento della conoscenza dell’atto lesivo,
trovano applicazione i principi interpretativi
consolidati, elaborati in materia di impugnazione di
provvedimenti in materia edilizia e urbanistica.
Alla stregua del condivisibile
orientamento interpretativo di questo Consiglio (Sez.
VI, n. 717/2009 cit.), la decorrenza del termine
decadenziale, in materia edilizia, non può essere di
norma fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno
avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già
specificato per l'impugnazione dei titoli abilitativi
edilizi, il termine inizia a decorrere quando la
costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco
le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale
non conformità della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica. Ne deriva che, in mancanza di altri ed
inequivoci elementi probatori, il termine per
l’impugnazione decorre non con il mero inizio dei
lavori, bensì con il loro completamento (così Cons.
Stato, Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 18, secondo cui il
termine per ricorrere in sede giurisdizionale da parte
dei terzi avverso atti abilitativi dell'edificazione
decorre da quando sia percepibile la concreta entità del
manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria
posizione giuridica; Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre
2010, n. 8705, ad avviso della quale il completamento
dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere
la data della piena conoscenza del titolo edilizio,
salvo che venga fornita la prova di una conoscenza
anticipata).
Va soggiunto che, nel caso in cui
la piena conoscenza della presentazione della d.i.a.
avvenga in uno stadio anteriore al decorso del termine
per l’esercizio del potere inibitorio, il dies a quo
coinciderà con il decorso del termine per l’adozione
delle doverose misure interdittive.
6.4. Ci si deve chiedere, a questo
punto, se l’azione di annullamento proposta dal terzo
possa essere ritualmente accompagnata, ai fini del
completamento della tutela, dall’esercizio di un’azione
di condanna dell’amministrazione all’esercizio del
potere inibitorio.
6.4.1. Con la decisione 23 marzo
2011, n. 3, questa Adunanza, nel dare risposta positiva
al quesito generale relativo all’esperibilità di
un’azione di condanna pubblicistica all’esercizio del
potere autoritativo in materia di interessi pretensivi,
ha fatto leva sulla disciplina dettata dal codice del
processo amministrativo in materia di tecniche di tutela
dell’interesse legittimo.
Il codice, infatti, portando a
compimento un lungo e costante processo evolutivo e
dando attuazione armonica ai principi costituzionali e
comunitari in materia di pienezza ed effettività della
tutela giurisdizionale, oltre che ai criteri di delega
fissati dall'art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
ha ampliato le tecniche di tutela dell'interesse
legittimo mediante l'introduzione del principio della
pluralità delle azioni. Si sono, quindi, aggiunte alla
tutela di annullamento la tutela di condanna
(risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela
dichiarativa (con l'azione di nullità del provvedimento
amministrativo ex art. 31, comma 4) e, in materia di
silenzio-inadempimento, l'azione di condanna (cd. azione
di esatto adempimento) all'adozione del provvedimento,
anche previo accertamento, nei casi consentiti, della
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31,
commi da 1 a 3).
Si è nell’occasione osservato che
il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sia pure
in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche
in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e
sempre che non vi osti la sussistenza di profili di
discrezionalità amministrativa o tecnica, l'azione di
condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto
amministrativo richiesto. Ciò alla stregua del combinato
disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento
all'azione di condanna senza la tipizzazione dei
relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si
sofferma la relazione governativa di accompagnamento al
codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si
stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere
l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione
soggettiva dedotta in giudizio (cfr., con riguardo al
quadro normativo anteriore, Cons. Stato, Sez. VI, 15
aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717).
In definitiva, l’architettura del
codice, in coerenza con il criterio di delega fissato
dall'art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18
giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale
limitazione della tutela dell'interesse legittimo al
solo modello impugnatorio, ammettendo l'esperibilità di
azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa
della parte vittoriosa.
Di qui, la trasformazione del
giudizio amministrativo, ove non vi si frapponga
l'ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività
discrezionali riservate alla pubblica amministrazione,
da giudizio amministrativo sull'atto, teso a vagliarne
la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede
di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere
amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal
medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della
pretesa sostanziale azionata.
Va poi osservato che, secondo la
ricostruzione offerta dalla richiamata decisione
dell’Adunanza Plenaria, alla stregua dell'inciso
iniziale del comma 1 dell'art. 30, salvi i casi di
giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo
(segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a
tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al
medesimo articolo (relativi proprio alle domande di
risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi
commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere
proposta solo contestualmente ad altra azione in guisa
da dar luogo ad un simultaneus processus che obbedisce
ai principi di concentrazione processuale ed economia
dei mezzi giuridici. Ne deriva che la domanda tesa ad
una pronuncia che imponga l'adozione del provvedimento
satisfattorio non è ammissibile se non accompagnata
dalla rituale e contestuale proposizione della domanda
di annullamento del provvedimento negativo (o del
rimedio avverso il silenzio ex art. 31).
6.4.2. Applicando dette coordinate
ermeneutiche al caso che ne occupa si deve concludere
che il terzo è legittimato all’esercizio, a
completamento ed integrazione dell’azione di
annullamento del silenzio significativo negativo,
dell’azione di condanna pubblicistica (cd. azione di
adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga
all’amministrazione l’adozione del negato provvedimento
inibitorio ove non vi siano spazi per la
regolarizzazione della denuncia ai sensi del comma 3
dell’art. 19 della legge n. 241/1990.
La proposizione di detta azione è,
infatti, coerente, sul piano processuale, con il
ricordato disposto dell’art. 30, comma 1, del codice,
trattandosi di domanda proposta contestualmente a quella
di annullamento.
Risultano rispettati anche i limiti
posti dall’art. 31, comma 3, visto che lo jussum
giurisdizionale non produce un’indebita ingerenza
nell’esercizio di poteri discrezionali riservati alla
pubblica amministrazione ma, sulla scorta
dell’accertamento dell’esistenza dei presupposti per il
doveroso potere inibitorio, impone una determinazione
amministrativa non connotata da alcun profilo di
discrezionalità.
Si deve soggiungere che tale
soluzione, anticipando alla fase della cognizione un
effetto conformativo da far valere altrimenti nel
giudizio di ottemperanza, consente un’accelerazione
della tutela coerente, oltre che con il generale
principio di effettività della tutela giurisdizionale,
con la stessa propensione mostrata dal codice (cfr. art.
34, comma 1, lett. e) a trasfondere nel contenuto della
sentenza di cognizione l’adozione di misure attuative
tradizionalmente proprie dell’esecuzione.
Alla stregua di consolidati
principi giurisprudenziali, la proposizione di detta
azione di condanna, in aggiunta e a completamento di
quella di annullamento, deve essere valutata sulla
scorta dell’apprezzamento della portata effettiva del
ricorso alla luce del petitum sostanziale in esso
contenuto.
6.5. Tanto detto circa le
coordinate della tutela azionabile dal terzo dopo il
perfezionamento della decisione amministrativa di non
adottare la misura inibitoria, si pone l’ulteriore
problema relativo agli spazi di accesso alla giustizia
amministrativa rivendicabili dal terzo che subisca una
lesione in un arco di tempo anteriore al decorso del
termine perentorio fissato dalla legge per l’esercizio
di tale potere.
Infatti, specie alla luce
dell’introduzione della d.i.a. a legittimazione
immediata e dell’avvento della s.c.i.a., è possibile che
l’attività denunciata abbia inizio prima della
formazione del provvedimento negativo suscettibile di
impugnazione. Detta eventualità è peraltro configurabile
anche con riguardo al generale modello della d.i.a. a
legittimazione differita di cui al previgente art. 19
della legge n. 241/1990, in virtù del quale il
dichiarante è legittimato all’esercizio dell’attività
trenta giorni dopo la presentazione della dichiarazione
mentre il potere inibitorio è esercitabile entro i
trenta giorni dalla comunicazione dell’avvenuto inizio
dell’attività stessa.
Ci si deve allora chiedere se il
terzo possa agire in giudizio, nello spatium temporis
che separa il momento in cui la d.i.a. produce effetti
legittimanti dalla scadenza del termine per l’esercizio
del potere inibitorio, al fine di ottenere una pronuncia
che impedisca l’inizio o la prosecuzione, con effetti
anche irrimediabilmente lesivi dell’attività dichiarata,
non essendo accettabile in linea di principio che vi
possa essere un “periodo morto” (non coperto cioè
neanche dalla tutela ante causam di cui si dirà in
seguito) in cui un interesse rimanga privo di tutela.
Un’azione deve essere dunque esperibile per garantire la
verifica dei presupposti di legge per l’esercizio
dell’attività oggetto di denuncia. Osserva il Collegio
che, non essendosi ancora perfezionato il provvedimento
amministrativo tacito e non venendo in rilievo un
silenzio-rifiuto, l’unica azione esperibile è l’azione
di accertamento tesa ad ottenere una pronuncia che
verifichi l’insussistenza dei presupposti di legge per
l’esercizio dell’attività oggetto della denuncia, con i
conseguenti effetti conformativi in ordine ai
provvedimenti spettanti all’autorità amministrativa.
L’Adunanza deve al riguardo farsi
carico del duplice problema dell’ammissibilità di
un’azione atipica e della compatibilità di detta azione,
nel caso di specie, con il limite fissato dal comma 2
dell’art. 34 del codice del processo in punto di divieto
dell’adozione di pronunce con riguardo a poteri non
ancora esercitati.
6.5.1. Quanto al primo aspetto,
l’Adunanza, in adesione alla tesi già sostenuta da
questo Consiglio, con riguardo al panorama normativo
anteriore al decreto legislativo n. 104/2010 (Sez. VI,
decisioni n. 717/2009, 2139/2010, citt.), reputa che
l’assenza di una previsione legislativa espressa non
osti all’esperibilità di un’azione di tal genere quante
volte, come nella specie, detta tecnica di tutela sia
l’unica idonea a garantire una protezione adeguata ed
immediata dell’interesse legittimo.
Sviluppando il discorso già avviato
dall’Adunanza Plenaria con la richiamata decisione n.
3/2011, si deve, infatti, ritenere che, nell’ambito di
un quadro normativo sensibile all’esigenza
costituzionale di una piena protezione dell’interesse
legittimo come posizione sostanziale correlata ad un
bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale
del codice del processo, dell’azione generale di
accertamento non precluda la praticabilità di una
tecnica di tutela, ammessa dai principali ordinamenti
europei, che, ove necessaria al fine di colmare esigenze
di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo
adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle
norme immediatamente precettive dettate dalla Carta
fondamentale al fine di garantire la piena e completa
protezione dell’interesse legittimo (artt. 24, 103 e
113).
Anche per gli interessi legittimi,
infatti, come pacificamente ritenuto nel processo civile
per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale
impone di riconoscere l'esperibilità dell'azione di
accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti
i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare,
una simile azione risulti indispensabile per la
soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del
ricorrente.
A tale risultato non può del resto
opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto
corollario indefettibile dell'effettività della tutela è
proprio il principio della atipicità delle forme di
tutela.
In questo quadro la mancata
previsione, nel testo finale del codice, di una norma
esplicita sull’azione generale di accertamento, non è
sintomatica della volontà legislativa di sancire una
preclusione di dubbia costituzionalità, ma è spiegabile,
anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori
preparatori, con la considerazione che le azioni
tipizzate, idonee a conseguire statuizioni dichiarative,
di condanna e costitutive, consentono di norma una
tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce
meramente dichiarative in cui la funzione di
accertamento non si appalesa strumentale all’adozione di
altra pronuncia di cognizione ma si presenta, per così
dire, allo stato puro, ossia senza sovrapposizione di
altre funzioni. Ne deriva, di contro, che, ove dette
azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il
bisogno di tutela, l’azione di accertamento atipica, ove
sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex
art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle
coordinate costituzionali e comunitarie richiamate dallo
stesso art 1 del codice oltre che dai criteri di delega
di cui all’art. 44 della legge n. 69/2009.
Tale evenienza ricorre proprio con
riguardo alla tutela invocata dal terzo al cospetto
della presentazione di una denuncia pregiudizievole,
quante volte la denuncia, producendo un effetto
legittimante istantaneo, o comunque anticipato rispetto
al decorso del termine per l’esercizio del potere
inibitorio, possa produrre effetti lesivi che fanno
nascere l’interesse ad agire in giudizio in un momento
anteriore alla definizione del procedimento
amministrativo.
La soluzione è suffragata anche da
un’interpretazione sistematica delle norme dettate dal
codice del processo amministrativo che, pur difettando
di una disposizione generale sull’azione di mero
accertamento, prevedono la definizione del giudizio con
sentenza di merito puramente dichiarativa agli artt. 31,
comma 4 (sentenza dichiarativa della nullità), 34, comma
3 (sentenza dichiarativa dell’illegittimità quante volte
sia venuto meno l’interesse all’annullamento e persista
l’interesse al risarcimento), 34, comma 5 (sentenza di
merito dichiarativa della cessazione della materia del
contendere), 114, comma 4, lett. b (sentenza
dichiarativa della nullità degli atti adottati in
violazione od elusione del giudicato).
Soprattutto, l’azione di
accertamento è implicitamente ammessa dall’art. 34,
comma 2, del codice del processo amministrativo, secondo
cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con
riferimento a poteri amministrativi non ancora
esercitati”. Detta disposizione, che riproduce
l’identica formulazione contenuta nella soppressa norma
del testo approvato dalla Commissione del Consiglio di
Stato, dedicata all’azione generale di accertamento,
vuole evitare, in omaggio al principio di separazione
dei poteri, che il giudice si sostituisca alla pubblica
amministrazione esercitando una cognizione diretta di
rapporti amministrativi non ancora sottoposti al vaglio
della stessa. Detta disposizione non può che operare per
l’azione di accertamento, per sua natura caratterizzata
da tale rischio di indebita ingerenza, visto che le
altre azioni tipizzate dal codice sono per definizione
dirette a contestare l’intervenuto esercizio (od omesso
esercizio) del potere amministrativo.
6.5.2. Si deve a questo punto
valutare se, nel caso della d.i.a., l’esperimento, da
parte del terzo, di un’azione di accertamento volta ad
evitare gli effetti lesivi derivanti dall’esercizio
dell’attività nel limitato arco di tempo prima
descritto, violi il limite sancito dal citato art. 34,
comma 2, del codice.
Tale norma è contenuta in una
disposizione relativa alle sentenze di merito e fa
divieto al giudice di pronunciare su “poteri non ancora
esercitati”.
E’ indubbio, quindi, che fino al
termine di conclusione del procedimento il giudice non
possa adottare una pronuncia di merito. Tale impedimento
cessa però alla scadenza del termine predetto, che
implica la definizione della procedura con l’esercizio
del potere nei sensi prima esposti.
Per i ricorsi proposti
anteriormente all’esercizio del potere inibitorio e a
partire dal momento in cui la d.i.a. produce effetti
giuridici legittimanti si deve fare applicazione del
consolidato insegnamento giurisprudenziale che distingue
tra i presupposti processuali - ossia i requisiti che
devono sussistere ai fini della instaurazione del
rapporto processuale - che devono esistere sin dal
momento della domanda, e le condizioni dell’azione -
ossia i requisiti della domanda che condizionano la
decidibilità della controversia nel merito - che devono
esistere al momento della decisione (cfr. Cass., sez. I,
9 ottobre 2003, n. 15082; conf. Cass. 8338/2000;
4985/1998; Sez. un. 1464/1983; 3940/1988; Cass., Sez.
lav., n. 1052/1995).
Nella specie, la scadenza del
termine di conclusione del procedimento è un fatto
costitutivo integrante una condizione dell’azione che,
ai sensi del disposto dell’art. 34, comma 2, cit., deve
esistere al momento della decisione.
Ne deriva che l’assenza del
definitivo esercizio di un potere ancora in fieri,
afferendo ad una condizione richiesta ai fini della
definizione del giudizio, non preclude l’esperimento
dell’azione giudiziaria anche se impedisce l’adozione di
una sentenza di merito ai sensi del citato capoverso
dell’art. 34.
Per converso, in ossequio ai
principi prima ricordati in tema di effettività e di
pienezza della tutela giurisdizionale, di cui la tutela
interinale è declinazione fondamentale, il giudice
amministrativo può adottare, nella pendenza del giudizio
di merito, le misure cautelari necessarie, ai sensi
dell’art. 55 del codice del processo amministrativo, al
fine di impedire che, nelle more della definizione del
procedimento amministrativo di controllo e della
conseguente maturazione della condizione dell’azione,
l’esercizio dell’attività denunciata possa infliggere al
terzo un pregiudizio grave ed irreparabile.
Sono adottabili, a fortiori, misure
cautelari ante causam, al fine di assicurare gli effetti
della sentenza di merito, in presenza dei presupposti
all’uopo sanciti dall’art. 61 del codice del processo
amministrativo. La proposizione della domanda ante
causam può essere idonea a soddisfare l’esigenza di
piena tutela del terzo anche senza la proposizione
dell’azione di accertamento laddove i termini di legge
(art. 61, comma 5) entro i quali la misura provvisoria
conserva i suoi effetti prima dell’introduzione del
giudizio di merito relativo al silenzio provvedimentale,
siano in concreto compatibili con la preservazione delle
ragioni interinali del terzo.
La possibilità di adottare misure
cautelari prima della definizione del procedimento
amministrativo è confortata anche dalla considerazione
che la misura provvisoria si appunta su un rapporto
amministrativo già sottoposto al vaglio della pubblica
amministrazione con la presentazione della denuncia di
inizio attività e con la conseguente attivazione della
procedura amministrativa finalizzata all’adozione degli
eventuali provvedimenti inibitori. Se si aggiunge che
l’interesse del terzo ad agire insorge sin da quanto il
denunciante è abilitato all’esercizio dell’attività
lesiva, si deve concludere che l’azione di accertamento
proposta in via anticipata consente l’adozione di misure
cautelari che, lungi dall’implicare una non consentita
sostituzione nell’esercizio del potere di controllo,
mira ad evitare che l’utilità dell’eventuale adozione
della misura inibitoria adottata all’esito
dell’esercizio del potere possa essere vanificata dagli
effetti medio temporesortiti dall’esplicazione
dell’attività denunciata.
6.5.3. Una volta spirati i termini
di legge per la definizione del procedimento con il
conseguente pieno esercizio del potere amministrativo,
verrà a configurarsi la condizione dell’azione mancante,
con conseguente rimozione dell’ostacolo frapposto
dall’articolo 34, comma 2, alla definizione del
giudizio.
Occorre all’uopo distinguere a
seconda che la p.a. adotti o meno il provvedimento di
divieto, satisfattorio dell’interesse del terzo.
In caso positivo si registrerà la
cessazione della materia del contendere, ex art. 34,
comma 5, del codice del processo, in ragione della piena
soddisfazione della pretesa del ricorrente ad evitare lo
svolgimento dell’attività dichiarata.
In caso negativo il giudice potrà
pronunciarsi sul merito del ricorso senza che sia
all’uopo necessaria la proposizione, da parte del terzo
ricorrente, di motivi aggiunti, exart. 43 del codice.
Va, infatti, osservato che oggetto
dell’accertamento invocato con l’azione iniziale non può
essere solo la mera sussistenza o insussistenza dei
presupposti per svolgere l'attività sulla base di una
semplice denuncia ma, in coerenza con i caratteri della
giurisdizione amministrativa come giurisdizione avente
ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo ai
sensi dell’articolo 7, comma 1, del codice, la
sussistenza o l’insussistenza dei presupposti per
l'adozione dei provvedimenti interdittivi doverosi, e,
quindi, la fondatezza dell’ interesse pretensivo
all’uopo azionato del terzo. Si tratta, del resto, di
due aspetti strettamente connessi visto che alla
verifica dell’inesistenza dei presupposti previsti dalla
legge per lo svolgimento dell’attività dichiarata segue,
in via indefettibile, in mancanza di spazi per la
regolarizzazione, l’intervento della vincolata
determinazione interdittiva.
Ne deriva che, in forza del
principio di economia processuale, l’azione di
accertamento, una volta maturato il termine per la
definizione del procedimento amministrativo, si converte
automaticamente in domanda di impugnazione del
provvedimento sopravvenuto in quanto la portata
sostanziale del ricorso iniziale finisce per investire
in pieno, sul piano del petitum sostanziale e della
causa petendi, la decisione della pubblica
amministrazione di non adottare il provvedimento
inibitorio. E tanto specie se si considera che detto
silenzio provvedimentale non introduce, per sua natura,
elementi motivazionali che richiedano una specifica
contestazione con una nuova iniziativa processuale.
Resta salva la facoltà dell’articolazione di motivi
aggiunti suggeriti dalle risultanze dell’ istruttoria
svolta dall’amministrazione o dalla sopravvenienza di
nuovi elementi. La proposizione di motivi aggiunti sarà
invece onerosa, pena l’improcedibilità del ricorso già
presentato, nell’ipotesi in cui la pubblica
amministrazione, all’esito del procedimento
amministrativo inaugurato con la presentazione della
d.i.a., adotti un atto espresso che evidenzi le ragioni
della mancata adozione della determinazione inibitoria.
7. Applicando le coordinate fin qui
esposte al caso di specie si deve pervenire al rigetto
dell’appello.
Non merita, infatti, accoglimento
il motivo con cui si pretende di ricavare dalla pur
corretta premessa della qualificazione della d.i.a. come
atto oggettivamente e soggettivamente privato la
conseguenza dell’inammissibilità della domanda di
annullamento proposta in prime cure dall’odierno
appellato.
In applicazione della regola oggi
sancita dall’art. 32, comma 2, del codice del processo
amministrativo, ricognitiva di un principio già
elaborato dalla giurisprudenza, la domanda di primo
grado, pur essendo atecnicamente rivolta
all’impugnazione della d.i.a., è riqualificabile,
contenendone tutti elementi formali e sostanziali, come
domanda che, sulla scorta dell’accertamento
dell’illegittimità dell’attività denunciata, mira a
contestare la decisione della pubblica amministrazione
di non vietare l’attività oggetto della dichiarazione.
Ne deriva che va confermato
l’accoglimento della domanda sancito con la sentenza
appellata, pur con la suddetta riqualificazione della
domanda stessa e la conseguente correzione della
motivazione della sentenza.
8. L’appello non reca invece alcuna
censura in ordine ai motivi sostanziali che hanno
condotto all’accoglimento del ricorso in primo grado in
relazione alla violazione del divieto di aggravamento
della servitù. La sentenza deve quindi essere, sotto
tale aspetto, integralmente confermata. Ne consegue
l’improcedibilità del ricorso incidentale subordinato
proposto dal Dovesi.
9. La complessità delle questioni
di diritto affrontate, fonte di contrasti
giurisprudenziali, giustifica la compensazione delle
spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
definitivamente pronunciando
sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e
conferma, con diversa motivazione, la sentenza
appellata.
Dichiara l’improcedibilità del
ricorso incidentale.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nelle camera
di consiglio del 2 maggio e del 4 luglio 2011 con
l'intervento dei magistrati:
Pasquale de Lise, Presidente del
Consiglio di Stato
Giancarlo Coraggio, Presidente di
Sezione
Gaetano Trotta, Presidente di
Sezione
Stefano Baccarini, Presidente
Pier Luigi Lodi, Presidente
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marco Lipari, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere,
Estensore
Anna Leoni, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI
STATO
L'ESTENSORE
IL SEGRETARIO
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/07/2011
(Art. 89, co. 3,
cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione |