Andrea M. dipendente della S.r.l.
Centro Ingrosso Detersivi è stato licenziato nel
febbraio del 2003 con motivazione riferita a crisi
aziendale. Egli ha chiesto al Tribunale di Palermo di
dichiarare la nullità del licenziamento perché
intimatogli per ritorsione alla sua richiesta di
pagamento di lavoro straordinario. Il Tribunale ha
dichiarato la nullità del licenziamento ordinando la
reintegrazione nel posto di lavoro e condannando la
società al risarcimento del danno. Questa decisione è
stata confermata in grado di appello dalla Corte di
Palermo, che ha ritenuto insussistente la dedotta
esigenza di riduzione del personale ed ha rilevato che
poco prima del licenziamento di Andrea M. la S.r.l.
C.I.D. aveva assunto un altro dipendente. Da tale
circostanza la Corte ha, tra l'altro, desunto la
mancanza di prova della impossibilità di adibire il
lavoratore licenziato ad altri compiti. L'azienda ha
proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
della Corte di Palermo per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n.
16925 del 3 agosto 2011, Pres. Vidiri, Rel. Zappia) ha
rigettato il ricorso. Secondo una consolidata
giurisprudenza - ha ricordato la Corte - il motivo
oggettivo di licenziamento determinato da ragioni
inerenti all'attività produttiva (art. 3 legge n. 604
del 1966) deve essere valutato dal datore di lavoro,
senza che il giudice possa sindacare la scelta dei
criteri di gestione dell'impresa, poiché tale scelta è
espressione della libertà di iniziativa economica
tutelata dall'art. 41 della Costituzione. Al giudice
spetta invece il controllo della reale sussistenza del
motivo addotto dall'imprenditore, attraverso un
apprezzamento delle prove che è incensurabile in sede di
legittimità se congruamente motivato. Di conseguenza non
è sindacabile nei suoi profili di congruità ed
opportunità la scelta imprenditoriale che abbia
comportato la soppressione del settore lavorativo o del
reparto o del posto di lavoro cui era addetto il
dipendente licenziato, anche se la riorganizzazione sia
attuata per la più economica gestione dell'impresa, e
senza che la necessaria verifica dell'effettività delle
scelte comporti un'indagine in ordine ai margini di
convenienza e di onerosità dei costi connessi alla
suddetta riorganizzazione, con il solo limite del
controllo della reale sussistenza delle ragioni poste
dall'imprenditore a fondamento delle proprie scelte e
della effettività e non pretestuosità del riassetto
organizzativo operato. È stato altresì precisato che in
caso di licenziamento per soppressione del posto di
lavoro, ai fini della configurabilità del giustificato
motivo oggettivo, grava sul datore di lavoro l'onere
della prova relativa all'impossibilità dì impiego del
dipendente licenziato nell'ambito dell'organizzazione
aziendale, con la precisazione che siffatto onere,
concernendo un fatto negativo, deve essere assolto
mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi,
come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a
mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso,
stabilmente occupati, o il fatto che dopo il
licenziamento e per un congruo lasso di tempo non sia
stata effettuata alcuna assunzione nella stessa
qualifica (Cass. sez. lav., 13.10.2008 n. 25043; Cass.
sez. lav., 16.5.2003 n. 7717). Nella specie - ha
osservato la Cassazione - il giudice del gravame ha
fatto corretta applicazione di tali principi, sicché le
censure che il ricorrente muove alla sentenza impugnata
per violazione della legge n. 604 del 1966 sono
manifestamente infondate. Invero la Corte territoriale
ha rilevato la pretestuosità del dedotto riassetto
organizzativo reso necessario, secondo l'assunto
datoriale, dalla crisi economica derivante dalla
contrazione degli ordini, evidenziando come siffatta
argomentazione si poneva in stridente contrasto con
l'assunzione di altro dipendente, avvenuta pochi mesi
prima del licenziamento del Messina, adibito in larga
parte alle medesime incombenze cui era addetto il
ricorrente. La motivazione si appalesa corretta - ha
osservato la Cassazione -ove si osservi che la dedotta
situazione di crisi aziendale non può essere portata a
giustificazione dell'operato licenziamento laddove, in
costanza della stessa situazione di crisi, la società
aveva appena proceduto alla assunzione di altro
dipendente destinato allo svolgimento, in gran parte,
degli stessi compiti attribuiti al dipendente
licenziato.
La Corte ha anche osservato che
l'onere della prova della impossibilità di utilizzazione
del lavoratore licenziato in altre mansioni equivalenti
a quelle esercitate prima della ristrutturazione
aziendale, sotto il profilo che i residui posti di
lavoro erano al tempo del licenziamento occupati da
altri lavoratori, non può certamente essere eluso
mediante l'assunzione, a breve distanza di tempo prima
del licenziamento, di altro lavoratore con assegnazione
allo stesso, in maniera prevalente, degli stessi compiti
del lavoratore successivamente licenziato.
Per quanto concerne la ritenuta
natura ritorsiva del licenziamento la Corte ha rilevato
che il licenziamento discriminatorio, sancito dall'art.
4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge
n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del
1990, è suscettibile di interpretazione estensiva sicché
l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il
licenziamento per ritorsione o rappresaglia, attuati a
seguito di comportamenti risultati sgraditi
all'imprenditore, che costituisce cioè l'ingiusta ed
arbitraria reazione, quale unica ragione del
provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura
vendicativa (Cass. sez. lav., 18.3.2011 n. 6282). A ciò
si è pervenuto sia attraverso una estensione dell'area
dei singoli moventi vietati dall'art. 4 della citata
legge n. 604 del 1966, sia consentendo la verifica del
motivo illecito, che abbia avuto efficacia esclusiva
nella determinazione della volontà del recedente (Cass.
sez. lav., 3.5.1997 n. 3837).
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