Il licenziamento per ritorsione,
diretta o indiretta che questa sia, è un licenziamento
nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito,
sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi
del combinato disposto degli artt. 1418, 2° comma, 1345
e 1324 c.c.. Esso costituisce l'ingiusta e arbitraria
reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore
colpito (diretto) o di un'altra persona ad esso legata e
pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che
attribuisce al licenziamento il connotato della
ingiustificata vendetta. Siffatto tipo di licenziamento
è stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità,
data l'analogia di struttura, alla fattispecie di
licenziamento discriminatorio, vietato dagli artt. 4
della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del
1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - interpretate in
maniera estensiva - che ad esso riconnettono le
conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui
all'art. 18 S.L. (cfr, da ultimo, Cass. 18 marzo 2011 n.
6282). L'onere della prova della esistenza di un motivo
di ritorsione del licenziamento e del suo carattere
determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore
che deduce ciò in giudizio. Trattasi di prova non
agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di
presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non
secondario anche la dimostrazione della inesistenza del
diverso motivo addotto a giustificazione del
licenziamento o di alcun motivo ragionevole.
|