Nell'ambio delle videoregistrazioni
occorre distinguere fra quelle che implicano
l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni,
disciplinate dagli artt. 266 ss. c.p.p., e quelle
relative a comportamenti "non comunicativi", sprovviste
di apposita disciplina e non equiparabili alle prime in
quanto queste ultime non pongono un problema di
limitazione della libertà e segretezza delle
comunicazioni. Consegue che le riprese video di
comportamenti "non comunicativi" - anche se eseguite
dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa - vanno
incluse nella categoria delle prove atipiche, sono
soggette alla disciplina dettata dall'art. 189 c.p.p. ed
incontrano l'unico limite di non pregiudicare la libertà
morale della persona. In particolare, tali
videoregistrazioni non possono essere eseguite
all'interno del "domicilio", in quanto l'invasione della
sfera della libertà domiciliare è lesiva dell'art. 14
Cost.; ove invece effettuate altrove, esse sono lecite
e, costituendo prova irripetibile, sono utilizzabili e
possono essere validamente acquisite anche al fascicolo
del dibattimento
In sostanza, il discrimine della
liceità delle videoregistrazioni di comportamenti non
comunicativi ruota intorno alla nozione di "domicilio"
rilevante ex art. 14 Cost. Al riguardo questa Corte ha
precisato che il concetto di domicilio individua un
particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la
vita privata, in modo da sottrarre la persona da
ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza.
Per l'effetto, non possono essere considerati luoghi
privati quelli che difettano dei caratteri
dell'esclusività e della stabilità del godimento da
parte della persona videoripresa. In particolare, non
presentano queste caratteristiche, e quindi non possono
essere considerati quale privata dimora, i locali di un
ufficio pubblico, ove pure questo costituisca il luogo
di lavoro dell'indagato
Cassazione, Sez. II, 9 agosto 2011,
n. 31630
(Pres. Cosentino – Rel. D’Arrigo)
Osserva
Con l'ordinanza impugnata il
Tribunale di Lecce, provvedendo sull'istanza di riesame
proposta da L.L., in parziale accoglimento, ha
sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari
disposta nei suoi confronti dal g.i.p. del Tribunale di
Brindisi con ordinanza dell'11 novembre 2010 per il
reato di truffa aggravata ai danni della A.s.l. di … con
la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio
delle funzioni di medico convenzionato con enti
pubblici.
Avverso l'affievolimento del regime
cautelare ha proposto ricorso il Sostituto procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi,
deducendo la manifesta illogicità della motivazione ed
evidenziando che la decisione di sostituire la misura
cautelare degli arresti domiciliari con altra meno
afflittiva sarebbe in netto contrasto con la gravità
della condotta criminosa, ritenuta in vari passaggi
della motivazione dallo stesso tribunale del riesame. In
particolare, nell'ordinanza impugnata, con riferimento
al pericolo di reiterazione del reato, si da risalto
alla “elevatissima intensità del dolo”, desunta da
molteplici circostanze, e ciò sarebbe in contraddizione,
secondo i criteri di proporzionalità, adeguatezza e
gradualità delle misure cautelari, con la decisione di
sostituire gli arresti domiciliari con la riferita
misura interdittiva. Il p.m. ha inoltre censurato il
provvedimento impugnato, sempre sub specie di mancanza o
manifesta illogicità della motivazione, nella parte in
cui ha escluso il pericolo di inquinamento delle prove,
in considerazione dell'imponenza del materiale già
raccolto a carico del prevenuto, senza considerare che
persisterebbe tuttora il rischio di alterazione della
genuinità di una prova dichiarativa resa da soggetto in
condizioni di soggezione psicologica.
Ha proposto ricorso pure la
medesima L., allegando tre motivi. Col primo, censura il
provvedimento impugnato nella parte in cui ha ritenuto
utilizzabile come prova le videoregistrazioni effettuate
dalla polizia giudiziaria all'interno dei locali
dell'A.s.l. di …, da cui risulta visibile la falsa
marcatura del badge d'ingresso; sostiene al riguardo
che, essendo il luogo di lavoro equiparabile al privato
domicilio, le videoregistrazioni dovevano essere
motivatamente autorizzate dall'autorità giudiziaria. Col
secondo motivo si duole dell'inesistenza di gravi indizi
di colpevolezza, avuto riguardo al limitato numero di
ore di illegittima assenza contestate, che avrebbero
determinato un danno patrimoniale di modestissimo
rilievo e nessun effettivo disservizio. Col terzo ed
ultimo motivo, afferma l'inesistenza delle esigenze
cautelari prospettate, con particolare riguardo al
pericolo di reiterazione del reato.
Entrambi i ricorsi sono
inammissibili.
Conviene, in ordine logico,
esaminare per primo quello proposto dalla L..
Com'è noto, nell'ambio delle
videoregistrazioni occorre distinguere fra quelle che
implicano l'intercettazione di conversazioni o
comunicazioni, disciplinate dagli artt. 266 ss. c.p.p.,
e quelle relative a comportamenti "non comunicativi",
sprovviste di apposita disciplina e non equiparabili
alle prime in quanto queste ultime non pongono un
problema di limitazione della libertà e segretezza delle
comunicazioni (Corte cost. 13 febbraio 2002, n. 135; v.
pure Corte cost. 16 aprile 2008, n. 149). Consegue che
le riprese video di comportamenti "non comunicativi" -
anche se eseguite dalla polizia giudiziaria di propria
iniziativa - vanno incluse nella categoria delle prove
atipiche, sono soggette alla disciplina dettata
dall'art. 189 c.p.p. ed incontrano l'unico limite di non
pregiudicare la libertà morale della persona. In
particolare, tali videoregistrazioni non possono essere
eseguite all'interno del "domicilio", in quanto
l'invasione della sfera della libertà domiciliare è
lesiva dell'art. 14 Cost.; ove invece effettuate
altrove, esse sono lecite e, costituendo prova
irripetibile, sono utilizzabili e possono essere
validamente acquisite anche al fascicolo del
dibattimento (Cass. sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795).
In sostanza, il discrimine della
liceità delle videoregistrazioni di comportamenti non
comunicativi ruota intorno alla nozione di "domicilio"
rilevante ex art. 14 Cost. Al riguardo questa Corte ha
precisato che il concetto di domicilio individua un
particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la
vita privata, in modo da sottrarre la persona da
ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza
(Cass. sez. un. 28 marzo 2006, n. 26795). Per l'effetto,
non possono essere considerati luoghi privati quelli che
difettano dei caratteri dell'esclusività e della
stabilità del godimento da parte della persona
videoripresa. In particolare, non presentano queste
caratteristiche, e quindi non possono essere considerati
quale privata dimora, i locali di un ufficio pubblico,
ove pure questo costituisca il luogo di lavoro
dell'indagato (Cass. 28 settembre 2010, n. 37751; Cass.
10 gennaio 2003, n. 3443).
Tale equipollenza, nel caso di
specie, deve essere esclusa a fortiori appena si
consideri che le videoregistrazioni sono state effettate
dalla polizia giudiziaria all'ingresso dei locali
dell'A.s.l. di …, quindi in un punto di transito
quantomeno di tutti gli impiegati, se non anche degli
utenti dei servizi sanitari.
Sotto questo profilo il ricorso
dell'indagata è quindi infondato.
La seconda e la terza censura sono
in punto di fatto e quindi inammissibili. Vale in
proposito quanto a breve si dirà per il ricorso del
P.M., che è parimenti inammissibile per la medesima
ragione.
Il ricorso proposto dalla L. deve
essere, pertanto, dichiarato inammissibile con
conseguente condanna alle spese processuali ed alla pena
pecuniaria, potendosi ravvisare profili di colpa nella
causa di inammissibilità.
Passando all'esame del ricorso del
p.m., si deve rilevare che le doglianze dallo stesso
rassegnate attengono unicamente al merito della
decisione e non danno luogo a censure che possano
trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
Questa Corte ha ripetutamente
affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o
contraddittoria solo quando emergono elementi di
illogicità o contraddizioni di tale macroscopica
evidenza da rivelare una totale estraneità fra le
argomentazioni adottate e la soluzione decisionale
(Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini,
occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice,
la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua
analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai
requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità
del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata
e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle
ragioni che possono aver indotto a disattendere le
critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15
novembre 1996, n. 10456).
Tale vizio non ricorre nel caso di
specie, dal momento che il giudice di appello ha esposto
un ragionamento argomentativo coerente, completo e privo
di macroscopiche discontinuità logiche.
Il tribunale del riesame ha, in
particolare, escluso il rischio di inquinamento delle
prove, essendo stato ormai raggiunto un abbondante
supporto probatorio a sostegno dell'accusa. La
valutazione circa la ricorrenza dell'esigenza cautelare
di specie trova fondamento nell'apprezzamento di merito
sull'adeguatezza e la solidità del materiale probatorio
acquisito e, pertanto, non è suscettibile di censure in
sede di legittimità, se non negli stringenti limiti
sopra rappresentati.
Il p.m. sostiene che il tribunale
del riesame avrebbe sottovalutato il rischio di
alterazione della genuinità della prova dichiarativa
resa da alcuni dipendenti di una ditta di pulizia
esterna alla struttura sanitaria, che hanno sostenuto di
essere stati in condizione di soggezione rispetto al
personale dipendente ed ai medici dell'A.s.l., tanto da
non poter negare la "cortesia" di marcare il badge per
loro conto. In realtà, tale atteggiamento reverenziale è
stato indicato dagli stessi dichiaranti a parziale
giustificazione della condotta agevolatrice da loro
posta in essere, a suo tempo, a favore del personale
strutturato dell'A.s.l.; non vi è, quindi, alcun
argomento per inferire che quell'atteggiamento di
compiacenza (piuttosto che di sudditanza psicologica) si
perpetui tutt'oggi, in relazione alla prova assunta, e
si traduca nel concreto rischio di alterazione della
stessa.
Il tribunale del riesame ha invece
affermato il rischio di reiterazione del reato,
sottolineando la sistematicità della falsa marcatura del
badge e la particolare accondiscendenza del prevenuto
nei confronti di chiunque fra i dipendenti intendesse
adottare la medesima condotta, nel quadro di una sorta
di mercato di scambio di favori illeciti e di condotte
agevolatrici reciproche. In ordine alla graduazione
della misura cautelare, si è limitato ad un generico
richiamo ai criteri di proporzionalità, adeguatezza e
gradualità.
Ma dal corpo dell'intera
motivazione si ricava comunque che la condotta
incriminata, pur se apostrofata in termini di gravità,
evidentemente non è apparsa idonea a generare un allarme
sociale talmente serio da giustificare l'adozione di una
misura restrittiva della libertà personale: la
circostanza che il reato si sia consumato nel contesto
di un rapporto di prestazione d'opera alle dipendenze
della struttura sanitaria pubblica fa si che per
scongiurare la reiterazione del reato risulta
sufficiente la recisione di quel rapporto mediante
l'adozione della sola misura interdittiva.
Anche il ricorso del p.m. va,
pertanto, dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso
del p.m. Dichiara inammissibile il ricorso della L. e
condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali ed al pagamento di Euro 1.000,00 alla Cassa
delle ammende.
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