Il proprietario di un
appartamento sito in un edificio condominiale non può
eseguire nella sua proprietà esclusiva opere che, in
contrasto con quanto stabilito dalla norma dell'art.
1122 c.c., rechino danno alle parti comuni dell'edificio
stesso, né, a maggior ragione, opere che, attraverso
l'utilizzazione delle cose comuni, danneggino le parti
di una unità immobiliare di proprietà esclusiva di un
altro condomino
Cassazione, sez. II, 11 luglio
2011, n. 15186
(Pres. Triola – Rel. Petitti)
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 19
aprile 1995, M.D.B.A., proprietaria di un appartamento
sito in (omissis), conveniva in giudizio, dinnanzi al
Tribunale di Roma, D.A., proprietaria dell'appartamento
sottostante, chiedendo che venisse condannata alla
demolizione della veranda che la stessa aveva realizzato
sul proprio balcone in violazione delle norme sulle
distanze.
Costituitasi in giudizio, la D.
contestava la domanda eccependo in via preliminare la
prescrizione ventennale del diritto dell'attrice, e
deducendo che era stata autorizzata dal condominio a
ristrutturare la veranda.
L'adito Tribunale, con sentenza
depositata il 7 marzo 2001, in parziale accoglimento
della domanda attrice, condannava la D. ad eliminare
dalla veranda costruita sul suo
terrazzo la copertura in eternit e
a costruire il tetto in vetro.
Avverso questa sentenza ha proposto
appello la M..
Nella resistenza della D., la Corte
d'appello di Roma, con sentenza depositata il 19 gennaio
2005, in riforma della impugnata sentenza, ha condannato
la D. al ripristino dello stato dei luoghi previa
demolizione della veranda.
La Corte d'appello ha innanzitutto
ritenuto che le delibere dell'assemblea del condominio
di via del … non potevano incidere sui diritti esclusivi
dei condomini, a meno che le limitazioni alle rispettive
proprietà esclusive non fossero state convenzionalmente
accettate. Ha quindi rilevato che l'assemblea del 26
marzo 1985 "autorizzò la Sig.ra D. ad installare una
veranda in vetro e alluminio anodizzato sul proprio
balcone" solo dietro regolare autorizzazione preventiva
della autorità comunali e nel rispetto dei diritti dei
terzi e dei condomini; che, successivamente, la medesima
assemblea prese atto della mancata ottemperanza a quanto
in precedenza deliberato, sia perché la veranda non
presentava una copertura in vetro, sia perché non era
stata esibita all'amministratore la necessaria
concessione edilizia, e diede mandato all'amministratore
di diffidare la D. ad ottemperare a quanto deliberato;
che la D. procedette ad un nuovo intervento
edificatorio, ripristinando la copertura con tetto in
eternit ondulato, realizzando in tal modo una vera, e
propria costruzione, appoggiata per un lato al muro
comune dell'edificio condominiale e, per l'altro, al
muretto di recinzione del proprio balcone; che nel
giudizio di primo grado, in sede di accertamento
tecnico, era emerso che la veranda era stata realizzata
senza il rispetto delle distanze legali previste in
altezza (tre metri dalla soglia del piano superiore:
art. 907, terzo comma, cod. civ.), a tutela del diritto
di veduta diretta e obliqua del proprietario del piano
superiore, in quanto tra la tettoia del manufatto e la
soglia della finestra della M. vi era una distanza in
verticale di un metro.
La Corte d'appello ha pertanto
ritenuto fondato il gravame, disattendendo la deduzione
dell'appellata circa la preesistenza della veranda,
osservando in proposito che nello stesso atto di
acquisto del 2 febbraio 1979 non vi era alcuna menzione
della preesistenza di una veranda coperta, essendovi
solo il riferimento a un terrazzo a livello. I testi
escussi, poi, avevano escluso la esistenza di una
veranda sul terrazzo dell'appellata nel periodo in cui
loro stessi avevano occupato quell'appartamento, e cioè
dal 1967 al 1986, Solo nel 1985 del resto l'appellata
chiese al condominio l'autorizzazione ad installare ex
novo nella propria terrazza una veranda e non già a
procedere all'ammodernamento o alla ristrutturazione
della veranda preesistente.
Per la cassazione di questa
sentenza, ha proposto ricorso D.A. sulla base di tre
motivi, cui ha resistito, con controricorso, A..M.D.B..
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente
denuncia violazione degli artt. 907 e 1135 c.c., nonché
contraddittorietà della motivazione.
Richiamata la delibera
dell'assemblea condominiale del 26 marzo 1985, e in
particolare la parte del verbale in cui si dava atto che
“il condominio si esonera di ogni lite che verrà rivolta
alla sig.ra D. da eventuali terzi e non riconoscerà
danni che verranno causati dalla suddetta veranda”, la
ricorrente censura la sentenza impugnata laddove, nel
riportare il contenuto della citata delibera
assembleare, aveva ritenuto che la stessa avesse fatto
salvi i diritti anche dei condomini, non potendo questi
ultimi essere qualificati terzi rispetto alla
deliberazione assunta dall'assemblea condominiale. Ove
la Corte d'appello avesse rettamente inteso il senso
della delibera, avrebbe dovuto concludere che nella
specie i condomini avevano autorizzato la realizzazione
della veranda e contestualmente accettato il conseguente
ampliamento dell'uso della cosa comune in suo favore. La
stessa M., del resto, aveva prestato il proprio consenso
alla citata delibera e non aveva quindi contestato il
diritto di essa ricorrente di realizzare la veranda.
L'unica condizione apposta era quella che essa si
munisse delle necessarie autorizzazioni comunali, ma
nessuna riserva era formulata quanto all'osservanza
delle norme sulle distanze, sicché la M. non era più
legittimata a contrastare l'uso della cosa comune da
parte di essa ricorrente, avendo accettato la
limitazione al bene di proprietà esclusiva. Non a caso,
quindi, nella delibera assembleare si facevano salvi i
diritti dei terzi, avendo i condomini già manifestato la
propria volontà in ordine alla realizzazione della
veranda e alle conseguenti limitazioni ai propri
diritti.
Con il secondo motivo, la
ricorrente denuncia violazione degli artt. 907, 1102 e
1122 c.c., nonché vizio di omessa e contraddittoria
motivazione.
Premesso che ciascun condomino ha
diritto di trasformare in veranda il balcone di sua
proprietà senza dover richiedere l'autorizzazione degli
altri condomini prevista dal regolamento del condominio
soltanto per le innovazioni delle parti comuni degli
edifici, la ricorrente osserva che, nel caso di specie,
la M., nell'appartamento soprastante, aveva in
corrispondenza della terrazza a livello solo una
finestra distante dalla soglia del balcone circa quattro
metri. La violazione di tale distanza, peraltro, non era
stata contestata ad essa ricorrente né dalla successiva
assemblea del condominio (giugno 1985) né nella diffida
inviatale dall'amministratore, sicché doveva ritenersi
che nell'assemblea del 26 marzo 1985 ella era stata
autorizzata a realizzare la veranda prescindendo
dall'osservanza delle norme sulle distanze. Del resto,
nella situazione data, l'osservanza di dette norme
avrebbe comportato che la veranda, pure autorizzata dal
condominio, avrebbe potuto avere un'altezza non
superiore ad un metro.
Con il terzo motivo, la ricorrente
deduce erroneità della statuizione per omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione.
La censura si riferisce al capo
della sentenza relativo alla reiezione delle eccezioni
formulate da essa ricorrente in ordine alla preesistenza
della veranda. In proposito, la ricorrente si duole del
fatto che la Corte d'appello avrebbe tenuto conto solo
di alcune deposizioni e non di altre e rileva che
comunque dalle dette deposizioni non emergeva con
certezza che la veranda non fosse stata realizzata in
epoca anteriore al 1985. Anzi, posto che i testi avevano
fatto riferimento alla circostanza che la veranda
sarebbe stata realizzata senza autorizzazione, la
collocazione temporale di detta realizzazione avrebbe
dovuto essere senz'altro anteriore al 1985. Inoltre, la
Corte non avrebbe tenuto conto di una lettera del 1993,
a firma del procuratore della dante causa di essa
ricorrente, nella quale si faceva riferimento alla
esistenza, negli anni ‘70, di una veranda a copertura
della terrazza a livello.
Del resto, il Tribunale aveva
ritenuto provato che la realizzazione della veranda
risalisse ad un periodo compreso tra il 1939 e il 1949,
e la Corte d'appello sul punto non ha offerto alcuna
motivazione idonea a supportare il suo diverso
convincimento.
Il primo e il secondo motivo, che
per ragioni di connessione possono essere esaminati
congiuntamente, sono infondati.
La Corte d'appello ha infatti
correttamente applicato, nel caso di specie, i principi
più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità.
In primo luogo, la Corte d'appello ha correttamente
affermato che il proprietario di un appartamento sito
in un edificio condominiale non può eseguire nella sua
proprietà esclusiva opere che, in contrasto con quanto
stabilito dalla norma dell'art. 1122 c.c., rechino danno
alle parti comuni dell'edificio stesso, né, a maggior
ragione, opere che, attraverso l'utilizzazione delle
cose comuni, danneggino le parti di una unità
immobiliare di proprietà esclusiva di un altro condomino
(Cass. n. 1132 del 1985).
Ha quindi rilevato che il condomino
che abbia trasformato il proprio balcone in veranda,
elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non
è soggetto, rispetto a questa, all'osservanza delle
distanze prescritte dall'art. 907 cod. civ. nel caso in
cui la veranda insista esattamente nell'area del
balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da
non limitare la veduta in avanti e a piombo del
proprietario del balcone sovrastante, giacché l'art. 907
citato non attribuisce a quest'ultimo la possibilità di
esercitare dalla soletta o dal parapetto del suo balcone
una inspectio o prospectio obliqua verso il basso e
contemporaneamente verso l'interno della sottostante
proprietà (Cass. n. 3109 del 1993). Da ciò ha tratto
coerentemente la conseguenza della illegittimità della
condotta della ricorrente, la quale ha realizzato sul
proprio terrazzo una veranda pur in assenza al piano
soprastante di un balcone aggettante.
La Corte territoriale ha poi
esaminato la delibera assembleare del 1985 e ha
correttamente escluso che la stessa potesse avere
efficacia abilitativa della installazione di una veranda
che avesse effetti pregiudizievoli per uno dei
condomini. Tale affermazione, a prescindere dal rilievo,
sul quale la ricorrente ha particolarmente insistito,
che la deliberazione assembleare non conteneva la
clausola di salvezza dei diritti dei condomini che
invece la Corte d'appello ha ritenuto esplicitata, non
contrasta con i principi della giurisprudenza di
legittimità in materia. È noto, infatti, che l'assemblea
condominiale non può assumere decisioni che riguardino i
singoli condomini nell'ambito dei beni di loro proprietà
esclusiva, salvo che non si riflettano sull'adeguato uso
delle cose comuni (Cass. n. 7603 del 1994).
Le limitazioni al contenuto dei
diritti di proprietà esclusiva spettanti ai singoli
condomini - quali quelle consistenti nel divieto di dare
alle singole unità immobiliari una o più destinazioni
possibili, per l'utilità generale dell'intero edificio -
introdotte con un regolamento di condominio approvato in
assemblea, poiché generano dal lato passivo degli oneri
reali incidendo sulla proprietà dei singoli, richiedono,
a pena di nullità, l'unanimità dei consensi dei
condomini e nel caso che taluno di essi si sia fatto
rappresentare in assemblea è necessario che il
conferimento del mandato risulti da atto scritto secondo
la previsione di cui agli artt. 1392 e 1350 c.c. (Cass.
n. 7630 del 1990). Infatti, le norme del regolamento
condominiale che incidono sulla utilizzabilità e la
destinazione delle parti dell'edificio di proprietà
esclusiva, distinguendosi dalle norme regolamentari, che
possono essere approvate dalla maggioranza
dell'assemblea dei condomini, hanno carattere
convenzionale e, se predisposte dall'originario
proprietario dello stabile, debbono essere, pertanto,
accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto
o con atti separati ; se deliberate, invece
dall'assemblea, debbono essere approvate all'unanimità,
dovendo, in mancanza, considerarsi nulle, perché
eccedenti i limiti dei poteri dell'assemblea (Cass. n.
4632 del 1994).
Orbene, neanche la ricorrente
assume che siffatte condizioni per la validità della
limitazione al diritto di proprietà esclusiva del
singolo condomino siano state nel caso di specie
rispettate. Non si deduce, infatti, né l'unanimità della
presenza dei condomini alla assemblea, né, soprattutto,
che il consenso della resistente alla installazione di
una veranda che sarebbe stata lesiva del proprio diritto
di proprietà esclusiva, sia stato manifestato in forma
scritta.
Con particolare riferimento alle
censure svolte dalla ricorrente nel secondo motivo, deve
poi rilevarsi che la Corte d'appello ha correttamente
affermato che le norme sulle distanze delle costruzioni
dalle vedute si osservano anche nei rapporti tra
condomini di un edificio in quanto l'art. 1102 cod. civ.
non deroga al disposto dell'art. 907 c.c. (Cass. n. 4190
del 2000) e ha ritenuto quindi che nel caso di specie la
denunciata violazione si sia verificata, atteso che la
veranda realizzata dalla ricorrente si collocava alla
distanza di un metro dal balcone dell'appartamento della
resistente.
I primi due motivi di ricorso sono
infondati.
Il terzo motivo è inammissibile.
La Corte d'appello ha preso in
considerazione tutte le eccezioni fatte valere dalla
appellata al fine di sostenere la preesistenza della
veranda, in epoca anteriore al 1985; ha quindi esaminato
l'atto di acquisto del 1979, nel quale non era contenuto
alcun riferimento alla esistenza di una veranda; ha poi
esaminato le deposizioni rese nel corso del giudizio di
primo grado e anche da tali risultanze ha tratto il
convincimento che alla data del 1985 la veranda non
fosse esistente; ha in particolare rilevato che lo
stesso contenuto della deliberazione assembleare
invocata dalla ricorrente a sostegno della propria
posizione si riferiva alla installazione e, quindi, alla
costruzione ex novo del manufatto.
A fronte di tali specifiche
argomentazioni, la ricorrente oppone una diversa, ma
inammissibile in sede di legittimità, lettura delle
risultanze istruttorie, volta a dimostrare la fondatezza
del proprio assunto, dolendosi in particolare del fatto
che la Corte d'appello abbia dato rilievo ad alcune
deposizioni soltanto e che non abbia valutato quanto
affermato nella sentenza di primo grado, nella quale si
riferiva l'esistenza della veranda ad un'epoca assai
risalente.
È noto, del resto, che il vizio di
omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede
di legittimità ex art. 360, n. 5, c.p.c., sussiste solo
se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta
dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o
deficiente esame di punti decisivi della controversia e
non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti
e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla
parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte
di legittimità il potere di riesaminare e valutare il
merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto
il profilo logico-formale e della correttezza giuridica,
l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al
quale soltanto spetta di individuare le fonti del
proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le
prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e
scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute
idonee a dimostrare i fatti in discussione (da ultimo,
Cass. n. 6288 del 2011; Cass. n. 27162 del 2009).
D'altra parte, deve ricordarsi che
è altrettanto consolidato il principio per cui “l'esame
dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni,
nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze
della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità
dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di
altri, come la scelta, tra le varie risultanze
probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere
la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto
riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a
fondamento della propria decisione una fonte di prova
con esclusione di altre, non incontra altro limite che
quello di indicare le ragioni del proprio convincimento,
senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o
a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo
ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e
circostanze che, sebbene non menzionati specificamente,
sono logicamente incompatibili con la decisione
adottata” (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 12362 del
2006).
Orbene, risulta evidente la non
riconducibilità ai limiti dello scrutinio consentito in
sede di legittimità delle censure svolte dalla
ricorrente sul punto, comporta l'inammissibilità del
motivo.
In conclusione, il ricorso deve
essere rigettato, con conseguente condanna della
ricorrente, in applicazione del principio della
soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso
condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro
2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre alle
spese generali e agli accessori di legge.
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