Sentenza Corte Costituzionale
20-25.07.2011, n. 247 (G.U., 1° serie spec., 27.07.2011,
n. 32)
Imposte e tasse - Imposta sul
valore aggiunto (Iva) - Termini per la notifica degli
avvisi di rettifica o di accertamento - Raddoppio del
termine ordinario in caso di violazione che comporta
obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 cod. proc.
pen. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10.03.2000,
n. 74 - Necessità a tal fine che la denuncia avvenga
anteriormente allo spirare del termine ordinario -
Mancata previsione; Applicabilità alle sole annualità
successive all'entrata in vigore del D.L. n. 223/2006 -
Mancata previsione
La Consulta imprime il sigillo di
costituzionalità sulla normativa che avalla il raddoppio
dei termini prima che decada l’azione di accertamento
dell’amministrazione finanziaria, ai fini delle imposte
dirette e dell’Iva, quando a carico del contribuente sia
riscontrato un reato tributario (D.Lgs. n. 74/2000). Ciò
anche quando la constatazione della violazione penale
sia avvenuta successivamente alla decadenza dei termini
ordinari di accertamento (art. 43, comma 3, D.P.R. n.
600/1973; art. 57, comma 3, D.P.R. n. 633/1972).
L’allungamento dei termini è consentito non ad arbitrio
dell’Ufficio ma quando siano obiettivamente
riscontrabili i criteri di obbligatorietà della denuncia
penale (art. 331 cod. proc. pen.). Spetterà al giudice
tributario valutare la correttezza della condotta
dell’amministrazione al riguardo, se il contribuente fa
ricorso giudicandola imparziale o pretestuosa. Sale così
a non meno di 8 anni il periodo di conservazione di
documenti fiscali e contabilità per le imprese ed i
contribuenti, a partire dalla data di presentazione
della dichiarazione dei redditi.
(Diritto e Pratica delle Società)
SENTENZA N.
247
ANNO 2011
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA;
Giudici: Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA,
Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO,
Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del
combinato disposto del terzo comma dell'art. 57 del
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972,
n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore
aggiunto) - comma inserito dal comma 25 dell'art. 37 del
decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa
pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di
contrasto all'evasione fiscale), convertito, con
modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 - e del
comma 26 dell'art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006,
promosso dalla Commissione tributaria provinciale di
Napoli, nel corso di due giudizi riuniti vertenti tra la
ricorrente s.r.l. Da. e la resistente Agenzia delle
entrate, ufficio di No., con ordinanza depositata il 29
aprile 2010, iscritta al n. 266 del registro ordinanze
2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2010.
Visti l'atto di costituzione della s.r.l. Da. e
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 2011 il
Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Li. Sa. e Ma. Pa. per la s.r.l.
Da. nonché l'avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per
il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1. - Nel corso di due giudizi riuniti promossi da una
società a responsabilità limitata avverso due avvisi di
accertamento dell'imposta sul valore aggiunto (IVA)
riguardanti, rispettivamente, gli anni 2002 e 2003, la
Commissione tributaria provinciale di Napoli, con
ordinanza depositata il 29 aprile 2010, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione
nonché all'art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000,
n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti
del contribuente), questioni di legittimità dell'art. 57
del decreto del Presidente della Repubblica del 26
ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto), quale modificato dal
comma 25 dell'art. 37 del decreto-legge del 4 luglio
2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio
economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché
interventi in materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 4
luglio 2006 [recte: del combinato disposto del terzo
comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 - comma
inserito dal comma 25 dell'art. 37 del decreto-legge n.
223 del 2006 - e del comma 26 dell'art. 37 del medesimo
decreto-legge n. 223 del 2006].
Il censurato terzo comma del citato art. 57 del
d.P.R. n. 633 del 1972, nel testo in vigore dal 4 luglio
2006, stabilisce che, "In caso di violazione che
comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'art. 331 del
codice di procedura penale per uno dei reati previsti
dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini
di cui ai commi precedenti [cioè, nel testo applicabile
ratione temporis ai due suddetti periodi d'imposta in
contestazione: in caso di presentazione della
dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno
successivo a quello di presentazione della
dichiarazione, aumentato - nel caso di richiesta di
rimborso dell'eccedenza d'imposta detraibile risultante
dalla dichiarazione - di un periodo di tempo pari a
quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a
quello di notificazione della richiesta di documenti da
parte dell'ufficio e la data di consegna di tali
documenti; in caso di omessa presentazione della
dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe
dovuto essere presentata] sono raddoppiati relativamente
al periodo d'imposta in cui è stata commessa la
violazione". Inoltre, il comma 26 dell'art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006 prevede che "Le
disposizioni di cui ai commi 24 [relativo alle imposte
sui redditi] e 25 [relativo all'IVA] si applicano a
decorrere dal periodo d'imposta per il quale alla data
di entrata in vigore del presente decreto sono ancora
pendenti i termini di cui al primo e secondo comma
dell'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
[relativo alle imposte sui redditi] e dell'art. 57 del
d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [relativo, come visto,
all'IVA]".
Tali disposizioni sono denunciate, in base a quanto
espressamente indicato nel dispositivo dell'ordinanza di
rimessione, nella parte in cui non prevedono che, in
presenza delle ipotesi di reato previste dal d.lgs. n.
74 del 2000: 1) la normativa sia applicabile solo alle
annualità successive al 2006, anno nel quale sono
entrati in vigore i commi 25 e 26 dell'art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006; 2) "l'eventuale denuncia"
ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen. debba essere
presentata anteriormente allo spirare dei termini di cui
ai primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del
1972.
1.1. - Secondo quanto premesso, in punto di fatto,
dal giudice rimettente: a) la società aveva richiesto la
definizione automatica dell'IVA "per gli anni pregressi"
2001 e 2002, ai sensi dell'art. 9 della legge 27
dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge
finanziaria 2003), ed aveva utilizzato negli anni
successivi il credito di Euro 146 milioni, risultante
dalla dichiarazione, per compensare l'IVA a debito
relativa ad anticipi su forniture fatturate ad altra
società dello stesso gruppo; b) l'Agenzia delle entrate
aveva apposto un diniego alla suddetta domanda di
definizione agevolata dei rapporti tributari, affermando
che la dichiarazione di condono non era comprensiva di
tutti i periodi di imposta ancora accertabili, come
invece richiesto dalla legge; c) la Commissione
tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n.
185/02/09 del 31 marzo 2009, aveva accolto
l'impugnazione della società avverso il suddetto diniego
di condono; d) l'Agenzia delle entrate, con due avvisi
notificati il 18 novembre 2008, aveva proceduto
all'accertamento dell'IVA dovuta dalla società,
rispettivamente, per gli anni 2002 e 2003, basandosi su
una verifica della Guardia di finanza (delegata dalla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola),
la quale, con processo verbale di constatazione del 25
luglio 2008, aveva ritenuto sussistere alcuni reati
previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, perché, da un lato,
aveva rilevato, per l'anno 2002, che la dichiarazione
dell'IVA conteneva l'indicazione di "operazioni passive
fittizie", con conseguente inesistenza del credito
tributario dichiarato dalla contribuente, e, dall'altro,
aveva contestato, per l'anno 2003, le operazioni
effettuate dalla stessa contribuente con un'altra
società del gruppo al fine di trasferire a quest'ultima
una parte dell'inesistente credito risultante dalle
dichiarazioni; e) la società destinataria degli avvisi
di accertamento li aveva impugnati con distinti ricorsi,
deducendo, in primo luogo, che il perfezionamento del
condono aveva precluso la possibilità, per
l'Amministrazione finanziaria, di effettuare gli
accertamenti di cui agli impugnati avvisi; in secondo
luogo, che non era applicabile, a favore
dell'Amministrazione finanziaria, la proroga biennale
dei termini per l'accertamento prevista dall'art. 10
della legge n. 289 del 2002 in favore dei contribuenti
che non si avvalgano delle disposizioni concernenti i
condoni previsti dagli articoli da 7 a 9 della stessa
legge; in terzo luogo, che il terzo comma dell'art. 57
del d.P.R. n. 633 del 1972, se inteso nel senso che
consente "la riapertura dei termini di accertamento con
riferimento ad annualità ormai "cristallizzate" e
"stabilizzate"", si pone in contrasto con la
Costituzione; in quarto luogo, che gli avvisi erano
invalidi anche per ulteriori e subordinati motivi,
dettagliatamente specificati nei ricorsi; f) la
resistente Agenzia delle entrate aveva obiettato a tali
motivi di impugnazione, in primo luogo, che la richiesta
di definizione automatica non aveva prodotto effetti,
perché non era comprensiva di tutte le annualità
d'imposta e, pertanto, non precludeva gli accertamenti;
in secondo luogo, che la normativa sul raddoppio dei
termini di accertamento non violava la Costituzione; in
terzo luogo, che gli altri motivi di ricorso non erano
fondati; g) i giudizi instaurati con i due ricorsi erano
stati riuniti.
1.2. - Su tali premesse, il giudice a quo deduce che
le disposizioni denunciate violano: a) gli artt. 3 e 24
Cost., nonché l'art. 3, ultimo comma, della legge 27
luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto
dei diritti del contribuente) - in quanto applicativo
degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. -, perché
irragionevolmente prorogano o riaprono, per gli
accertamenti delle imposte, termini di decadenza ormai
"scaduti", cosí ledendo l'esigenza di "certezza dei
rapporti giuridici" ed il diritto di difesa dei
contribuenti; b) l'art. 24 Cost., perché la denuncia
penale, se proposta dopo il decorso degli ordinari
termini di decadenza, potrebbe intervenire quando il
contribuente, ritenendo non più accertabile il rapporto
tributario, non sia più in possesso delle scritture e
dei documenti contabili (che, ai sensi dell'art. 22 del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è tenuto a conservare
fino alla definizione degli accertamenti relativi al
corrispondente periodo d'imposta); c) lo stesso art. 24
Cost., perché, non prevedendo un "ragionevole" ed
"oggettivamente determinato" termine di notificazione
dell'atto impositivo e consentendo "una distanza
eccessiva tra il fatto e la contestazione", comportano
una "indeterminata soggezione del contribuente
all'azione esecutiva del fisco" e, quindi, vanificano la
difesa del contribuente; d) gli artt. 3 e 97 Cost.,
perché, non condizionando il raddoppio dei termini né
all'avvio dell'azione penale prima del decorso degli
ordinari termini di decadenza dall'accertamento né
all'esito di tale azione, attribuiscono
all'amministrazione finanziaria - irragionevolmente ed
in contrasto con i principi di imparzialità e di buon
andamento - il potere discrezionale di estendere i
termini dell'accertamento, in base ad una soggettiva e
non controllabile valutazione circa la necessità di
presentare denuncia penale per violazioni ricondotte ad
ipotesi di reato, "magari su elementi puramente
indiziari e strumentalmente enfatizzati"; e) l'art. 3
Cost., perché, "consentendo discipline differenziate per
la notifica dell'accertamento", introducono
"irragionevoli elementi di disparità di trattamento"; f)
l'art. 25 Cost., perché, in presenza di ipotesi di reato
previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia
l'obbligo di denuncia, rendono retroattivamente
applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per
l'accertamento dell'imposta.
1.3. - Quanto alla rilevanza delle questioni, il
giudice rimettente afferma che, nella specie, sono state
riscontrate dalla Guardia di finanza ipotesi di reato
previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi è
l'obbligo di denuncia e che pertanto, nei giudizi
principali riuniti, occorre fare applicazione delle
disposizioni denunciate. A quest'ultimo riguardo precisa
che tali disposizioni sono entrate in vigore
anteriormente alla scadenza del termine ordinario per
gli avvisi di accertamento impugnati.
2. - La società a responsabilità limitata ricorrente
nei giudizi riuniti a quibus si è costituita in giudizio
aderendo alla prospettazione del rimettente e deducendo,
pertanto, la fondatezza e la rilevanza delle sollevate
questioni.
2.1. - La fondatezza deriverebbe dalla natura
retroattiva e sanzionatoria delle disposizioni
denunciate, le quali comporterebbero, per effetto di una
valutazione meramente discrezionale ed incontrollabile
dell'amministrazione finanziaria, la reviviscenza o la
proroga di poteri di accertamento fiscali e comunque la
soggezione del contribuente all'azione accertativa
dell'erario per periodi di tempo indefiniti od
eccessivamente lunghi.
Al riguardo, la parte afferma che la disciplina
denunciata, ove ricorra l'obbligo di denuncia dei reati
previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, consente - in
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. - la "reviviscenza"
di poteri accertativi "già esauriti" per decorso dei
termini decadenziali ordinari fissati dai primi due
commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per
l'accertamento dell'IVA o comunque la loro "proroga". A
suo avviso, tale ampliamento temporale dei poteri di
accertamento non soddisfarebbe alle due condizioni che
la giurisprudenza della Corte costituzionale richiede
per la legittimità costituzionale delle norme che
prevedono il prolungamento di termini di accertamento
fiscale già scaduti o ancora pendenti: e cioè, da un
lato, la sussistenza di un'obiettiva esigenza di
razionalizzazione, al fine di fronteggiare una
situazione contingente, eccezionale, straordinaria e
generale, e, dall'altro, la possibilità per il
contribuente di esercitare il proprio diritto di difesa,
senza subire limitazione alcuna (vengono citate le
sentenze n. 356 del 2008 e n. 238 del 1984). Nella
specie, infatti, non ricorrerebbe alcuna situazione
eccezionale idonea a giustificare la normativa
censurata. Tale difetto di eccezionalità sarebbe ancora
più evidente ove il prolungamento dei termini di
accertamento si ritenesse applicabile - come sostiene
l'amministrazione finanziaria - non solo in relazione a
fatti di rilievo penale ed agli elementi acquisiti in
sede penale, ma anche per "le ipotesi di violazioni
fiscali [...] verificabili nel termine ordinario e [...]
estranee a quelle correlate al fatto costituente il
reato". Da tutto ciò deriverebbe, sempre a parere della
suddetta società, la violazione del principio della
certezza dei rapporti giuridici e, per l'effetto, la
lesione del diritto di difesa del contribuente. La
medesima società riferisce che, proprio per tali
ragioni, con "atto prot. n. 1089/09 del 19 novembre
2009", il Garante del contribuente per la Regione
Campania - adíto proprio in relazione alla fattispecie
oggetto del giudizio principale - ha ritenuto
illegittimo, per l'amministrazione finanziaria,
"iniziare o procedere in operazioni di verifica o di
controllo concernenti periodi d'imposta coperti da
decadenza ordinaria". In definitiva, per la
contribuente, la disposizione denunciata è illegittima,
perché "la sua irretroattività [lapsus calami per
"retroattività"] reca una irragionevole lesione a valori
e interessi costituzionalmente protetti (quali il
diritto di difesa, la certezza dei rapporti giuridici,
il legittimo affidamento, il buon andamento e
l'imparzialità della P.A. [...]".
2.1.2. - La contribuente deduce, poi, che la
disposizione denunciata, estendendo i termini di
accertamento fiscale oltre il limite temporale
dell'obbligo di conservazione della documentazione
contabile previsto dall'art. 22 del d.P.R. n. 600 del
1973 (che lo fissa fino alla definizione degli
accertamenti relativi al corrispondente periodo
d'imposta), "assoggetta il contribuente ad un
pregiudizio nella sua difesa", in violazione dell'art.
24 Cost. Nella specie, il pregiudizio deriverebbe dalla
"reviviscenza, a termine già spirato, del potere di
accertamento", in quanto - sempre ad avviso della parte
- il termine era scaduto nel 2006 e nel 2007 per i
periodi d'imposta rispettivamente del 2001 e del 2002 e,
quindi, non v'era più l'obbligo di conservare le
scritture contabili e le fatture relative a detti
periodi, "non solo quando la Guardia di finanza aveva
richiesto tali scritture (maggio 2008), ma anche quando
era stato effettuato il primo accesso (aprile 2008), e
tanto più quando era stato inoltrato rapporto all'a.g.o.
penale (giugno 2008)".
2.1.3. - L'indicata società a responsabilità
limitata, con riferimento alla lesione dell'art. 24
Cost. (prospettata sotto il profilo dell'eccessività ed
imprevedibilità del raddoppio dei termini di
accertamento), pone in rilievo che l'incertezza
dell'estensione temporale del potere accertativo deriva
dalla mera eventualità dell'emersione, secondo
l'opinione dell'amministrazione finanziaria, di un
delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, cioè da una
circostanza "casuale", non oggettiva, imprevedibile,
"del tutto eventuale, incerta e comunque indipendente
dal dominio dell'accertato", in quanto rimessa - per
effetto del sopra menzionato regime di autonomia tra
processo penale e tributario (cosiddetto "doppio
binario") - alla sola valutazione discrezionale della
stessa amministrazione procedente. La parte ammette che
"il Giudice tributario, quale organo di controllo della
legittimità dell'azione accertativa, una volta adito dal
contribuente, potrà ritenere [...] insussistente il
presupposto del raddoppio dei termini [...] a
prescindere dagli esiti del parallelo giudizio penale
[...] e, per l'effetto, annullare gli avvisi emessi
dall'Agenzia delle Entrate". La stessa parte aggiunge,
tuttavia, che "ciò non vale a rendere ragionevole il
potere accertativo" di cui alle disposizioni censurate e
ad evitare che l'imprevedibilità e l'eccessiva durata
del termine da esse previsto ledano il diritto di difesa
del contribuente, data la "dignità costituzionale
dell'esigenza del contribuente ad essere assoggettato ad
un termine non eccessivamente lungo" (vengono
richiamate, in relazione a tale principio, le sentenze
della Corte costituzionale n. 11 del 2008 e n. 280 del
2005). Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla
consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione
concernente l'art. 84 del d.P.R. n. 431 del 1973 (Testo
unico in materia doganale), il quale, ad avviso della
medesima parte, "presenta forti analogie" rispetto a
quella censurata, disponendo che "L'azione dello Stato
per la riscossione dei diritti doganali si prescrive nel
termine di tre anni. [...] Qualora il mancato pagamento
[...] dei diritti abbia causa da un reato, il termine di
prescrizione decorre dalla data in cui il decreto o la
sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono
divenuti irrevocabili". La contribuente sottolinea che
la Suprema Corte di cassazione (ex plurimis, sentenza n.
9773 del 2010), al fine di evitare che il termine di
revisione dei dazi sia "privo di riferimento temporale e
dilatabile all'infinito", interpreta il citato art. 84
del testo unico doganale nel senso che la proroga del
termine triennale può operare solo ove la notitia
criminis che ne costituisce il presupposto "sia
intervenuta nel corso di tale termine e non dopo la sua
scadenza (ancorché l'atto accertativo possa essere
notificato dopo)". Nell'atto di costituzione, la parte
osserva che - a differenza di quanto previsto in via
generale per il procedimento amministrativo dall'art. 2
della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di
accesso ai documenti amministrativi) - non sussiste
alcun obbligo per l'amministrazione finanziaria di
concludere il procedimento di accertamento entro un
termine prefissato rispetto all'inizio dell'istruttoria.
Da ciò la suddetta società trae la conseguenza che
l'"unico baluardo di garanzia per l'accertamento è il
rispetto del termine decadenziale posto dall'art. 57 del
d.P.R. n. 633/1972 (e, ai fini delle imposte dirette,
dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/1973)" e che, pertanto,
il legislatore, modificando tali disposizioni e, quindi,
incidendo sul diritto di difesa del contribuente,
avrebbe dovuto "ben ponderare la misura del [...]
bilanciamento con gli interessi contrapposti",
introducendo una disciplina rispettosa di quei
"caratteri di certezza, adeguatezza e proporzione" che
costituiscono il "corollario imprescindibile" di quel
diritto.
2.1.4. - In riferimento alla violazione degli artt. 3
e 97 Cost., la contribuente, sempre a sostegno
dell'ordinanza di rimessione, osserva che il censurato
terzo comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 non
può essere inteso nel senso che il raddoppio dei termini
di accertamento presupponga un accertamento giudiziale
definitivo del reato, perché tale interpretazione è
impedita dalla vigenza del principio del cosiddetto
"doppio binario" tra accertamento penale e tributario,
comportante l'inesistenza sia di una pregiudiziale
penale nell'accertamento delle violazioni fiscali (art.
654 cod. proc. pen.; art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000;
art. 12 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429,
recante "Norme per la repressione della evasione in
materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e
per agevolare la definizione delle pendenze in materia
tributaria", convertito, con modificazioni, dalla legge
7 agosto 1982, n. 516), sia di una pregiudiziale
tributaria nell'accertamento delle violazioni penali
(venuta meno con l'abrogazione, ad opera del citato
decreto-legge n. 429 del 1982, dell'ultimo comma
dell'art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, recante
"Norme generali per la repressione delle violazioni
delle leggi finanziarie"). Poiché né l'amministrazione
finanziaria né il giudice tributario sono vincolati ai
provvedimenti dell'autorità giudiziaria penale, siano
essi favorevoli (archiviazione; declaratoria di
prescrizione; assoluzione nel merito) o sfavorevoli al
contribuente, ne deriva - prosegue la società - che il
denunciato raddoppio dei termini consegue ad una
valutazione irragionevolmente lasciata
all'amministrazione finanziaria, la quale, esercitando
un "potere [...] abnorme" e non disinteressato, può
ravvisare nella fattispecie da essa esaminata uno o più
reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, per effetto di
"mere congetture", secondo una "discrezionalità [...]
libera di trasmodare in arbitrio, o, comunque, di
risolversi in una scelta libera e svincolata da
valutazioni comparative". La prospettata illegittimità
costituzionale sarebbe, dunque, palese, "tanto laddove
[...] l'applicabilità" della disposizione censurata si
"ricolleghi [...] alla sola denunzia, quanto laddove
l'A.F. mantenga un potere discrezionale in ordine alla
valutazione del fatto di reato". In particolare, ove si
ritenesse che l'obbligo di denuncia sorga non appena il
pubblico ufficiale ravvisi il fumus di un reato, con
l'esclusione di ogni sua valutazione sulla ricorrenza di
cause di estinzione del reato o di non punibilità
diverse dalla insussistenza del fatto (secondo quanto
precisato da varie decisioni della Corte di cassazione
penale), l'illegittimità costituzionale delle
disposizioni censurate deriverebbe dal fatto che "si
attribuirebbe all'Amministrazione il potere-obbligo di
"autogenerare" il presupposto di estensione (o
addirittura di reviviscenza) del proprio potere di
accertamento". Ove, invece, "in linea con la dottrina
maggioritaria", si riservasse un margine di
discrezionalità valutativa all'amministrazione
finanziaria, cosí da consentirle di non denunciare quei
"fatti [...] che, con un minimo di indagine, si rivelino
prima facie penalmente irrilevanti", l'illegittimità
conseguirebbe al fatto che tale amministrazione verrebbe
a trovarsi "in un palese conflitto di interessi", posto
che il suo fine istituzionale è quello di "perseguire il
massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali"
(art. 2 dello statuto dell'Agenzia delle entrate). Né,
secondo la medesima parte, l'illegittimità sarebbe
evitata dalla possibilità, per il contribuente, di far
sindacare dal giudice tributario la sussistenza del
presupposto per il raddoppio dei termini di
accertamento. E ciò per la duplice ragione che: a) il
ricorso tributario costituisce un non necessario
aggravio, ragionevolmente evitabile mediante la
predisposizione di norme recanti termini certi per
l'accertamento; b) il giudice tributario non è in grado
di effettuare con completezza il predetto sindacato,
perché non può conoscere in via principale della
sussistenza del reato sia per i limiti di prova del
processo tributario sia per il divieto di estensione
della giurisdizione dei giudici speciali stabilito dalla
VI disposizione transitoria e finale della Costituzione.
2.1.5. - Per quanto attiene alla violazione dell'art.
3 Cost. per ingiustificata disparità di trattamento nei
confronti dei contribuenti in ordine ai termini di
notificazione dell'accertamento, la contribuente osserva
che la sottolineata discrezionalità dell'amministrazione
finanziaria nella valutazione dei fatti di reato (che
può portare a determinazioni diverse in casi simili), la
natura meramente "congetturale" della denuncia penale
(la quale, di per sé, nulla prova in ordine alla
commissione del fatto reato) e l'assoggettabilità al
termine "lungo" anche per un fatto di reato riferibile
ad un soggetto terzo (ad esempio nell'accertamento nei
confronti della società controllante per un fatto di
reato riconducibile alla società controllata, come
affermato nella circolare dell'Agenzia delle entrate n.
54 /E del 2009) rendono irragionevole far derivare dalla
suddetta eventuale denuncia penale (che può provenire
dalla stessa amministrazione finanziaria) l'automatico
prolungamento dei termini di accertamento fiscale (come
risulterebbe dalle rationes decidendi delle sentenze
della Corte costituzionale n. 78 del 2005; n. 206 del
1999; n. 296 e n. 173 del 1997). Più in particolare, la
disciplina censurata comporterebbe - sempre ad avviso
della parte - una inevitabile disparità di trattamento:
a) tra reati non lesivi per l'erario (come nel caso di
emissione di una fattura soggettivamente inesistente,
per l'importo di un solo euro), per i quali opererebbe
il raddoppio dei termini, e violazioni tributarie prive
di rilevanza penale, ma dannose per l'erario (come nel
caso di dichiarazione infedele dell'importo di Euro
100.000, 00 e, quindi, al di sotto della soglia di
punibilità prevista dall'art. 4 del d.lgs. n. 74 del
2000), assoggettate al termine ordinario di
accertamento; b) tra "identici contribuenti",
casualmente "assoggettati a termini differenti", a
seconda che siano stati raggiunti o no "da una
determinazione dell'Autorità giudiziaria (ripresa
dall'Amministrazione finanziaria) in ordine ad una
fattispecie di reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del
2000"; c) tra contribuenti che si trovano nella
"medesima situazione sostanziale", "esposti [...] a
trattamenti differenziati, [...] in ragione di scelte
dell'Amministrazione, sganciate da ogni ragionevole
parametro di controllo". La società costituita rileva,
infine, che il delineato conflitto tra principio di
eguaglianza e norma denunciata, in quanto derivante dai
"caratteri strutturali" della norma e non legato
all'applicazione retroattiva di questa, non potrebbe
essere risolto con la considerazione che lo stesso
fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore
di situazioni che si svolgono nel tempo (considerazione
che costituisce, invece, la ratio decidendi di alcune
pronunce della Corte costituzionale: ex multis, sentenze
n. 367 del 1987 e n. 238 del 1984)
2.1.6. - Con riferimento, poi, al denunciato
contrasto con l'art. 25 Cost., la contribuente ritiene
che il raddoppio dei termini di accertamento ordinari in
presenza di reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000,
per i quali vi sia obbligo di denuncia, si configuri non
come lo strumento "procedimentale" per soddisfare
l'esigenza di utilizzare "per un tempo più ampio di
quello ordinario gli elementi istruttori emersi nel
corso delle indagini condotte dall'autorità giudiziaria"
(secondo quanto affermato nella relazione di
accompagnamento al decreto-legge n. 223 del 226), ma
come una "sanzione impropria", cioè come una conseguenza
avente "prioritariamente funzione repressiva" e
rientrante, perciò, nell'ampia nozione di "pena" di cui
all'art. 7 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo del 21 marzo 2006. La natura essenzialmente
punitiva della disciplina sarebbe evidenziata sia dalla
lettera della legge, che fa discendere dal presupposto
della sussistenza di un reato previsto dal d.lgs. n. 74
del 2000 un generale potere accertativo, oltretutto
"esercitabile (anche) in relazione a fatti diversi da
quelli costituenti il reato presupposto" (viene
richiamata, a sostegno di tale argomentazione, la
circolare 1° febbraio 2008 prot. n. 35534 del Comando
generale della Guardia di finanza, ufficio tutela
entrate), sia dalla retroattività della norma,
applicabile anche ai periodi d'imposta ancora
accertabili al momento dell'entrata in vigore del
decreto-legge n. 223 del 2006, tanto da comportare - in
forza di una vera e propria "reviviscenza" del potere
accertativo - la tempestività della notificazione, nel
2008, di un avviso di accertamento relativo al periodo
d'imposta 2002, per il quale il termine ordinario di
accertamento era già venuto meno il 31 dicembre 2007.
L'applicazione retroattiva della "sanzione" del
raddoppio del termine ad un fatto commesso prima del 4
luglio 2006, cioè prima della data di entrata in vigore
del decreto-legge n. 223 del 2006 che la prevede,
violerebbe, pertanto, non solo il secondo comma
dell'art. 25 Cost., ma anche la presunzione di non
colpevolezza di cui al secondo comma dell'art. 27 Cost.,
perché deriverebbe non da un accertamento definitivo del
reato, ma da una valutazione dell'amministrazione
finanziaria che sarebbe solo imperfettamente
controllabile in via incidentale dal giudice tributario,
privo degli strumenti di cognizione propri del giudice
penale.
2.2. - Infine, ad avviso della parte, la rilevanza
delle questioni deriverebbe: a) dalla necessità di
applicare nei giudizi riuniti a quibus il denunciato
terzo comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972,
data la sua efficacia retroattiva e posto che gli avvisi
di accertamento impugnati sono stati notificati dopo
"l'inutile decorso dell'ordinario termine quadriennale"
previsto dal primo comma dello stesso art. 57 e dopo che
l'organo verificatore, in data 6 giugno 2008, aveva
segnalato la sussistenza di fatti penalmente rilevanti
ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000 alla competente
Procura della Repubblica (la quale aveva poi proceduto
all'iscrizione del legale rappresentante della società
nel registro degli indagati ed allo svolgimento di
ulteriori indagini, le cui risultanze, previo regolare
nulla osta rilasciato dall'autorità giudiziaria
procedente, erano state successivamente utilizzate per
l'emissione dei suddetti avvisi di accertamento); b) dal
nesso di consequenzialità tra l'accoglimento delle
questioni di legittimità costituzionale e l'accoglimento
delle domande della contribuente nei giudizi principali.
3. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le
questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili
per difetto di motivazione sulla rilevanza o, comunque,
non fondate.
Quanto all'inammissibilità, la difesa dello Stato
osserva che il rimettente non ha fornito elementi
sufficienti ad evidenziare la necessità
dell'applicazione, nei giudizi riuniti a quibus, della
normativa denunciata, in quanto: a) con riguardo alla
sentenza n. 185/02/09 - con cui la Commissione
tributaria provinciale di Napoli aveva riconosciuto il
perfezionamento e l'efficacia del condono richiesto
dalla società per gli anni 2001 e 2002, in forza
dell'art. 9 della legge n. 289 del 2002 - non ha
precisato né se la decisione abbia un rapporto di
pregiudizialità con il giudizio principale (come
sostenuto nei giudizi a quibus dalla contribuente, ad
avviso della quale il riconoscimento dell'efficacia del
condono precluderebbe il potere di procedere alla
rettifica della dichiarazione resa per le suddette
annualità) né se la medesima decisione sia passata in
giudicato né le ragioni della mancata sospensione, ai
sensi dell'art. 295 del codice di procedura civile, dei
giudizi riuniti a quibus, in attesa della definizione
del giudizio sull'efficacia del condono; b) non ha
chiarito se, nell'ipotesi di valido perfezionamento del
condono, ricorrono nel caso concreto i presupposti
dell'applicazione del principio secondo cui il condono
non opera sui crediti vantati dal contribuente verso il
fisco, nel senso che tali crediti restano soggetti
all'eventuale contestazione da parte
dell'amministrazione finanziaria (Corte di cassazione,
sentenza n. 375 del 2009 e ordinanza n. 18942 del 2010;
Corte costituzionale, ordinanza n. 340 del 2005); c) non
ha considerato né che l'art. 10 della legge n. 289 del
2002 aveva prorogato di due anni i termini per
l'accertamento nei confronti dei contribuenti che non si
erano avvalsi della definizione agevolata (Corte
costituzionale, sentenza n. 356 del 2008) né che, nella
specie, non era stato dimostrato il valido
perfezionamento del condono né che, pertanto, l'avviso
di accertamento relativo al 2002 era stato notificato
tempestivamente, cioè prima del "31 dicembre 2009", data
di scadenza della suddetta proroga biennale.
Quanto alla non fondatezza delle questioni,
l'Avvocatura generale dello Stato rileva innanzitutto
che, contrariamente a quanto affermato nell'ordinanza di
rimessione, le disposizioni denunciate non riaprono
termini ormai scaduti, perché riguardano solo periodi
d'imposta o successivi a quelli in corso alla data della
loro entrata in vigore (4 luglio 2006) oppure ancora in
corso, ma per i quali, nella medesima data, non è ancora
maturata la decadenza dal potere di accertamento. Ad
avviso della difesa dello Stato, le suddette
disposizioni rispondono alla evidente e ragionevole
ratio di concedere all'amministrazione finanziaria tempi
più ampi per l'accertamento, al fine di meglio
contrastare fenomeni di evasione fiscale che -
integrando le ipotesi di reato perseguibili d'ufficio
previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 - sono caratterizzati
da maggiore gravità ed insidiosità, tanto da rendere
opportuna l'acquisizione degli elementi istruttori
emersi nel corso delle indagini svolte dall'autorità
giudiziaria e per i quali "occorre anche attendere la
rimozione del segreto investigativo". L'intervenuta
Presidenza del Consiglio dei ministri osserva, poi, che
il prolungamento dei termini per l'accertamento non
presuppone la materiale presentazione della denuncia
penale, essendo sufficiente la "presenza di fattispecie
implicanti in astratto l'obbligo di denuncia". In
particolare, la difesa dello Stato nega che gli evocati
parametri siano violati, perché: a) quanto ai principi
di eguaglianza e ragionevolezza, la diversa ampiezza dei
termini di accertamento trova giustificazione nella
"maggiore pericolosità delle fattispecie di evasione
realizzate attraverso modalità delittuose"; b) quanto
all'imparzialità, la necessità di un controllo del
giudice del caso concreto circa la serietà della
prospettazione di ipotesi investigative che possano
condurre all'accertamento dei fatti reati indicati dalle
disposizioni denunciate esclude il prospettato pericolo
della strumentalità od arbitrarietà del comportamento
dell'amministrazione finanziaria; c) quanto al diritto
di difesa, la mancata conservazione della documentazione
contabile da parte del contribuente deriva da una sua
scelta personale, non conforme a legge (dato l'obbligo
di conservazione previsto dall'art. 22 del d.P.R. n. 600
del 1973); d) sempre quanto al diritto di difesa, il
termine censurato opera entro confini certi e non
comporta la denunciata indefinita soggezione del
contribuente all'azione di accertamento degli uffici
tributari (viene citata la sentenza di questa Corte n.
356 del 2008, punto 7 della motivazione); e) quanto al
principio di irretroattività delle sanzioni penali, il
censurato raddoppio dei termini non ha natura
sanzionatoria, ma mira a consentire l'accertamento della
reale capacità contributiva anche in presenza di
fattispecie complesse, quali quelle riguardanti
violazioni tributarie a rilevanza penale.
4. - Nell'imminenza della pubblica udienza, la
società a responsabilità limitata e la difesa dello
Stato hanno depositato memorie difensive a sostegno
delle proprie posizioni.
Considerato in diritto
1. - La Commissione tributaria provinciale di Napoli
dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della
Costituzione nonché all'art. 3, comma 3, della legge 27
luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto
dei diritti del contribuente), della legittimità del
combinato disposto del terzo comma dell'art. 57 del
decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre
1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul
valore aggiunto) - comma inserito dal comma 25 dell'art.
37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223
(Disposizioni urgenti per il rilancio economico e
sociale, per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in materia di
entrate e di contrasto all'evasione fiscale),
convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto
2006, n. 248 - e del comma 26 dell'art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006.
Detto combinato disposto stabilisce, in tema di IVA,
che: a) "In caso di violazione che comporta obbligo di
denuncia ai sensi dell'art. 331 del codice di procedura
penale per uno dei reati previsti dal decreto
legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai
commi precedenti sono raddoppiati relativamente al
periodo d'imposta in cui è stata commessa la violazione"
(art. 57, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973); b)
"Le disposizioni di cui ai commi [...] 25 [comma che ha
introdotto il citato terzo comma dell'art. 57 del d.P.R.
n. 602 del 1973] si applicano a decorrere dal periodo
d'imposta per il quale alla data di entrata in vigore
del presente decreto [4 luglio 2006] sono ancora
pendenti i termini di cui al primo e secondo comma [...]
dell'art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633"). In
forza di tali disposizioni e con riguardo agli anni di
imposta 2002 e 2003, oggetto degli avvisi impugnati nei
giudizi riuniti a quibus, sono raddoppiati (ove
ricorrano le indicate condizioni) i seguenti termini di
accertamento dell'IVA previsti dai primi due commi
dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972: 1) il 31
dicembre del quarto anno successivo a quello di
presentazione della dichiarazione, aumentato - nel caso
di richiesta di rimborso dell'eccedenza d'imposta
detraibile risultante dalla dichiarazione - di un
periodo di tempo pari a quello compreso tra il
sedicesimo giorno successivo a quello di notificazione
della richiesta di documenti da parte dell'ufficio e la
data di consegna di tali documenti (primo comma); 2) il
31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui
la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, nel
caso di omessa presentazione della dichiarazione
(secondo comma).
Ad avviso della Commissione tributaria rimettente, la
normativa denunciata viola gli evocati parametri, nella
parte in cui non prevede che: a) la normativa sul
raddoppio dei termini di accertamento sia applicabile
solo alle annualità successive all'anno 2006, nel quale
sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell'art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006; b) "l'eventuale denuncia"
debba essere presentata, ai sensi dell'art. 331 cod.
proc. pen., anteriormente allo spirare dei termini di
cui ai primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633
del 1972.
In particolare, vengono prospettate cinque diverse
censure, con riferimento, in primo luogo, agli artt. 3 e
24 della Costituzione, e 3, comma 3, della legge 27
luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto
dei diritti del contribuente); in secondo luogo,
all'art. 24 Cost.; in terzo luogo, agli artt. 3 e 97
Cost.; in quarto luogo, all'art. 3 Cost.; in quinto
luogo, infine, all'art. 25 Cost.
2. - Prima di esaminare analiticamente le suddette
censure, occorre valutare le eccezioni di
inammissibilità sollevate dall'Avvocatura generale dello
Stato, secondo cui dall'ordinanza di rimessione
emergerebbe l'omessa o l'insufficiente motivazione della
rilevanza delle questioni.
Nessuna di tali eccezioni può essere accolta.
2.1.- La difesa dello Stato ha eccepito,
innanzitutto, che il rimettente non ha sufficientemente
motivato sulla rilevanza, perché non ha precisato: a) né
se la sentenza n. 185/02/09 della Commissione tributaria
provinciale di Napoli, da lui stesso menzionata, che ha
riconosciuto il perfezionamento del cosiddetto "condono
tombale" richiesto dalla società per gli anni 2001 e
2002, abbia un rapporto di pregiudizialità con i giudizi
principali riuniti e, quindi, se il perfezionamento del
condono precluda il potere di accertamento
dell'amministrazione finanziaria; b) né se la medesima
decisione sia passata in giudicato; c) né le ragioni
della mancata sospensione, ai sensi dell'art. 295 del
codice di procedura civile, dei giudizi riuniti a
quibus, in attesa della definizione del giudizio
sull'efficacia del condono.
L'eccezione non è fondata.
2.1.1.- Va premesso che gli articoli da 7 a 9 della
legge n. 289 del 2002 prevedono tre diverse ipotesi di
definizione agevolata di tributi: 1) la "definizione
automatica di redditi di impresa e di lavoro autonomo
per gli anni pregressi mediante autoliquidazione" (art.
7); 2) l'"integrazione degli imponibili per gli anni
pregressi" (art. 8); 3) la "definizione automatica per
gli anni pregressi", denominata anche "condono tombale"
(art. 9). Tali agevolazioni rendono definitive le
liquidazioni d'imposta da esse derivanti e precludono
all'amministrazione finanziaria successivi accertamenti,
ma non modificano l'importo degli eventuali rimborsi e
crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate (artt.
7, comma 13, e 9, comma 9) e non costituiscono titolo
per rimborsi di importi precedentemente non dichiarati
(art. 8, comma 3). L'art. 10 della legge stabilisce una
proroga biennale degli ordinari termini di accertamento
per i contribuenti "che non si avvalgono delle
disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9" (cioè
relative alle tre ipotesi di definizione agevolata sopra
menzionate).
Nella specie, in riferimento all'IVA 2001 e 2002, la
contribuente (una società a responsabilità limitata) ha
presentato la domanda di "definizione automatica per gli
anni pregressi" di cui al suddetto art. 9.
2.1.2. - Il rimettente non affronta espressamente il
tema dell'incidenza del perfezionamento del "condono
tombale" sul potere accertativo dell'amministrazione
finanziaria. Il silenzio serbato sul punto
dall'ordinanza di rimessione non integra, però,
l'eccepita insufficiente motivazione della rilevanza,
perché è giustificato dalla notorietà ed evidenza della
ragione adducibile a sostegno dell'assoluta irrilevanza
del condono (ancorché perfezionato) sui poteri di
accertamento dell'amministrazione finanziaria con
riferimento alla sussistenza dei crediti vantati dal
contribuente.
Tale ragione risiede nell'incontestata vigenza del
principio, enunciato da questa Corte (ordinanza n. 340
del 2005) e, più volte, dalla Corte di cassazione
(Cassazione civile, sentenze n. 5586 del 2010 e n. 375
del 2009; ordinanze n. 12337 del 2011 e n. 18942 del
2010; Cassazione penale, sentenza n. 42462 del 2010,
emessa proprio con riguardo alla fattispecie di causa),
secondo cui il condono impedisce di accertare i debiti
tributari coperti dall'agevolazione, ma non esclude il
potere dell'amministrazione finanziaria - esercitato
concretamente nella specie - di accertare la sussistenza
dei crediti vantati dal contribuente.
Gli avvisi di accertamento impugnati, in quanto
diretti a negare proprio l'esistenza del credito IVA
indicato dalla società contribuente, non possono perciò
essere influenzati dal condono tombale precedentemente
richiesto dalla contribuente stessa (e ciò
indipendentemente dall'efficacia di tale condono). Da
ciò consegue che: a) non sussiste alcuna pregiudizialità
tra la controversia sulla legittimità del diniego di
condono ed i giudizi a quibus; b) non era necessaria una
specifica motivazione al riguardo da parte del
rimettente, avendo egli correttamente applicato nella
specie un principio - da considerare diritto vivente -
la cui sussistenza e pertinenza al caso concreto
dovevano darsi per scontate; c) il rimettente non aveva
alcuna ragione per sospendere i giudizi principali fino
alla definizione della controversia sulla validità del
condono; e ciò anche a prescindere dal fatto che, in
ogni caso, detta sospensione non sarebbe stata
consentita dagli artt. 2, comma 3, e 39 del decreto
legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul
processo tributario in attuazione della delega al
Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre
1991, n. 413), i quali limitano le ipotesi di
sospensione ai casi di querela di falso e di questioni
di stato e capacità delle persone (diversa dalla
capacità di stare in giudizio) ed impongono al giudice,
in tutti gli altri casi, di risolvere in via incidentale
ogni questione pregiudiziale.
Va infine ricordato che, comunque, il "condono
tombale" in materia di IVA del quale ha inteso avvalersi
la società contribuente è stato ritenuto dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia CE in contrasto
con l'ordinamento comunitario, in quanto comporta una
rinuncia generale ed indiscriminata all'accertamento
delle operazioni imponibili in materia di IVA e,
pertanto, integra un inadempimento agli obblighi che
sullo Stato italiano incombono "in forza delle
disposizioni dell'art. 2, n. 1, lettere a), c) e d), e
degli artt. 193 - 273 della direttiva del Consiglio 28
novembre 2006, 2006/112/CE, relativa al sistema
d'imposta sul valore aggiunto, che hanno sostituito, dal
1° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva
del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli stati membri
relative alle imposte sulla cifra d'affari - Sistema
comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile
uniforme, nonché dell'art. 10 CE" (sentenza 11 dicembre
2008, causa C-174/07; analogamente, la sentenza 17
luglio 2008, causa C-132/06). Il rilevato contrasto con
l'ordinamento comunitario comporta l'obbligo del giudice
e dell'amministrazione finanziaria italiani di non
applicare le norme nazionali relative al suddetto
condono (in tal senso, espressamente, le pronunce della
Cassazione civile, sezioni unite, dal n. 3673 al n. 3677
del 2010; sezione semplice, n. 24586 e n. 24587 del
2010). Da ciò discende la riespansione del potere
accertativo dell'amministrazione finanziaria e, per
quanto qui interessa, l'applicabilità della denunciata
normativa concernente il raddoppio dei termini di
accertamento in presenza di violazioni tributarie di
rilevanza penale ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000.
2.2. - L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito,
poi, l'inammissibilità delle questioni - sempre sotto il
profilo della omessa od insufficiente motivazione della
rilevanza - affermando che il rimettente non ha chiarito
se nella specie ricorrano i presupposti
dell'applicazione del sopra menzionato principio secondo
cui il condono non opera sui crediti vantati dal
contribuente verso il fisco, nel senso che tali crediti
restano soggetti all'eventuale contestazione da parte
dell'amministrazione finanziaria.
Anche tale eccezione non è fondata, perché - come
osservato nel punto precedente - proprio l'evidente
adesione del rimettente al suddetto notorio e
consolidato principio giurisprudenziale gli ha fatto
ritenere superflua l'indicazione nell'ordinanza di
rimessione di una espressa motivazione al riguardo.
2.3.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito,
infine, l'inammissibilità delle questioni, deducendo che
il rimettente non avrebbe considerato che l'art. 10
della legge n. 289 del 2002 prevede la proroga di due
anni dei termini di accertamento nei confronti dei
contribuenti che non si siano avvalsi delle disposizioni
recanti la definizione agevolata. Nella specie,
pertanto, l'avviso di accertamento relativo al 2002
sarebbe stato notificato tempestivamente, cioè prima del
"31 dicembre 2009", data di scadenza della suddetta
proroga biennale. Secondo tale prospettiva,
l'applicazione della proroga avrebbe escluso la
necessità di far ricorso alla normativa denunciata per
definire i giudizi principali riuniti e, quindi, avrebbe
reso irrilevanti le questioni.
L'eccezione non è fondata.
L'Avvocatura muove dalla premessa dell'applicabilità
della suddetta proroga biennale nel caso in cui il
condono richiesto dal contribuente non si sia
perfezionato.
Tale premessa è erronea, perché - come correttamente
sostenuto dalla parte privata - per escludere
l'applicazione della proroga biennale è sufficiente la
presentazione della richiesta di condono,
indipendentemente dal suo accoglimento o diniego. A tale
interpretazione inducono sia la lettera dell'art. 10
della legge n. 289 del 2002 (che non condiziona
l'applicazione della proroga biennale al perfezionamento
del condono, ma si limita ad affermare che essa è
prevista nei confronti dei contribuenti che "non si
avvalgono" delle disposizioni recate dagli articoli da 7
a 9 della stessa legge, cioè nei confronti di coloro che
omettono di avanzare le suddette richieste agevolative
non avvalendosi della facoltà loro concessa da tali
articoli); sia la ratio della proroga (diretta a
consentire agli uffici tributari di procedere
all'accertamento in un termine più ampio nei soli
confronti dei contribuenti che non hanno portato
all'attenzione degli uffici le loro posizioni tributarie
attraverso la presentazione delle istanze di condono,
come evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 356
del 2008); sia la natura eccezionale di ogni ampliamento
temporale dei poteri accertativi (ampliamento di stretta
interpretazione e, quindi, non estensibile ai
contribuenti che abbiano presentato la richiesta di
agevolazione e non abbiano, poi, di essa effettivamente
goduto).
3.- Neppure può sostenersi, infine, che
l'inammissibilità delle questioni possa derivare
dall'omesso tentativo del rimettente di pervenire ad una
interpretazione idonea a superare i prospettati dubbi di
legittimità costituzionale; ad una interpretazione,
cioè, che consenta di ritenere, da un lato, che la
normativa sul raddoppio dei termini di accertamento si
applichi solo alle annualità successive all'anno 2006,
nel quale è entrata in vigore la normativa denunciata;
dall'altro, che "l'eventuale denuncia" debba essere
presentata, ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen. ,
anteriormente allo spirare dei termini "brevi" di cui ai
primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In effetti, il rimettente muove da una
interpretazione non implausibile delle disposizioni
denunciate. Egli assume che, in forza di esse, il
raddoppio dei termini di accertamento si applichi: a)
anche se la denuncia penale per i reati di cui al d.lgs.
n. 74 del 2000 non sia stata presentata prima del
decorso del termine ordinario di accertamento; b) anche
alle annualità antecedenti all'anno 2006, nel quale sono
entrate in vigore tali disposizioni.
3.1. - Quanto al punto sub a), la non implausibilità
dell'interpretazione discende dal fatto che il censurato
terzo comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 ("In
caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai
sensi dell'art. 331 del codice di procedura penale per
uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo
2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono
raddoppiati [...]") prevede, quale unica condizione per
il raddoppio dei termini, la sussistenza dell'obbligo di
denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui
tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo
adempimento. A maggior ragione, la lettera della legge
impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel
senso che il raddoppio dei termini presuppone
necessariamente un accertamento penale definitivo circa
la sussistenza del reato. Del resto quest'ultima
interpretazione - come riconosciuto dalla stessa parte
privata - contrasterebbe anche con il vigente regime del
cosiddetto "doppio binario" tra giudizio penale e
procedimento e processo tributari, evidenziato dall'art.
20 del d.lgs. n. 74 del 2000 (il quale, in correlazione
a quanto previsto dagli artt. 3, 479 e 654 cod. proc.
pen. , dispone che "Il procedimento amministrativo di
accertamento ed il processo tributario non possono
essere sospesi per la pendenza del procedimento penale
avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento comunque dipende la relativa definizione").
Né, al fine di sostenere un'interpretazione conforme
a Costituzione - nel senso che il raddoppio dei termini
opererebbe solo se la denuncia penale sia presentata
prima del decorso dei termini "brevi" di accertamento -,
può farsi riferimento alla giurisprudenza della Corte di
cassazione in materia di termine triennale di
"prescrizione" per il recupero "a posteriori" di diritti
doganali previsto dall'art. 84, terzo comma, del d.P.R.
23 gennaio 1973 n. 43 (Approvazione del testo unico
delle disposizioni legislative in materia doganale).
Tale disposizione stabilisce due diversi termini
triennali di "prescrizione", a seconda che il mancato
pagamento abbia o no causa da un reato. Nel caso in cui
non risulti che il mancato pagamento abbia avuto causa
da reato, il termine decorre dal momento in cui
l'importo dei diritti doganali originariamente richiesto
sia stato contabilizzato o, in difetto, sia divenuto
esigibile; nell'ipotesi, invece, in cui il mancato
pagamento abbia avuto causa da reato il termine - in
deroga al sopra visto principio del cosiddetto "doppio
binario" - decorre dalla data in cui il decreto o la
sentenza pronunziati nel procedimento penale siano
divenuti irrevocabili. La lettera di tale disposizione,
secondo la giurisprudenza di legittimità, renderebbe
indeterminabile il periodo intercorrente tra la data di
contabilizzazione o di esigibilità del debito doganale e
la data in cui è divenuta irrevocabile la decisione
penale, con la conseguenza che il termine per la
revisione dei dazi, in presenza di reato, "sarebbe privo
di riferimento temporale e dilatabile all'infinito"
(sentenza della Cassazione civile n. 9773 del 2010). Per
ovviare a tale "compromissione della certezza dei
rapporti giuridici" (sentenze della Cassazione civile n.
19193 e n. 22014 del 2006), la Suprema Corte ha
interpretato l'art. 84 nel senso che, in caso di reato
che ha causato il mancato pagamento, l'"originario"
termine triennale, decorrente dalla contabilizzazione o
dall'esigibilità dell'obbligazione doganale, è
"prorogato" fino ai tre anni successivi alla data di
irrevocabilità della decisione penale, ma ciò solo nel
caso in cui sia stata formulata una "ipotesi
delittuosa", posta "alla base di una notitia criminis",
nel corso dell'"originario" termine triennale
(Cassazione civile, decisioni n. 9773 del 2010, n.
19195, n. 20513, n. 21377 e n. 22014 del 2006).
E' evidente che - contrariamente a quanto sostenuto
dalla parte privata - il citato art. 84, terzo comma,
del d.P.R. n. 43 del 1973 reca una disciplina del tutto
diversa da quella posta dalle disposizioni denunciate e,
pertanto, non può essere invocata a sostegno della tesi
secondo cui il raddoppio dei termini opera solo ove la
denuncia penale sia presentata prima del decorso dei
termini "brevi". Infatti, mentre il censurato combinato
disposto non presuppone alcun accertamento penale
definitivo del reato ed ha un preciso riferimento
temporale (entro il 31 dicembre dell'ottavo anno o del
decimo anno successivo a quello in cui, rispettivamente,
è stata o doveva essere presentata la dichiarazione);
invece il terzo comma dell'art. 84 del d.P.R. n. 43 del
1973 presuppone una sentenza od un decreto penale di
condanna divenuti irrevocabili ed indica un termine
complessivo indefinito e non prevedibile nel momento in
cui è contabilizzata o diviene esigibile l'obbligazione
doganale. Di qui la non pertinenza della normativa e
della giurisprudenza di legittimità invocate dalla
società contribuente e la correttezza
dell'interpretazione fornita dal rimettente.
3.2. - Quanto all'interpretazione del rimettente
indicata al punto sub b) - secondo cui il raddoppio si
applicherebbe anche alle annualità d'imposta anteriori a
quella pendente al momento dell'entrata in vigore delle
disposizioni denunciate (4 luglio 2006) -, la sua non
implausibilità discende dal fatto che il raddoppio,
stabilendo il prolungamento dei termini non ancora
scaduti alla data dell'entrata in vigore del
decreto-legge n. 223 del 2006, incide necessariamente
(protraendoli) sui termini di accertamento delle
violazioni che si assumono commesse prima di tale data.
Questo effetto non deriva dalla natura retroattiva della
normativa censurata, ma dall'applicabilità ex nunc della
protrazione dei termini in corso, nel rispetto del
principio secondo cui, di regola, "la legge non dispone
che per l'avvenire" (art. 11, prima parte del primo
comma, delle disposizioni preliminari al codice civile;
analogamente, l'art. 3, comma 1, della legge n. 212 del
2000, stabilisce che "le disposizioni tributarie non
hanno effetto retroattivo"). La stessa società
contribuente, del resto, pur facendo più volte
riferimento nelle sue difese alla "retroattività" della
normativa denunciata, ammette che questa, in realtà,
dispone solo per il futuro ed è "retroattiva" in "senso
improprio".
3.3. - Dai rilievi che precedono deriva, dunque, che
l'interpretazione data dal rimettente alle disposizioni
denunciate e sulla quale egli fonda le sollevate
questioni è sostanzialmente corretta. Questa Corte deve
pertanto muovere da tale interpretazione per effettuare
il richiesto scrutinio di costituzionalità.
4. - Nel motivare in ordine agli altri aspetti della
rilevanza delle questioni, il rimettente afferma che: a)
dal processo verbale di constatazione redatto nel 2008
dalla Guardia di finanza risultano, per gli anni 2002 e
2003, ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del
2000 per le quali vi è l'obbligo di denuncia penale; b)
nei giudizi principali riuniti egli deve fare
applicazione delle disposizioni denunciate, perché
queste sono entrate in vigore il 4 luglio 2006,
anteriormente alla scadenza del termine "breve"
quadriennale previsto, per gli accertamenti per cui è
causa, dal primo comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633
del 1972.
Tali elementi sono sufficienti per ritenere rilevanti
le questioni.
5. - Nel merito, è necessario esaminare
analiticamente le cinque censure prospettate dal
rimettente.
5.1. - Con la prima censura viene affermato che il
denunciato combinato disposto si pone in contrasto con
gli artt. 3 e 24 Cost., nonché con l'art. 3, comma 3,
della legge n. 212 del 2000, perché irragionevolmente
"proroga o riapre", per gli accertamenti delle imposte,
termini di decadenza ormai "scaduti", cosí ledendo
l'esigenza di "certezza dei rapporti giuridici" ed il
diritto di difesa dei contribuenti.
5.1.1. - Va preliminarmente rilevato, al riguardo,
che l'art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000
(secondo cui "I termini di prescrizione e di decadenza
per gli accertamenti di imposta non possono essere
prorogati") non può essere qui evocato quale parametro
di legittimità costituzionale. Come più volte osservato
da questa Corte, infatti, le disposizioni di detta legge
non hanno rango costituzionale e non costituiscono,
neppure come norme interposte, parametro idoneo a
fondare il giudizio di legittimità costituzionale di
leggi statali (sentenza n. 58 del 2009; ordinanze n. 13
del 2010, n. 185 del 2009, n. 180 del 2007, n. 428 del
2006, n. 216 del 2004).
La questione riferita all'art. 3, comma 3, della
legge n. 212 del 2000 è, dunque, inammissibile.
5.1.2. - La questione riferita agli artt. 3 e 24
Cost. non è fondata, perché il rimettente muove
dall'erroneo presupposto interpretativo che la normativa
censurata "proroghi o riapra termini di decadenza ormai
scaduti".
L'erroneità di tale presupposto è evidente, ove si
consideri che i termini raddoppiati di accertamento non
costituiscono una "proroga" di quelli ordinari, da
disporsi a discrezione dell'amministrazione finanziaria
procedente, in presenza di "eventi peculiari ed
eccezionali". Al contrario, i termini raddoppiati sono
anch'essi termini fissati direttamente dalla legge,
operanti automaticamente in presenza di una speciale
condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l'obbligo
di denuncia penale per i reati tributari previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all'amministrazione
finanziaria sia riservato alcun margine di
discrezionalità per la loro applicazione. In altre
parole, i termini raddoppiati non si innestano su quelli
"brevi" di cui ai primi due commi dell'art. 57 del
d.P.R. n. 633 del 1972 in base ad una scelta degli
uffici tributari, ma operano autonomamente allorché
sussistano elementi obiettivi tali da rendere
obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000. Sotto questo aspetto non può
parlarsi di "riapertura o proroga di termini scaduti" né
di "reviviscenza di poteri di accertamento ormai
esauriti", perché i termini "brevi" e quelli raddoppiati
si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non
interferiscono tra loro ed alle quali si connettono
diversi termini di accertamento. Più precisamente, i
termini "brevi" di cui ai primi due commi dell'art. 57
del d.P.R. n. 633 del 1972 operano in presenza di
violazioni tributarie per le quali non sorge l'obbligo
di denuncia penale di reati previsti dal d.lgs. n. 74
del 2000; i termini raddoppiati di cui al terzo comma
dello stesso art. 57 operano, invece, in presenza di
violazioni tributarie per le quali v'è l'obbligo di
denuncia. è, perciò, del tutto irrilevante che detto
obbligo, come osservato al punto 3.1., possa insorgere
anche dopo il decorso del termine "breve" o possa non
essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è
solo la sussistenza dell'obbligo, perché essa soltanto
connota, sin dall'origine, la fattispecie di illecito
tributario alla quale è connessa l'applicabilità dei
termini raddoppiati di accertamento.
Tali conclusioni non mutano neppure ove si faccia
riferimento al censurato comma 26 dell'art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006. Questa disposizione non
prevede una "riapertura di termini di accertamento già
scaduti", ma risolve solo un problema di successione di
leggi nel tempo, senza dettare una disciplina
sostanziale ad hoc. Essa si limita, infatti, a stabilire
che "Le disposizioni di cui ai commi [...] 25 si
applicano a decorrere dal periodo d'imposta per il quale
alla data di entrata in vigore del presente decreto sono
ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo
comma [...] dell'art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.
633". In tal modo non viene retroattivamente "riaperto"
un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il
raddoppio dei termini si applichi alle violazioni
tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore
del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il
termine di accertamento previsto dalla normativa
anteriore (secondo quanto già rilevato al punto 3.2.).
E' opportuno sottolineare che l'introduzione
legislativa di un più ampio termine di decadenza è
evenienza frequente nel diritto tributario ed è pacifico
che una siffatta nuova normativa, in difetto di diversa
espressa statuizione di legge, si applichi solo ove il
precedente e più ristretto termine non sia già decorso
e, quindi, il rapporto non sia esaurito. Le disposizioni
denunciate, dunque, sono conformi ai principi più volte
applicati dalla giurisprudenza in materia di successione
delle leggi nel tempo che abbiano previsto l'ampliamento
di termini decadenziali. A titolo di esempio, tra i
molti che potrebbero essere indicati, può qui ricordarsi
che la Corte di cassazione, in tema di sopravvenuto
prolungamento dei termini di decadenza per la richiesta
in via amministrativa del rimborso delle imposte
dirette, ha costantemente affermato che il più ampio
termine di decadenza (48 mesi in luogo di 18 mesi) trova
applicazione nel caso in cui, alla data di entrata in
vigore della legge recante l'ampliamento del termine,
sia ancora pendente il termine originario, mentre non è
applicabile qualora, alla data predetta, tale termine
sia già scaduto (ex plurimis, Cassazione civile,
sentenze n. 2376, n. 10123 e n. 582 del 2010; n. 25610,
n. 22748, n. 22745 e n. 16927 del 2008).
E' irrilevante, infine, l'assunto che gli evocati
parametri sarebbero violati per l'incertezza in cui
versa il contribuente, il quale deve attendere il
decorso del termine raddoppiato per avere la sicurezza
dell'insussistenza dell'obbligo di denuncia penale. Si è
visto, infatti, che tale incertezza è meramente
eventuale e soggettiva e dipende non da una
discrezionale valutazione dell'amministrazione
finanziaria sulla denunciabilità penale dei fatti, ma
solo dal momento in cui l'ufficio tributario venga
concretamente a conoscenza degli elementi obiettivi
comportanti l'obbligo di denuncia. Essa costituisce,
perciò, una circostanza di mero fatto inidonea ad
influire sullo scrutinio di legittimità costituzionale.
5.2.- Con la seconda censura è affermato che il
denunciato combinato disposto si pone in contrasto con
l'art. 24 Cost., sotto due profili: a) perché la
denuncia penale, se proposta dopo il decorso dei termini
"brevi" di decadenza, potrebbe intervenire quando il
contribuente, ritenendo non più accertabile il rapporto
tributario, non sia più in possesso delle scritture e
dei documenti contabili; b) perché, non prevedendo un
"ragionevole" ed "oggettivamente determinato" termine di
notificazione dell'atto impositivo e consentendo "una
distanza eccessiva tra il fatto e la contestazione",
comporta una "indeterminata soggezione del contribuente
all'azione esecutiva del fisco" e, quindi, vanifica la
difesa del contribuente.
Nessuno dei prospettati profili di illegittimità
costituzionale è fondato.
5.2.1.- Quanto alla lesione del diritto di difesa -
dedotta sotto il profilo che il contribuente non sarebbe
più in grado di difendersi qualora non fosse più in
possesso delle scritture e dei documenti contabili da
lui "legittimamente" eliminati dopo il decorso del
termine "breve" di accertamento -, va rilevato che il
rimettente procede da un erroneo presupposto
interpretativo. Egli assume che l'obbligo di
conservazione delle suddette scritture e documenti
persista solo fino alla scadenza del termine "breve" di
accertamento previsto dai primi due commi dell'art. 57
del d.P.R. n. 633 del 1972.
In realtà il contribuente, per effetto dell'art. 22
del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è tenuto a
conservare le scritture ed i documenti fino alla
definizione degli accertamenti relativi al
corrispondente periodo d'imposta. Pertanto, se il
termine previsto dalla legge, in presenza dell'obbligo
di denuncia delle suddette violazioni tributarie
penalmente rilevanti, è quello raddoppiato di cui alla
normativa censurata, ne segue che il contribuente ha
l'obbligo di conservare le scritture ed i documenti fino
alla definizione degli accertamenti relativi e, quindi,
non può ritenersi esonerato da tale obbligo fino alla
scadenza del termine raddoppiato.
L'eventuale soggettivo affidamento del contribuente a
che non siano fatti valere, dopo il decorso del termine
"breve" di accertamento, elementi obiettivi
(giudizialmente controllabili ex post, come si vedrà in
prosieguo, al punto 5.3.) comportanti l'obbligo di
denuncia penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74
del 2000 non è rilevante ai fini del giudizio di
costituzionalità, trattandosi di una circostanza di mero
fatto. Ciò che invece rileva sul piano giuridico è che
il contribuente, ai sensi dell'art. 22 del d.P.R. n. 600
del 1973, è tenuto a conservare la predetta
documentazione fino allo spirare dei termini
raddoppiati. Il che, evidentemente, non comporta alcuna
lesione del diritto di difesa, proprio perché l'obbligo
di conservazione documentale fino al decorso di tali
termini è contenuto, dal predetto articolo, in limiti
certi.
5.2.2.- Quanto, poi, alla lesione del diritto di
difesa, dedotta sotto il diverso profilo
dell'irragionevole ed eccessiva distanza temporale tra
"il fatto e la contestazione", tale da comportare una
indeterminata soggezione del contribuente all'azione
"esecutiva" (rectius: accertativa) del fisco, è agevole
osservare che - contrariamente a quanto affermato dal
rimettente - il termine non è né indeterminato né
irragionevolmente ampio.
Non è indeterminato, in quanto esso, in presenza del
suddetto obbligo di denuncia penale, è individuato dalla
normativa in modo certo; e cioè: a) entro il 31 dicembre
dell'ottavo anno successivo a quello in cui è stata
presentata la dichiarazione; b) entro il 31 dicembre del
decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione
avrebbe dovuto essere presentata. Né tale obiettiva
certezza può ritenersi esclusa dall'eventuale soggettiva
incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità
delle indicate ipotesi di reato. L'impossibilità per il
contribuente di avere la sicurezza ex ante della non
ricorrenza dei presupposti di denunciabilità penale
della sua condotta costituisce infatti, come si è appena
visto, un inconveniente di mero fatto, irrilevante ai
fini del giudizio di legittimità costituzionale. Per
contrastare possibili abusi degli uffici tributari sono
invece sufficienti, come sarà meglio precisato al punto
5.3., da un lato, la previsione dell'obbligo dei
pubblici ufficiali - e, quindi, anche dei verificatori
fiscali - di inoltrare senza ritardo la denuncia penale
(obbligo sanzionato dall'art. 361 del codice penale) e,
dall'altro, la controllabilità giudiziale circa la
sussistenza dei precisi ed obiettivi presupposti
richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza perché
sorga detto obbligo.
Il termine raddoppiato, inoltre, non è
irragionevolmente ampio, perché è di poco superiore al
termine di prescrizione dei reati suddetti (sei anni) e
la sua entità è adeguata a soddisfare la ratio legis di
dotare l'amministrazione finanziaria di un maggior lasso
di tempo per acquisire e valutare dati utili a
contrastare illeciti tributari, i quali, avendo
rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente
ritenuti dal legislatore particolarmente gravi e, di
norma, di complesso accertamento. In particolare, la
gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti
derivano sia dalla non arbitraria ipotizzabilità (in
base a chiari ed obiettivi elementi indiziari) dei reati
perseguibili d'ufficio previsti dal d.lgs. n. 74 del
2000; sia dal fatto che tali reati - in considerazione
delle modalità della condotta criminosa ovvero della
misura del danno arrecato all'erario - normalmente
richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali
particolarmente difficili al fine di determinare
l'effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi
d'imposta. Tale situazione, del resto, si presenta anche
nelle fattispecie oggetto di esame nei giudizi
principali riuniti, in relazione alle quali si
addebitano alla contribuente, per gli anni d'imposta in
contestazione in detti giudizi, dichiarazioni
fraudolente od infedeli.
L'individuata ratio legis non esclude che il
legislatore abbia avuto di mira anche l'ulteriore
obiettivo indicato nella relazione d'accompagnamento al
disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 223
del 2006, secondo la quale le disposizioni denunciate
sono dirette a consentire la circolazione delle prove
dal giudizio penale al procedimento tributario. Tale
ratio indubbiamente può sussistere in concreto, data la
normale maggiore durata del processo penale rispetto ai
termini di accertamento "brevi", ma non è idonea, da
sola, ad improntare la disciplina in esame sia perché -
secondo quanto già osservato - il raddoppio dei termini
consegue dal mero riscontro di fatti comportanti
l'obbligo di denuncia penale, indipendentemente
dall'effettiva presentazione della denuncia o
dall'inizio dell'azione penale; sia perché - come si
vedrà meglio più avanti - l'obbligo di denuncia
(comportante il raddoppio dei termini di accertamento)
sorge anche ove sussistano cause di non punibilità
impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed
il cui accertamento resti riservato all'autorità
giudiziaria penale; sia perché - in base a quanto si è
appena visto - il termine raddoppiato di accertamento è
comunque più ampio del termine di prescrizione del reato
(sei anni). La circolazione di elementi probatori dal
giudizio penale al procedimento tributario è, dunque,
solo eventuale e temporalmente limitata, e costituisce
una giustificazione solo accessoria e parziale dei
denunciati commi 25 e 26 dell'art. 37 del decreto-legge
n. 223 del 2006.
Va sottolineato, altresí, che l'ampiezza dei termini
derivante dal suddetto raddoppio si inserisce in un più
vasto quadro sistematico. In particolare, essa è analoga
a quella fissata dall'art. 27, commi 16 e 17, del
decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti
per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e
impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il
quadro strategico nazionale), convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Tali
disposizioni, con riferimento ad ipotesi simili al reato
di indebita compensazione previsto dall'art. 10-quater
del d.lgs. n. 74 del 2000, stabiliscono che - salvi i
più ampi termini previsti dalla legge in caso di
violazione comportante l'obbligo di denuncia penale ai
sensi dell'art. 331 cod. proc. pen. per il reato
previsto dal citato art. 10-quater - l'atto di
accertamento dei crediti indebitamente utilizzati dal
contribuente in compensazione, indicato dall'art. 1,
comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), deve
essere notificato entro il termine di decadenza del 31
dicembre dell'ottavo anno successivo a quello
dell'utilizzo di crediti inesistenti in compensazione.
Per completezza, va infine rilevato che, in forza
della specialità del censurato terzo comma dell'art. 57
del d.P.R. n. 633 del 1972, non rientrano nel computo
dei termini da raddoppiare i prolungamenti di quelli
previsti da altre disposizioni di legge. Induce a tale
conclusione la lettera del citato terzo comma dell'art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede il raddoppio
dei soli "termini di cui ai commi precedenti" dello
stesso articolo; e cioè dei termini che scadono il 31
dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è
stata presentata la dichiarazione (primo comma), nonché
dei termini che scadono il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe
dovuto essere presentata (secondo comma). Non rientrano,
pertanto, nel computo dei termini da raddoppiare ai
sensi delle disposizioni denunciate né la proroga
biennale di cui all'art. 10 della legge n. 289 del 2002,
né il diverso raddoppio dei termini dei medesimi primi
due commi dell'art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972 previsto,
nell'ambito degli interventi antievasione e antielusione
internazionale e nazionale, dal comma 2-bis dell'art. 12
del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti
anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, comma
inserito dall'art. 1, comma 3, del decreto-legge 30
dicembre 2009, n. 194, convertito, con modificazioni,
dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25. Pertanto, nel caso
in cui i prolungamenti di termini previsti dalle
disposizioni denunciate e da altre disposizioni siano
astrattamente applicabili in relazione alla medesima
fattispecie, l'amministrazione finanziaria non potrà mai
utilizzarli in modo cumulativo al fine di superare il
massimo dell'ampliamento temporale previsto dalla
singola normativa più favorevole per l'amministrazione.
Questa interpretazione esclude che le disposizioni
denunciate possano concorrere a rendere
irragionevolmente lunghi i tempi dell'accertamento.
5.3.- Con la terza censura il rimettente afferma che
il denunciato combinato disposto viola gli artt. 3 e 97
Cost., perché, non condizionando il raddoppio dei
termini né all'avvio dell'azione penale prima del
decorso dei termini "brevi" di decadenza
dall'accertamento né all'esito di tale azione,
attribuisce all'amministrazione finanziaria -
irragionevolmente ed in contrasto con i principi di
imparzialità e di buon andamento - il potere
discrezionale di estendere i termini dell'accertamento
in base ad una soggettiva e non controllabile
valutazione circa la necessità di presentare denuncia
penale per violazioni ricondotte ad ipotesi di reato,
"magari su elementi puramente indiziari e
strumentalmente enfatizzati".
La questione non è fondata.
Si è già rilevato che il rimettente muove da una
interpretazione plausibile delle disposizioni censurate,
le quali, in base al loro tenore letterale, stabiliscono
che il raddoppio dei termini deriva dall'insorgenza
dell'obbligo della denuncia penale, indipendentemente
dall'effettiva presentazione di tale denuncia o da un
accertamento penale definitivo circa la sussistenza del
reato.
Detta interpretazione non implica, tuttavia, che la
legge attribuisca all'amministrazione finanziaria
l'arbitrario ed incontrollabile potere di raddoppiare i
termini "brevi" di accertamento.
Quanto all'asserita arbitrarietà, infatti, il
raddoppio non consegue da una valutazione discrezionale
e meramente soggettiva degli uffici tributari, ma opera
soltanto nel caso in cui siano obiettivamente
riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli
elementi richiesti dall'art. 331 cod. proc. pen. per
l'insorgenza dell'obbligo di denuncia penale. Per
costante giurisprudenza della Corte di cassazione, tale
obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale sia in
grado di individuare con sicurezza gli elementi del
reato da denunciare (escluse le cause di estinzione o di
non punibilità, che possono essere valutate solo
dall'autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il
generico sospetto di una eventuale attività illecita (ex
plurimis, sentenze della Cassazione penale n. 27508 del
2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n. 1244 del 1985; n.
6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre,
sottolineato al riguardo che il pubblico ufficiale -
allorché abbia acquisito la notitia criminis
nell'esercizio od a causa delle sue funzioni - non può
liberamente valutare se e quando presentare la denuncia,
ma deve inoltrarla prontamente, pena la commissione del
reato previsto e punito dall'art. 361 cod. pen. per il
caso di omissione o ritardo nella denuncia.
Quanto all'asserita incontrollabilità
dell'apprezzamento degli uffici tributari circa la
sussistenza del reato, va obiettato che - contrariamente
a quanto affermato dal rimettente - il sistema
processuale tributario consente, invece, il controllo
giudiziario della legittimità di tale apprezzamento. Il
giudice tributario, infatti, dovrà controllare, se
richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza
dei presupposti dell'obbligo di denuncia, compiendo al
riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta
"prognosi postuma") circa la loro ricorrenza ed
accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria
abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un
uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni
denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un
più ampio termine di accertamento. E' opportuno
precisare che: a) in presenza di una contestazione
sollevata dal contribuente, l'onere di provare detti
presupposti è a carico dell'amministrazione finanziaria,
dovendo questa giustificare il più ampio potere
accertativo attribuitole dal censurato terzo comma
dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il
correlativo tema di prova - e, quindi, l'oggetto della
valutazione da effettuarsi da parte del giudice
tributario - è circoscritto al riscontro dei presupposti
dell'obbligo di denuncia penale e non riguarda
l'accertamento del reato; c) gli eventuali limiti
probatori propri del processo tributario hanno,
pertanto, una ridotta incidenza nella specie e,
comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate
questioni.
5.4.- Con la quarta censura viene affermato che il
denunciato combinato disposto si pone in contrasto con
l'art. 3 Cost., perché, "consentendo discipline
differenziate per la notifica dell'accertamento",
introduce "irragionevoli elementi di disparità di
trattamento".
Anche tale questione non è fondata.
La censurata disparità di trattamento non sussiste,
perché la ricorrenza di elementi tali da obbligare alla
denuncia penale ai sensi dell'art. 331 cod. proc. pen.
costituisce una situazione eterogenea rispetto a quella
in cui tali elementi non ricorrono. E' innegabile,
infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di
specifici reati tributari, espressivi di un particolare
disvalore, giustifica la previsione di una disciplina
differenziata, proprio in ragione della gravità dei
fatti e della maggiore difficoltà che, di norma,
richiede il loro accertamento.
5.5. - Con la quinta censura viene affermato che la
normativa denunciata si pone in contrasto con l'art. 25
Cost. perché, in presenza di ipotesi di reato previste
dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia l'obbligo
di denuncia, essa rende retroattivamente applicabile la
sanzione del raddoppio dei termini per l'accertamento
dell'imposta.
La questione non è fondata, perché la disciplina del
raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria. Non è
perciò invocabile, nella specie, il principio di
irretroattività della norma penale sfavorevole previsto
dall'evocato secondo comma dell'art. 25 Cost. E ciò a
prescindere dalla considerazione che - per quanto
osservato ai punti 3.2. e 5.1.2. - la disciplina fiscale
censurata si applica solo per l'avvenire, con
riferimento sia agli illeciti commessi a decorrere dalla
data di entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del
2006 sia a quelli commessi anteriormente e per i quali,
a tale data, non siano ancora decorsi i termini di cui
ai primi due commi dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del
1972.
In particolare, il raddoppio dei termini di
accertamento non può qualificarsi "sanzione penale",
neppure impropria o atipica. Esso infatti, da un lato,
non rappresenta la reazione ad un illecito penale,
perché - come si è visto - consegue non
dall'accertamento della commissione di un reato, ma solo
dall'insorgere dell'obbligo di denuncia dei reati
previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, restando irrilevante
il fatto che l'azione penale non sia iniziata o non sia
proseguita o intervenga una decisione penale di
proscioglimento, di assoluzione o di condanna;
dall'altro, non costituisce una conseguenza sfavorevole
sul piano sostanziale, perché non comporta né un obbligo
di prestazione né l'emissione di un atto di
accertamento. Il mero assoggettamento ad un termine più
lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna
funzione afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto
di reato, ma, operando su un piano meramente
procedimentale, persegue solo il sopra evidenziato
obiettivo di attribuire agli uffici tributari maggior
tempo per accertare l'effettiva capacità contributiva
del soggetto passivo d'imposta, quando ciò sia
giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai
sensi dell'art. 331 cod. proc. pen. , di violazioni
gravi e di più difficile controllo.
PER QUESTI
MOTIVI
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale del combinato disposto del terzo comma
dell'art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica
del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto) - comma inserito dal
comma 25 dell'art. 37 del decreto-legge del 4 luglio
2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio
economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché
interventi in materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 -, e del comma 26
dell'art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006,
sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di
Napoli, in riferimento all'art. 3, comma 3, della legge
27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di
statuto dei diritti del contribuente), con l'ordinanza
indicata in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale del suddetto combinato disposto del terzo
comma dell'art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e del
comma 26 dell'art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006,
sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di
Napoli, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della
Costituzione, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio
2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
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