Un lavoratore è licenziato dalla
ditta datrice di lavoro e impugna il licenziamento che
viene dichiarato illegittimo in primo e in secondo
grado. Un ruolo importante giocano le deposizioni
testimoniali di due colleghi di lavoro che, a loro volta
licenziati dalla stessa ditta, hanno instaurato un
giudizio analogo avente a oggetto uguali domande.
Avverso la pronuncia di appello la ditta datrice di
lavoro promuove ricorso per Cassazione e, tra gli altri
motivi di censura, deduce che il giudice di appello
avrebbe dovuto considerare inattendibili i testi, in
quanto soggetti “interessati”.
La censura non coglie nel segno,
infatti, con la Sentenza n. 21279/2011, la Suprema Corte
rigetta il ricorso. L’incapacità a testimoniare è
correlabile solo a un diretto coinvolgimento della
persona chiamata a deporre nel rapporto controverso,
tale da legittimare una sua assunzione della qualità di
parte in senso sostanziale o processuale nel giudizio e
non già alla ravvisata sussistenza di un qualche
interesse della suddetta persona in relazione a
situazioni e a rapporti diversi da quello oggetto della
vertenza, anche se in qualche modo connessi. La capacita
a testimoniare e diversa dalla valutazione
sull’attendibilità del teste, operando le stesse su
piani diversi, stante che l’una dipende dalla presenza
in un interesse giuridico, non di mero fatto, che
potrebbe legittimare la partecipazione del teste al
giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità
della deposizione che il giudice deve discrezionalmente
valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva e
di carattere soggettivo, quali la credibilità della
dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai
rapporti con le parti e anche all’eventuale interesse a
un determinato esito della lite, con la precisazione che
anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo,
se ritenuto di particolare rilevanza, può essere
sufficiente a motivare una valutazione di
inattendibilità. Sussiste incompatibilità delle
posizioni di teste e di parte nel giudizio, anche solo
potenziale, ovvero del teste che sia contitolare della
situazione giuridica dedotta in giudizio da un altro
soggetto. Solo in tali casi si verifica l’incapacità a
testimoniare, non essendo configurabile,
nell’ordinamento vigente, un generale divieto di
testimonianza e dovendosi invece verificare di volta in
volta la natura del diritto oggetto della controversia,
avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta
interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a
testimoniare, che introducono una deroga al generale
dovere di testimonianza. La ricorrente ha anche eccepito
che il lavoratore che si oppone al licenziamento,
determinato da una legittima riduzione del personale, ha
l’onere di fornire la prova della possibilità per
l’azienda di una sua diversa utilizzazione. Ma, la Corte
rileva che il giudice di appello ha pienamente
rispettato il riparto dell’onere probatorio. In caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il
datore di lavoro, le cui scelte imprenditoriali non sono
sindacabili dal giudice se non sono simulate o
pretestuose, ha l’onere di provare che al momento del
licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro
analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto
essere assegnato il lavoratore licenziato per
l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte,
tenuto conto della professionalità raggiunta dal
lavoratore medesimo e sempre il datore deve inoltre
dimostrare di non avere effettuato per un congruo
periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova
assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore
licenziato.
Anna Teresa Paciotti |