L’atto di dimissioni di un
dipendente da un determinato incarico, nel caso
specifico quello di direttore generale, non può essere
interpretato come volontà di rescindere completamente il
rapporto di lavoro subordinato. E ciò anche se vi siano
degli elementi di contesto che possano lasciar pensare
una cosa simile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione,
sentenza 19709/2011, bocciando una sentenza della corte
di Appello di Bologna che aveva interpretato le
dimissioni del soggetto come l’espressione della volontà
di volersi licenziare.
Per la Suprema corte però
“nell’interpretazione dei negozi unilaterali il canone
ermeneutico di cui all’articolo 1362, primo comma, c.c.,
impone di accertare esclusivamente l’intento proprio del
soggetto che ha posto in essere il negozio, anche
servendosi dei nessi grammaticali e sintattici di cui
all’articolo 1363 del Cc, dovendosi escludere, di
contro, per l’unilateralità che connota il negozio, che
possa fasi ricorsi al canone ermeneutico della comune
intenzione delle parti”. “Né può indagarsi, per
ricostruire la volontà negoziale unilaterale, oltre il
senso letterale delle parole adoperate, dando rilievo ad
atti esterni al negozio, non spiegando rilevanza, a tal
fine, il contesto in cui si sia progressivamente formata
la volontà negoziale, ove non incorporato nel documento
scritto, o la valutazione del comportamento dei
destinatari dell’atto”.
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