Il legislatore, nell'individuare i
reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei
beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni
dall'episodio criminoso singolo per cui la condanna è
intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla
sola condanna del soggetto che di quei beni dispone.
Il giudice "non deve ricercare
alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il
reato per cui ha pronunciato condanna e nemmeno tra
questi stessi beni e l'attività criminosa del
condannato". Deve sempre essere ordinata la confisca
"quando sia provata l'esistenza di una sproporzione tra
il valore economico dei beni di cui il condannato ha la
disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i
proventi della sua attività economica e non risulti una
giustificazione credibile circa la provenienza delle
cose".
La confisca non è esclusa "per il
fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore
o successiva al reato per cui si è proceduto o che il
loro valore superi il provento del delitto per cui è
intervenuta condanna".
Si è cioè in presenza di una misura
di sicurezza atipica con funzione dissuasiva parallela
alla affine misura di prevenzione antimafia di cui alla
legge 31 maggio 1965 n. 575.
Cassazione, sez. II, 19 agosto
2011, n. 32563
(Pres. Esposito – Rel. Pagano)
Osserva
D.C.E., indagato ex art. 416 bis
c.p., per avere partecipato in qualità di sodale del
“locale” di Legnago, all'associazione di stampo
'ndranghetistico attiva nella regione Lombardia con
stretti legami con la 'ndrangheta calabrese e
finalizzata alla commissione di una serie di delitti
contro l'incolumità personale, delitti concernenti armi,
traffico di stupefacenti, estorsione, usura, riciclaggio
ed altro, ricorre avverso l'ordinanza del Tribunale del
Riesame di Milano in data 9.2.2011 con la quale è stato
confermato il decreto di sequestro preventivo del Gip di
Milano del 3.1.2011 della quota di sua proprietà di un
immobile uso abitazione e di un box sito in (omissis)
cointestato con la moglie in regime di separazione dei
beni, il difensore deduce violazione di legge per essere
l'ordinanza redatta dal Presidente del Tribunale
intestata con nomi di giudici differenti da quelli che
ebbero a partecipare all'udienza camerale. Con altro
motivo deduce mancanza e manifesta illogicità della
motivazione rilevando che la rata di mutuo di Euro 262
mensili per l'immobile acquistato nell'anno 1999 è
senz'altro da ritenersi sostenibile anche con i redditi
di entrambi i coniugi, considerando la disponibilità
dello stipendio mensile del D.C. ammontante a circa Euro
1.000 - 1.500. Deduce inoltre mancanza di motivazione
con riferimento alla legittima provenienza del bene,
dato che ne esclude la confiscabilità e quindi il
sequestro ex art. 12 sexies d.l. 306/92. Al riguardo
reitera le specifiche argomentazioni già rese in sede di
riesame rilevando che la documentazione prodotta indica
la lecita provenienza del denaro (tutto della moglie
D'A. M.C. che con i canoni di una locazione ha
corrisposto anche il mutuo) utilizzato per l'acquisto.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. È
infatti consolidato principio di legittimità l'essere
emendabile con il rimedio della correzione dell'errore
materiale senza dare quindi luogo a nullità
l'indicazione, nella intestazione della sentenza, di un
componente del collegio giudicante diverso da quello che
ha preso parte alla deliberazione, e che risulta invece
dal verbale di udienza (Cass. Il n. 18570 del 23.1.2009,
depositata 5.5.09, rv. 244442; Cass. III n. 41941 del
4.10.2005, depositata 22.11.05, rv. 232828). Ciò in
quanto non sussistono dubbi sulla effettiva composizione
del collegio che ha partecipato all'udienza in Camera di
consiglio ed ha pronunciato la relativa deliberazione,
composizione che è appunto attestata dal verbale di
udienza e dal verbale del dispositivo letto in udienza.
Allorché il provvedimento è
sottoscritto (come nella specie) dal presidente che fece
effettivamente parte del collegio, la errata indicazione
nella intestazione della sentenza del nome di un giudice
che non prese parte ad dibattimento ed alla decisione al
posto di quello che effettivamente partecipò al
dibattimento e concorse alla pronuncia, non è causa di
nullità, ma costituisce un mero errore materiale ed una
semplice irregolarità formale, cui può essere posto
riparo con la procedura della correzione degli errori
materiali, dal momento che questa non importa una
modifica essenziale dell'atto e che la reale situazione
trova incontestabile riscontro e documentazione nelle
risultanze del verbale del dibattimento.
Il gravame nella parte in cui
prospetta vizi di motivazione è inammissibile essendo
ammesso ricorso solo per violazione di legge secondo
quanto disposto dall'art. 325 c. 1 c.p.p. relativo al
contenuto dei ricorsi avverso i provvedimenti di
sequestro. Né nel caso in esame può parlarsi di totale
carenza o mera apparenza di motivazione integrante vizio
di violazione di legge ex art. 125 e 606 c. 1 lett. C
c.p.p. (vedi Cass. IV 10.2.04 n. 5302, c.c. 21.1.04, rv.
227095) concetto questo ben distinto dalla illogicità
manifesta che può denunciarsi nel giudizio di
legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo
motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606
stesso codice (Vedi Cass. S.U. 13.2.04 n. 5876, c.c.
28.1.04, rv. 226710, proprio in materia di ricorsi
avverso provvedimenti di sequestro). Il percorso
motivazionale relativo alla disponibilità economica da
parte del D.C. è correttamente fondato sulla esiguità
dei redditi percepiti nei vari anni (il Tribunale ha
specificatamente considerato tutta la documentazione
prodotta), redditi appena sufficienti per il
sostentamento primario e non per la corresponsione della
quota di mutuo a lui spettante. Con riferimento al terzo
motivo di ricorso il Tribunale ha debitamente accertato
la non proporzionalità del reddito del proposto e dei
suoi familiari facendo riferimento alla documentazione
tributaria ed agli accertamenti del consulente di
ufficio. Al riguardo si osserva la correttezza del
principio di diritto seguito dal Tribunale che ha
ritenuto non necessaria la dimostrazione del nesso
causale tra la presunta condotta mafiosa e l'illecito
profitto, essendo sufficiente la dimostrazione della non
lecita provenienza del bene che è comunque deducibile
dalla evasione fiscale delle somme necessarie per
l'acquisto, somme provenienti da una causale non
specificata (Cass. VI 25.9.03 n. 36762, c.c. 27.5.03,
rv. 226655; Cass. II 26.5.99 n. 2181, c.c. 6.5.99, rv.
213853; Cass. I 22.2.96 n. 148, c.c. 15.1.96, rv.
204036). Le Sezioni Unite della Corte con sentenza
17.12.03, Montella hanno statuito che "il legislatore,
nell'individuare i reati dalla cui condanna discende la
confiscabilità dei beni, non ha presupposto la
derivazione di tali beni dall'episodio criminoso singolo
per cui la condanna è intervenuta, ma ha correlato la
confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di
quei beni dispone". Il giudice "non deve ricercare alcun
nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato
per cui ha pronunciato condanna e nemmeno tra questi
stessi beni e l'attività criminosa del condannato". Deve
sempre essere ordinata la confisca "quando sia provata
l'esistenza di una sproporzione tra il valore economico
dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il
reddito da lui dichiarato o i proventi della sua
attività economica e non risulti una giustificazione
credibile circa la provenienza delle cose". La confisca
non è esclusa "per il fatto che i beni siano stati
acquisiti in data anteriore o successiva al reato per
cui si è proceduto o che il loro valore superi il
provento del delitto per cui è intervenuta condanna". Si
è cioè in presenza di una misura di sicurezza atipica
con funzione dissuasiva parallela alla affine misura di
prevenzione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965
n. 575.
Le Sezioni Unite hanno anche
chiarito che la norma non è manifestamente in contrasto
con la Costituzione. Non si può parlare di violazione di
diritto di difesa in quanto l'onere imposto all'imputato
di esporre fatti e circostanze con specifici riferimenti
cronologici in ordine a specifici acquisti, non
costituisce la richiesta di prova di impossibile
attuazione bensì un onere "di agevole assolvimento". Né
la norma collide con la presunzione di non colpevolezza,
considerando che nella specie non si tratta di presumere
la colpevolezza di un soggetto, ma la provenienza di un
patrimonio.
La stessa sentenza ha anche
statuito (ciò con riferimento allo specifico gravame sul
punto) che la prova di positiva liceità della
provenienza di acquisti in forza di titolo negoziale non
consiste nella esibizione di titoli di acquisto
giuridicamente e formalmente validi, ma nel fornire una
esauriente spiegazione in termini economici di una
derivazione dei beni da attività consentite
dall'ordinamento. Il giudice deve quindi in forza del
suo libero convincimento accertare la proporzione dei
singoli beni al reddito ed alle attività del prevenuto,
libero convincimento di cui deve fornire motivazione non
manifestamente illogica. Il ricorso sul punto deve
essere dichiarato inammissibile dal momento che non
possono essere rivolte censure di illogicità al giudice
di merito che ha accertato l'incapacità reddituale
dell'indagato e della sua famiglia a fronte di
acquisizioni patrimoniali effettuate in contiguità
temporale con la contestata attività illecita mafiosa.
L'impugnazione è pertanto inammissibile a norma
dell'art. 606 c. 3 c.p.p.; alla relativa declaratoria
consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p. la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali, nonché al versamento in favore della Cassa
delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i
profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina
equitativamente in Euro 1.000.
Il provvedimento di correzione sarà
effettuato a norma dell'art. 130 c. 1 c.p.p. dal giudice
di merito.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e
condanna il ricorrènte al pagamento delle spese
processuali e di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.
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