Recupero cliente tassa parere
congruitaNon sono dovute dal cliente all’avvocato le
spese da questi sostenute per ottenere il parere di
congruità della parcella se il Consiglio dell’Ordine
abbia poi notevolmente ridotto la richiesta
originariamente avanzata dal professionista. La Corte,
nella sentenza epigrafata, aderisce a quell’indirizzo
interpretativo che, in materia di ripartizione
dell’onere delle spese in generale e per quelle
richieste dal difensore al proprio cliente, valorizza il
principio di causalità per il quale vanno addossate, al
soccombente e al cliente, le sole spese che siano state
rese necessarie per la realizzazione del credito del
difensore. In tale logica la tassa pagata al Consiglio
dell’Ordine in caso di sostanziale decuratazione della
parcella non può essere addebitata al cliente
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Cassazione civile, sez. II, 10
ottobre 2011, n. 20806
1250978937
Svolgimento del processo
L’avvocato N.S. chiese ed ottenne
dal Presidente del Tribunale di Bari che si ingiungesse
a P.C., in proprio e quale legale rappresentante della
Perilli SMR Impianti spa di pagare varie somme a titolo
di corrispettivo dell’opera professionale prestata
nell’ambito di un giudizio - prima innanzi al Tar della
Puglia, indi in grado di appello (relativamente
all’impugnazione di un provvedimento cautelare) al
Consiglio di Stato - in cui esso ricorrente aveva
patrocinato l’impresa individuale del P., impugnando un
provvedimento di aggiudicazione di una gara di un
appalto al quale lo stesso aveva partecipato. La
richiesta ingiuntiva era stata estesa alla società in
quanto cessionaria dell’azienda dell’impresa P..
Il P. nella sua duplice qualità
propose opposizione contestando la determinazione di
valore del procedimento al fine dell’identificazione
dello scaglione tariffario applicabile nonché la
conseguente quantificazione nei limiti massimi. Il N. si
costituì contrastando l’opposizione.
L’adito Tribunale, pronunziando
sentenza n. 221/2004, riconobbe in parte fondali i
motivi dell’opposizione e, revocando il decreto
d’ingiunzione, condannò le parti opponenti al pagamento
in solido di Euro 27.236,28 oltre interessi legali dalla
pubblicazione della sentenza nonché la sola società a
versare Euro 14.308,86 oltre accessori. La Corte di
Appello di Bari, decidendo sull’impugnazione principale
del P. e della società, nonché sull’appello incidentale
del N., respinse la prima ed accolse in parte il
secondo, giudicando che gli interessi legali sulla somma
dovuta a titolo di corrispettivo dovessero essere
corrisposti a far data dalla spedizione della parcella
al cliente; compensò per metà le spese dei due gradi e
pose il residuo a carico delle parti appellanti
principali.
La Corte distrettuale pervenne a
tale decisione giudicando che il Tribunale avesse
correttamente liquidato il compenso, applicando i
coefficienti massimi per le cause di valore sino ad un
miliardo di lire; ritenne in particolare giustificata la
determinazione nel massimo tariffario per la complessità
della causa e per la qualità dell’attività difensiva del
legale; giudicò altresì dovuta la maggiorazione del 20%
per la presenza - nel giudizio amministrativo - di un
contro interessato (la società aggiudicataria
dell’appalto) oltre la originaria controparte (il Comune
di Adelfia, che aveva proceduto all’aggiudicazione, poi
annullata), come pure legittima la richiesta delle spese
sostenute dal legale per la trasferta a Roma per
discutere la causa innanzi al giudice amministrativo e
per ottenere il parere di congruità da allegare alla
richiesta di ingiunzione. Giudicò infine equiparabile ad
un formale atto di messa in mora la spedizione della
parcella al cliente. Contro tale decisione il P. e la
sua società hanno proposto ricorso per cassazione,
articolandolo in 11 (essendo indicato due volte il
motivo n. 5) motivi, depositando altresì memoria, cui ha
resistito il N. con controricorso.
Motivi della decisione
È stata depositata, prima della
discussione orale, memoria con allegata copia
dell’estratto della sentenza dichiarativa del fallimento
della spa Perilli SMK Impianti, al fine di far
dichiarare l’interruzione del giudizio; la richiesta non
è accoglibile in quanto il procedimento di legittimità è
presidiato dall’impulso ufficioso e quindi ad esso non
si applicano le cause di interruzione tipiche del
giudizio di merito (cfr. ex multis: Cass. 23.294/2004;
Cass. S.U. 17295/2003), essendo
ininfluente che vi sia stata o meno la declaratoria
dell’evento in udienza da parte del procuratore del
soggetto colpito dall’evento estintivo (cfr. sul punto:
Cass. 14.385/2007) come pure che - come nella
fattispecie - il fallimento sia stato dichiarato dopo
l’entrata in vigore della modifica della L. Fall., art.
43, per effetto del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art.
41, - che statuisce che “l’apertura del fallimento
determina l’interruzione del processo” - (vedi in
proposito: Cass. 21.153/2010).
1 - Con il primo motivo viene
denunziata la violazione e falsa applicazione del D.M.
n. 585 del 1994, art. 6, comma 5: sostengono le parti
ricorrenti che la Corte di Appello avrebbe travisato la
decisione del Tribunale laddove il primo giudice, pur
identificando la causa come rientrante in quelle di
valore indeterminato, avrebbe in concreto computato il
valore di un miliardo, in quanto ritenuto il massimo per
siffatto “scaglione” ma non avrebbe affermato, come
invece opinato dalla Corte territoriale, che si
trattasse di causa di straordinaria importanza;
considerando altresì che l’art. 6, comma 5, della
tariffa, rinviava alla Tabella A par. 6^ lett. M della
stessa e che quest’ultima disciplinava gli onorari
massimi per le cause di valore indeterminabile con
riferimento a quelli previsti per le cause di valore
compreso tra 100 e 200 milioni di lire, la Corte di
Appello non avrebbe statuito, con motivazione
sufficientemente argomentata, quale fosse il valore
massimo - ai fini della liquidazione degli onorari -
delle cause di valore indeterminato.
1/a - La Corte di Appello sarebbe
incorsa anche nel vizio di ultrapetizione, discettando
di ordinarietà e straordinarietà della causa di valore
indeterminato senza che la relativa problematica fosse
stata affrontata nel precedente grado di giudizio.
2 - Il motivo non merita
accoglimento.
2/a - Non è innanzitutto fondata la
censura di ultrapetizione in quanto rientra nel
potere-dovere del giudice di riscontrare i presupposti
per l’accoglimento della domanda: nella fattispecie,
controvertendosi sulla applicazione della “finca”
tariffaria da applicare e sul valore interpretativo da
attribuire alla disposizione di cui all’art. 6, comma 5,
della tariffa, appare logicamente ineccepibile che la
Corte d’appello abbia proceduto innanzi tutto
all’interpretazione delle doglianze contenute
nell’impugnazione, con riferimento al dettato di quella
norma che si riteneva violata; ciò oltretutto appariva
essenziale in quanto il percorso argomentativo del
motivo di appello involgeva non solo l’art. 6, comma 5,
ma anche il significato da attribuire al rinvio in esso
contenuto, alla Tabella A par 6^ lett. M che appunto
parlava di cause di particolare importanza.
2/b - Ancor meno condivisibile,
sempre nella prospettiva della violazione dell’art. 112
c.p.c., è la pretesa intangibilità dell’attribuzione, da
parte del Tribunale, del valore indeterminato ma di non
particolare importanza da attribuire alla controversia:
invero la censura è inammissibile
in quanto non viene riportato il contenuto della
statuizione del giudice di primo grado, che dovrebbe
aver formato il medium comparationis di quella della
Corte di Appello; dalla lettura della sentenza del
giudice di secondo grado appare invece che la doglianza
- per quello che qui interessa - che alla prima
pronunzia venne mossa dagli attuali ricorrenti sarebbe
stata solo quella di aver applicato i coefficienti
massimi alle cause di valore indeterminabile e non già
quella di aver ritenuto che, nell’ambito di tale valore,
dovesse rinvenirsi quello di particolare importanza.
3 - Il nucleo centrale del motivo
involge l’interpretazione da dare al rapporto tra il
D.M. n. 585 del 1994, art. 6, comma 5, ed il paragrafo
6^ lett. M della tabella allegato A alla tariffa.
3/a - Ciò posto il primo elemento
valutativo è quello derivante dalla impossibilità di
utilizzare, nella determinazione del valore, i criteri
stabiliti dal codice di rito, atteso che l’art. 6 comma
3, prevede espressamente che non siano in valutazione,
nel contenzioso innanzi al giudice amministrativo,
diritti soggettivi (“negli altri casi”) e in tale
ipotesi (comma 4) - applicabile alla fattispecie, ove,
come meglio più oltre si andrà a specificare, si faceva
questione solo della caducazione del provvedimento
amministrativo- afferma che devono valutarsi gli
interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti;
qualora neppure in questo caso si pervenga ad una sicura
quantificazione del valore della res controversa, allora
questo dovrà considerarsi “non suscettibile di
determinazione” e, quindi, si applicheranno gli onorari
minimi previsti per le cause da oltre lire 50 milioni a
lire 100 milioni e gli onorari massimi previsti per le
cause di valore fino ad un miliardo. Il richiamo
inserito in detto comma, alla tabella A (par 6^) ha un
significato se lo si colleghi alla lettera M di tale
paragrafo che stabilisce che per le cause di valore
indeterminabile gli onorari minimi sono quelli previsti
per le cause di valore da 10 sino a 50 milioni mentre
quelli massimi saranno quelli previsti per le cause di
valore superiore a 100 milioni fino a 200 milioni.
3/b - A fini interpretativi -
stante la non particolare chiarezza del richiamo
contenuto dell’art. 6 in esame - va attribuito rilievo
determinante alla relazione ministeriale al D.M. n. 127
del 2004 di approvazione della tariffa immediatamente
successiva a quella oggetto del D.M. n. 585 del 1994,
che, nell’illustrare le modifiche introdotte alla
precedente disposizione tariffaria, ha avuto cura di
evidenziare che “nelle previgenti tariffe erano previsti
criteri diversi per le cause civili ed amministrative.
In particolare, per le cause civili di valore
indeterminabile e di particolare importanti, il criterio
di riferimento non era univoco; infatti il par 6^ alla
lettera m) prevedeva che per gli onorari di...” così
evidenziando che il richiamo alla tabella A par. 6^
riguardava le cause civili e non quelle amministrative,
meno suscettibili di una precisa valutazione quanto a
valore.
3/c - Posta la questione in
quest’ottica interpretativa appare evidente che neppure
si sarebbe dovuto porre il problema della compatibilità
tra i due criteri (quello desumibile dall’art. 6, comma
5 e quello ricavabile dal richiamo alla tab. A par. 6^),
dovendosi applicare - come deciso dalla Corte
territoriale - solo la prima delle due norme
regolamentari, per effetto della quale il valore della
causa indeterminabile comportava, nel massimo, la
liquidazione degli onorari stabiliti per le cause sino
ad un miliardo di lire.
4 - Con il secondo motivo viene
dedotta la violazione e falsa applicazione del D.M. n.
585 del 1994, art. 6, commi 3 e 4 - rispetto ai quali il
successivo comma 5 assumerebbe valore residuale -,
nonché difetto di motivazione, sostenendosi che la Corte
barese si sarebbe sottratta dall’obbligo di motivare
sulla ricorrenza o meno dei parametri - esclusivi per la
difesa della parte in procedimenti amministrativi -
relativi agli interessi involti nella controversia e
sostanzialmente perseguiti dalle parti, tenuto altresì
conto dell’interesse sostanziale - anche sotto il
profilo del risarcimento del danno - che riceve tutela
dalla sentenza amministrativa.
5 - Con il terzo motivo i
ricorrenti nuovamente censurano l’interpretazione del
D.M. n. 585 del 1994, art. 6, comma 5, ritenendo che la
Corte distrettuale fosse giunta alla - ritenuta -
quadruplicazione dell’onorario massimo, omettendo di
considerare - e quindi di motivare sul punto - che per i
giudizi amministrativi si sarebbe dovuto tener conto
degli effetti di qualunque natura che possono sortire
dalla declaratoria di illegittimità dell’atto
amministrativo: evidenziano in merito che, se pure era
vero che il valore dell’appalto poi annullato era di 800
milioni di lire, tuttavia qualora la gara fosse stata
aggiudicata alla società ricorrente, il vantaggio che
essa avrebbe potuto trarre da ciò sarebbe stato
rappresentato dal risarcimento del danno da rapportare
alla perdita di chances pari all’usuale utile di impresa
aggirantesi sul 10% dell’intero importo e quindi, di
nuovo, anche in questa diversa prospettiva, la causa non
avrebbe potuto qualificarsi di “straordinaria
importanza”. 4-5/a - I due motivi, che vanno esaminati
congiuntamente per la loro stretta connessione logica,
non sono fondati atteso che - da quanto esposto nella
narrativa di fatto della sentenza di appello - il
giudizio, dapprima articolatosi nella fase cautelare,
quindi in quella di appello al provvedimento di
sospensiva, e indi nella fase del merito innanzi al TAR,
non prevedeva oltre alla caducazione del provvedimento
di aggiudicazione, anche il riconoscimento di un
risarcimento del danno ; ne consegue che tale elemento
non poteva influire sulla determinazione del valore
della controversia.
6 - Con il quarto motivo viene
nuovamente lamentata la violazione dell’art. 6 comma 5
del D.M. citato, nonché l’illogicità e carenza della
motivazione, a cagione del fatto che la Corte di Appello
non avrebbe correttamente valutato sia il fatto che la
richiesta di liquidazione al Consiglio dell’Ordine era
stata da quest’ultimo grandemente ridotta sia, per altro
verso, che la pubblicazione della sentenza su riviste -
parametro quest’ultimo utilizzato per ritenere di
straordinaria importanza la causa in sè - non sarebbe
derivato dall’acutezza della difesa del N. ma dalla
pregevole disamina dell’estensore dei provvedimenti
giurisdizionali.
6 - Il morivo è inammissibile - per
violazione del canone dell’autosufficienza del ricorso,
non avendo curato le parti ricorrenti di riportare il
tenore delle difese del N., al fine di rapportarvi il
giudizio che giudicano sommario, circa il pregio
particolare che le stesse (non) avrebbero rivestito.
7 - Con il quinto motivo i
ricorrenti lamentano che la Corte barese sarebbe altresì
incorsa nel travisamento del fatto assumendo, al fine di
valutare la congruità dell’onorario riconosciuto dal
primo giudice, che il Tribunale avesse liquidato Euro
27.236,20 oltre interessi legali, mentre dalla lettura
della sentenza di primo grado emergeva chiaramente che
la condanna ammontava ad Euro 41.500,00, così falsando
il presupposto stesso del giudizio valutativo espresso;
a ciò si sarebbe aggiunto l’ulteriore errore di
percezione dell’effettivo andamento del procedimento di
primo grado, laddove la Corte territoriale aveva
affermato che il Tribunale avrebbe valutato la causa di
valore compreso tra 1 e 3 miliardi, mentre il primo
giudice avrebbe solo rilevato che la causa sarebbe stata
di valore indeterminabile.
7/a - Anche la surriferita censura
è inammissibile a causa del mancato riferimento ai passi
della sentenza di primo grado - ed ai motivi di appello
- relativi alla valutazione del valore della causa che
non consente di delibare la critica inerente alla
ritenuta qualificazione del valore; è poi infondata per
il resto dal momento che al valore di Euro 41.500,00
(arrotondato per difetto rispetto a quello di Euro
41.545,14) si perviene sommando il valore di Euro
27.236,28 oggetto di condanna solidale delle due parti -
società e P. in proprio - e quello di Euro 14.308,86 - a
carico della sola società (v. fol. 2 della sentenza di
appello, con valori espressi in lire).
8 - Con il sesto motivo - anche se
indicato nuovamente come quinto - i ricorrenti lamentano
che il giudice dell’appello sarebbe incorso in un errore
nel ritenere applicabile la fattispecie dell’art. 5,
comma 4 della tariffa in esame, computando come parte
ulteriore la controinteressata nel giudizio
amministrativo anche in grado di appello (alla ordinanza
di sospensiva innanzi al Consiglio di Stato) mentre in
realtà la società in questione - la srl Vital Casa - non
vi aveva partecipato; con ulteriore articolazione del
medesimo motivo sostengono le parti ricorrenti che tale
maggiorazione non sarebbe stata applicabile neppure al
giudizio di primo grado in quanto la norma che l’aveva
preceduta - precedente D.M. n. 392 del 1990, art. 5, -
era stata dichiarata illegittima - con decisione
valevole erga omnes stante la natura di atto normativo
generale del D.M. di approvazione delle tariffe
professionali - con sentenza n. 170/1996 del TAR del
Lazio e in quanto la modifica successivamente introdotta
con la tariffa approvata con D.M. n. 584 del 1994, non
la prevedeva più. 8/a - Il motivo è fondato sia pure con
le precisazioni che seguono Va innanzi tutto precisato
che il richiamo al D.M. n. 392 del 1990, art. 5, non è
idoneo a stabilire una cesura - con effetti logicamente
confermativi della tesi dei ricorrenti - tra la tariffa
approvata con tale decreto ministeriale e quella
approvata nel 1994, atteso che in entrambi i casi la
maggiorazione spettava espressamente solo nel caso di
più soggetti difesi dal medesimo professionista e non
già nel caso di difesa contro più parti: a tal proposito
va sottolineato che la pronunzia di questa Corte - Cass.
10.805/1993 - richiamata dalla relazione ministeriale al
D.M. n. 127 del 2004 (che per la prima volta ha
introdotto espressamente il principio della facoltà del
giudice di liquidare la maggiorazione di cui si discute
anche in presenza di difesa contro più parti), a
sostegno della immanenza nell’ordinamento di siffatto
principio, rimase isolata sino alla citata modificazione
tariffaria; in secondo luogo l’annullamento operato dal
TAR con la sentenza n. 170/1996 riguardava solo la
mancata parametrazione dell’aumento percentuale anche
all’importanza dell’opera svolta, indicazione invece
introdotta con la nuova formulazione dell’art. 5 ad
opera del D.M. n. 585 del 1994. 8/b - La sentenza va
dunque cassata con l’eliminazione della maggiorazione
della quale si controverte.
9 - Con il settimo motivo (numerato
come sesto) viene denunziato un error in procedendo ed
in judicando nonché difetto di “comprensibile
motivazione” per aver il giudice dell’Appello
riconosciuto le spese di trasferta nonostante che già il
Tribunale le avesse giudicate non dovute: il motivo è
inammissibile in quanto non viene riportata la
originaria liquidazione operata dal Tribunale, rendendo
impossibile un nuovo scrutinio da parte di questa Corte.
11 - Con l’ottavo motivo (indicato
come settimo) le parti ricorrenti lamentano la
violazione e falsa applicazione delle tariffe
professionali, adducendo che la Corte distrettuale
avrebbe riconosciuto come dovute le spese di
liquidazione della parcella al momento del rilascio del
parere di congruità al Consiglio dell’Ordine, così
immotivatamente ponendo a carico di essi ricorrenti le
conseguenze di una iniziativa di controparte da
considerarsi non legittima - come avrebbe provato il
fatto che il Consiglio avrebbe notevolmente ridotto la
richiesta originariamente avanzata dal N..
11/a - Il motivo è fondato in
quanto la Corte intende aderire a quell’indirizzo
interpretativo che, in materia di ripartizione
dell’onere delle spese in generale (e quindi con
precipuo riferimento alla parte soccombente) e per
quelle richieste dal difensore al proprio cliente,
valorizza il principio di causalità (trascurato invece
da Cass. 10.876/1999 citata dal contro ricorrente) per
il quale vanno addossate (al soccombente e al) cliente
le sole spese che siano state rese necessarie per la
realizzazione del credito del difensore: nel caso di
specie il contro ricorrente, per resistere efficacemente
alla censura avversaria, avrebbe dovuto allegare prima,
e dimostrare poi: che le richieste al Consiglio
dell’Ordine superassero i massimi tariffati; che le
stesse fossero state attestate come legittime
dall’Organo professionale e che fossero state
riconosciute dal Giudice (cfr. sul punto Cass.
839/1986); in caso contrario la tassa pagata al
Consiglio dell’Ordine, non ponendosi come logico
presupposto per far valere il credito nei termini poi
riconosciuti dal giudice del merito, non poteva essere
addebitata al cliente.
12- La sentenza va dunque cassata
nel capo in cui ha riconosciuto a carico dei ricorrenti
anche detti esborsi, e statuendo nel merito, la relativa
“voce” va eliminata.
13 - Con il nono motivo (indicato
come ottavo) viene fatta valere la falsa applicazione
dell’art. 1224 c.c., comma 2, per aver la Corte
distrettuale ritenuto “liquido” il credito per
prestazioni d’opera in forza della semplice redazione
della parcella, poi spedita ai clienti, e, su questo
presupposto, per aver riconosciuto gli interessi legali
da quel momento, ritenendo l’invio della notula quale
rituale atto di messa in mora, non considerando quindi
l’incertezza del quantum debeatur sino al momento della
pronunzia giudiziale.
14 - Il motivo è parzialmente
fondato.
14/a - Va innanzi tutto messo in
evidenza che, se pure parte dell’attività giudiziale del
N. si esplicò prima dell’approvazione della tariffa ad
opera del D.M. n. 585 del 1994 - a quanto si ricava
dalla narrativa del ricorso: segnatamente a fol. 2 del
medesimo - la stessa doveva essere disciplinata da
quella tariffa in quanto il termine dell’attività
defensionale si collocò successivamente all’entrata in
vigore della stessa, così determinando, per gli onorari,
la identificazione della tariffa applicabile ratione
temporis (cfr. Cass. 11.736/1998; Cass. 2566/1997; Cass.
4413/1980): ciò comporta che non poteva invocarsi,
neppure a fini interpretativi, la disposizione contenuta
nell’allegato 2 del D.M. 24 novembre 1990 n. 392
approvante la Tariffa dell’Ordine forense in materia
civile, penale e stragiudiziale - immediatamente
precedente a quella approvata con D.M. n. 585 del 1994 -
che stabiliva espressamente che “trascorsi tre mesi
dall’invio della parcella o dal preavviso di parcella
senza che gli importi esposti siano stati contestati
nella congruità, in caso di mancato pagamento si
applica, oltre all’interesse di mora al tasso legale, la
rivalutazione monetaria così come stabilito nella L. n.
533 del 1973“ disposizione questa che, se pure
disciplinante un caso di presunzione di maggior danno in
un’obbligazione sin dall’inizio pecuniaria, partiva
comunque dal presupposto che l’invio della parcella o
del preavviso della medesima - senza contestazioni da
parte del cliente - rendesse per ciò stesso accertato il
credito e quindi produttivo di danni l’inadempimento
successivo, à sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2. 14/b -
In secondo luogo, sebbene la mora non presupponga
necessariamente la liquidità del credito - non essendo
stato riprodotto, nella sua assolutezza, nel nostro
ordinamento il principio, tipico del diritto romano,
secondo il quale “in illiquidis non fit mora” -, è pur
sempre necessario, affinché sia configurarle colpevole
ritardo nel pagamento del debito, che sussista una
sufficiente certezza del suo ammontare: ne consegue che,
quando la determinazione dell’esatto valore di
un’obbligazione pecuniaria sia rimessa al giudice, in
termini di controllo della quantificazione
unilateralmente effettuata dal creditore, la
costituzione in mora può aversi, di regola, solo con la
domanda giudiziale, con l’atto cioè che rende attuale
l’esercizio di quel potere da parte del medesimo giudice
(cfr Cass. 4561/1993).
14/c - Posti tali principi
generali, va allora affermato che nel caso di un
giudizio avente ad oggetto la determinazione del credito
per prestazioni professionali, nell’ambito del quale al
giudice, in presenza di una contestazione non meramente
pretestuosa del cliente, si chiede di determinare non
solo se la pretesa del difensore si sia mantenuta entro
i limiti della tariffa ma anche se la medesima sia
“congrua”, appare confermata l’essenzialità (in termini
di delimitazione del quantum debeatur) di tale
liquidazione giudiziale, essendo demandato al giudice di
valutare la rilevanza della materia controversa al fine
di determinare lo “scaglione” tariffario applicabile e,
nell’ambito di un minimo ed un massimo, dare rilevanza -
con provvedimento discrezionale (eppertanto
insindacabile se sorretto da corretta e congrua
motivazione) - ad elementi non obiettivamente
ponderabili al momento della spedizione della parcella,
quali l’importanza dei risultati conseguiti, il pregio
dell’opera professionale e le difficoltà incontrate
nell’espletamento dell’incarico.
14/d - Va ulteriormente aggiunto
che, nell’ipotesi di emissione di decreto ingiuntivo su
notule professionali, quest’ultimo contiene già una
liquidazione del credito stesso, all’esito della
delibazione - provvisoria ma tendenzialmente idonea a
divenire definitiva in caso di mancanza di opposizione -
della documentazione offerta dal ricorrente: ne consegue
che la notifica del decreto stesso riveste la funzione
di domanda giudiziale e costituisce, per le ragioni più
sopra illustrate, primo atto di rituale messa in mora.
14/e - Conferma l’assunto anche
l’osservazione che le pronunzie di legittimità che
collegano la decorrenza degli interessi di mora alla
pronunzia giudiziale (Cass. 2431/2011; Cass. 11777/2005;
Cass. 5240/1999; Cass. 5004/1993; Cass. 13586/1991,
Cass. 3995/1988) si riferiscono al particolare giudizio
di cui all’art. 28 della L. 794/1942, - che peraltro non
sarebbe applicabile direttamente alla fattispecie, ove
si verte in materia di compensi per attività
professionali in giudizi amministrativi - che non
contempla una fase a contraddittorio differito quale
quella del giudizio monitorio ordinario, confermando
quindi la centralità dell’accertamento giudiziale ai
fini dell’insorgere degli effetti della mora e della
decorrenza degli interessi.
14/f - La soluzione teste esposta
permette altresì di evitare il paventato effetto
distorsivo in cui incorrerebbe il creditore di
prestazioni professionali nel caso in cui gli interessi
legali dovessero decorrere dalla data dell’accertamento
giudiziale - in base all’assunto che potrebbe rimanere
assoggettato, per un tempo non prevedibile, agli effetti
di una condotta ingiustificatamente procrastinatoria del
proprio debitore.
14/g - La sentenza va dunque
cassata in ordine al suesposto motivo e, non essendo
necessari ulteriori accertamenti, va statuito nel merito
che la decorrenza degli interessi va posta al momento
della notifica del decreto d’ingiunzione da considerarsi
primo atto di messa in mora.
15 - Con il decimo motivo (indicato
come nono) viene lamentata la violazione degli artt. 91
e 92 c.p.c., in materia di determinazione delle spese di
lite a carico della parte soccombente, assumendo che non
vi sarebbero stati i presupposti per la disposta
compensazione (in ragione della metà) bensì per la
completa vittoria a favore dei deducenti.
15/a - Il motivo e infondato
rientrando nel potere discrezionale del giudice disporre
la parziale compensazione, giustificata nella
fattispecie dalla parziale riduzione del credito.
16 - Con l’undicesimo motivo
(indicato come decimo) si assume la violazione dell’art.
85 (successivamente 81) del Trattato istitutivo della
Comunità Europea qualora si interpretassero le norme
disciplinanti le tariffe professionali in modo tale da
consentire una liquidazione delle stesse in maniera del
tutto sproporzionata al valore della tariffa.
16/a Il motivo è infondato sia
perché espresso con formulazione ipotetica e comunque
generica, sia anche perché non sussistono le condizioni
per il negativo raffronto presupposto dalla censura
(liquidazione sproporzionata).
17 - La disputabilità delle
soluzioni interpretative oggetto di contenzioso ed il
parziale accoglimento del ricorso fanno ritenere
sussistenti giustificati motivi per compensare le spese
del presente giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il
primo, il secondo, il terzo, il decimo e l’undicesimo
motivo; dichiara inammissibili il quarto, il quinto ed
il settimo motivo; accoglie il sesto, l’ottavo ed il
nono motivo, cassando l’impugnata decisione
relativamente ai motivi accolti e, decidendo nel merito,
elimina dalla liquidazione in favore dell’avv. N. S. la
maggiorazione del 20% e le spese di richiesta parere;
fissa la decorrenza degli interessi legali dalla data
della notifica del decreto ingiuntivo. Compensa le
spese.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il
primo, il secondo, il terzo, il decimo e l’undicesimo
motivo; dichiara inammissibili il quarto, il quinto ed
il settimo motivo; accoglie il sesto, l’ottavo ed il
nono motivo, cassando l’impugnata decisione
relativamente ai motivi accolti e, decidendo nel merito,
elimina dalla liquidazione in favore dell’avv. N. S. la
maggiorazione del 20% e le spese di richiesta parere;
fissa la decorrenza degli interessi legali dalla data
della notifica del decreto ingiuntivo. Compensa le
spese.
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