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CALUNNIA- Non risponde di calunnia chi denuncia un fatto realmente accaduto-CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 11 ottobre 2011, n.36719-Nel diritto.it

 

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MASSIMA

Non risponde di calunnia chi denuncia un fatto realmente accaduto, non configurandosi in tal caso la falsa accusa idonea ad integrare il reato. (Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, ritenendo che la denuncia sporta da un professore nei confronti del dirigente scolastico e volta a segnalare la violenza privata perpetrata nei confronti della madre di un allievo per cercare di indurla con “velate minacce” a ritrattare le accuse rivolte allo stesso preside e relative a presunti maltrattamenti, non integra il reato di calunnia. Difatti, l’espressione “velate minacce” può riferirsi alla pressione esercitata dal dirigente sulla donna nel corso di un dialogo realmente verificatosi, sì da escludere la falsa accusa idonea ad integrare il reato in esame.)

 

 

CASUS DECISUS

La Corte d'appello di Caltanissetta confermava la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto L. R. responsabile del reato di calunnia, condannandolo alla pena di due anni di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, a cui veniva assegnata una provvisionale di € 3.000.00. La vicenda si inseriva nel contesto dei rapporti conflittuali tra l’imputato, insegnante di sostegno, e S. R., dirigente scolastico, il quale aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del professore, conclusosi con la sanzione dell’avvertimento scritto, seguito da una ispezione che aveva determinato il Provveditore agli studi di Enna a contestare al docente una serie di addebiti di natura disciplinare. Quest’ultimo sporgeva denuncia alla Procura della Repubblica, finalizzata a segnalare il comportamento del dirigente nei confronti della madre di un allievo per cercare di indurla a ritrattare “con velate minacce” le accuse rivolte allo stesso preside e relative a presunti maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile.

 

 

ANNOTAZIONE

di Patrizia Trunfio

 

Con la sentenza in rassegna si chiede alla Suprema Corte di precisare se l’espressione “velate minacce” valga ad integrare, nel caso in esame, il reato di calunnia. La vicenda si inseriva nel contesto dei rapporti conflittuali tra l’imputato, insegnante di sostegno, e il dirigente scolastico, il quale aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del professore, conclusosi con la sanzione dell’avvertimento scritto, seguito da una ispezione che aveva determinato il Provveditore agli studi a contestare al docente una serie di addebiti di natura disciplinare. Quest’ultimo sporgeva denuncia alla Procura della Repubblica, segnalando il comportamento, idoneo ad integrare il reato di violenza privata, del dirigente nei confronti della madre di un allievo per cercare di indurla a ritrattare “con velate minacce” le accuse rivolte allo stesso preside e relative a presunti maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile. Precisa la Corte che la circostanza del dialogo realmente verificatosi tra la donna e il dirigente valga a ridimensionare i termini della questione. In quell’occasione, il dirigente aveva annunciato l’intenzione di ricorrere all’autorità giudiziaria per tutelare la sua posizione diffamata dalle missive e aveva sollecitato la donna a redigere una lettera di smentita, successivamente presentata. Orbene, il Collegio ritiene che la “pressione” esercitata dal dirigente sulla donna possa riferirsi all’espressione “velate minacce” impiegata dal docente nella denuncia e che, pertanto, la stessa non costituisce una falsa accusa idonea ad integrare il reato di calunnia. Per tali motivi annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

 

 

TESTO DELLA SENTENZA

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 11 ottobre 2011, n.36719 - Pres. Garribba – est. Fidelbo

 

Svolgimento del processo

 

 

 

1. - Con la decisione in epigrafe la Corte d'appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza dell'8 luglio 2005 con cui il Tribunale di Enna aveva riconosciuto L. R. responsabile del reato di calunnia contestato al capo b) dell'imputazione, condannandolo alla pena di due anni di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, a cui veniva assegnata una provvisionale di € 3.000.00.

 

La vicenda si inserisce nel contesto dei rapporti conflittuali tra l’imputato, insegnante di sostegno presso il Circolo didattico Rocco Chinnici di Piazza Armerina, e S. R., dirigente scolastico nello stesso circolo didattico, il quale aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del R. conclusosi con la sanzione dell’avvertimento scritto, seguito da una ispezione che aveva determinato il Provveditore agli studi di Enna a contestare, sempre al R., una serie di addebiti di natura disciplinare.

 

2. - Ricorre per cassazione il difensore di fiducia dell'imputato, deducendo la violazione dell'art. 368 c.p. e il connesso vizio di motivazione. Nel ricorso si sottolinea come la sentenza abbia disatteso una serie di elementi probatori per adagiarsi in maniera acritica sulle argomentazioni rassegnate dal primo giudice: il riferimento è alle dichiarazioni di L.G.. palesemente inattendibili, a quelle dello stesso R., nonché alla relazione dell'ispettore e ai c.d. “interrogatori” a cui è stata sottoposta L.G. da parte del dirigente scolastico, fatti da cui sarebbero emersi circostanze che avrebbero dovuto condurre i giudici a trarre le dovute conclusioni in ordine alla prova dell'innocenza dell'imputato e alla buona fede con cui lo stesso mosse le accuse al direttore del circolo didattico.

 

Con un successivo motivo il ricorrente denuncia l'errore in cui sarebbe incorsa la Corte d'appello nell'escludere l'avvenuta estinzione del reato per effetto dell'intervenuta prescrizione.

 

 

 

Motivi della decisione

 

 

 

3. - Preliminarmente deve escludersi che il reato in oggetto sia estinto per intervenuta prescrizione, così come sostenuto dalla difesa dell’imputato. Infatti, trova applicazione il vecchio regime dei termini di prescrizione, in quanto al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa di cui alla legge n. 251 del 2008 (8.12.2005) il procedimento si trovava già in fase di appello. Come è noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno stabilito che, “ai fini dell'operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in grado d'appello del procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva delle norme più favorevoli” (Sez. un. 29 ottobre 2009. n. 47008, D'Amato). Nella specie la sentenza di primo grado è stata pronunciata l’8.7.2005, sicché non può trovare applicazione la nuova e più favorevole disciplina, sicché i termini prescrizionali devono, essere calcolati in base alla normativa preesistente, che prevede per la calunnia il termine massimo di quindici anni, termine che non è ancora decorso dal momento che il reato contestato risulta essere stato commesso il 6.12.2000.

 

4. - Il ricorso è comunque fondato nel “merito”.

 

La sentenza impugnata ha trascurato di esaminare il contenuto della “denuncia” presentata dall'imputato e ha omesso ogni approfondita giustificazione sulla diversa valutazione dei fatti attribuiti al R. nei due capi di imputazione contestati originariamente.

 

Tali distinte imputazioni traggono origine dalla denuncia che l’imputato ha presentato, in due tempi, alla procura della Repubblica di Enna. Nella prima lettera. pervenuta negli uffici della procura il 16.10.2000, il R. denuncia G. I., provveditore agli studi di Enna, accusandolo di una serie di condotte abusive e omissive che avrebbe posto in essere nel corso del procedimento disciplinare a suo carico, condotte finalizzate a danneggiare lo stesso R. e a favorire S. R., cioè il direttore didattico destinatario di contestazioni da parte della madre di un alunno frequentante la scuola dove insegnava lo stesso imputato. La successiva lettera del 4/6.12.2000 contiene un chiarimento in ordine ad un punto della precedente denuncia, in cui il R. si lamentava del fatto che il provveditore non aveva preso provvedimenti nei confronti di R., responsabile di non aver portato a conoscenza della Commissione disciplinare una missiva della L.G., avente ad oggetto fatti attinenti a tale procedura: in particolare, l'imputato chiarisce che la lettera, contenente la smentita di una serie di accuse che L.G. aveva rivolto al R., era stata ottenuta “con velate minacce” da parte dello stesso R..

 

Dalle due lettere indirizzate alla procura della Repubblica sono scaturite le distinte imputazioni di calunnia ai danni di G. I. (capo a) e di S. R. (capo b). con conseguente condanna del R. solo per la seconda calunnia.

 

In particolare, nell' imputazione riguardante la denuncia presentata il 4/6.12.2000 si contesta al R. di avere accusato, pur sapendolo innocente, S. R. del reato di violenza privata realizzata ai danni di S. L.G., madre di un alunno della scuola portatore di handicap, costringendola, attraverso minacce, a firmare una lettera con cui negava di avere redatto dodici precedenti missive contenenti una serie di accuse rivolte proprio al dirigente scolastico, in cui riferiva di veri e propri maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile, missive che oltre ad essere del tutto false sarebbero state dettate alla L.G. dallo stesso R..

 

I giudici di appello. muovendosi nel solco di tale imputazione. giungono a ritenere la responsabilità dell’imputato attribuendo veridicità alla versione dei fatti sostenuta in dibattimento dalla L.G., là dove conferma che il R. sarebbe intervenuto nella determinazione dell'intero contenuto delle dodici missive oggetto di smentita”. Secondo questa impostazione alla dimostrazione che le dodici lettere erano state redatte con la collaborazione del R. e che il contenuto di esse non era veridico consegue, quasi automaticamente, la prova della condotta calunniosa in quanto l’imputato avrebbe strumentalizzato la L.G. “non solo per prepararsi una difesa nel procedimento disciplinare, ma anche per ribaltare le incolpazioni in danno di chi, come il R., era percepito come un personale nemico”.

 

Ma in questo modo viene spostato l’oggetto dell'accertamento del reato di calunnia, che non riguarda il contenuto delle dodici lettere pervenute al direttore didattico, ma la falsa accusa rivolta al R. di avere ottenuto la ritrattazione della L.G. “con velate minacce”. Anche ammettendo che il R. abbia redatto le dodici lettere di contenuto diffamatorio, questa circostanza non appare idonea a ritenere la natura calunniosa della lettera in questione. L'oggetto del giudizio avrebbe dovuto puntare all'accertamento della falsità dell'accusa di violenza privata e della consapevolezza da parte dell'imputato della innocenza del R..

 

Innanzitutto, si osserva che non è contestato che nel corso degli accertamenti disciplinari a carico del R. vi sia stato l'incontro tra R. e L.G., avente ad oggetto proprio le dodici missive sottoscritte dalla donna. Ebbene, le sentenze di merito riconoscono che in questo incontro il R. manifestò alla L.G. l’intenzione di ricorrere alla autorità giudiziaria per tutelare la sua posizione, essendosi ritenuto diffamato dalle missive, e che solo a seguito di tale colloquio venne redatta dalla donna la lettera di smentita. I giudici di merito non si sono soffermati sulle modalità e sul contenuto di tale colloquio, mentre l’imputato, nel suo ricorso, ne parla come di un vero e proprio “interrogatorio” cui sarebbe stata sottoposta L.G., rilevando come lo stesso R., all'udienza del 22.10.2004, riferisca di avere sollecitato la donna a redigere una lettera di smentita. Che vi sia stata una pressione sulla L.G. emerge anche dalle testimonianze dell'ispettore S., presente all'incontro, il quale racconta che L.G., “messa alle strette”, modificò la sua versione indicando il R. come ispiratore delle dodici lettere, circostanza questa confermata dalle dichiarazioni dell'insegnante C..

 

Si tratta di circostanze ed elementi rilevanti ai fini della valutazione sulla sussistenza della calunnia, ai quali le sentenze di merito non hanno dato il giusto valore.

 

Invero, la Corte d’appello arriva ad ammettere che vi possa essere stata “una coartazione esercitata sulla L.G.” da parte del R., ma a questa affermazione non segue alcuna considerazione in ordine alla possibile mancanza del carattere calunnioso delle accuse rivolte dall’imputato, al contrario si sostiene, in maniera illogica, che “il puro e semplice accenno a minacce” consente la configurabilità del reato di violenza privata, precisando che se l'imputato avesse fatto riferimento “ad una reazione mirata ad opporsi al comportamento delittuoso già patito (così da ottenere una smentita senza ricorrere all'autorità giudiziaria), l’affermazione in ordine alle minacce avrebbe assunto con tutta evidenza ben altro significato” potendo ipotizzarsi semmai il meno grave delitto di cui all'art. 393 c.p..

 

Il ragionamento, piuttosto tortuoso, seguito dalla sentenza esclude in maniera assoluta e irragionevole che il R., nella lettera del 4/6.12.2000, abbia voluto fare riferimento proprio alle “pressioni” operate sulla L.G. nel corso degli incontri con R.: l'espressione usata «velate minacce» viene caricata dai giudici di secondo grado di un significato che non trova necessariamente riscontro negli avvenimenti narrati, mentre può essere riferita proprio all'azione di “pressione”, di “messa alle strette” che è stata esercitata dal R. nei confronti della L.G..

 

In sostanza, si vuole sottolineare che la stessa sentenza ha riconosciuto che vi è stata un'azione volta a convincere L.G. a ritrattare le precedenti lettere di contestazione, azione del tutto lecita, che il R. traduce con un’espressione che, anche a volerla ritenere impropria o eccessivamente forte,  comunque non costituisce oggettivamente una falsa accusa, in quanto corrisponde a ciò che è ,accaduto nel corso degli incontri, in cui il R. ha “sollecitato”, la donna a redigere una lettera di smentita. Le “velate minacce” cui si riferisce l’imputato altro non sarebbero che le “sollecitazioni” subite dalla L.G..

 

D’altra parte, nell'accusa che l’imputato rivolge al R. non emerge in maniera evidente il reato di violenza privata: nella lettera si fa semplicemente riferimento a “velate minacce”, espressione che avrebbe potuto giustificare anche l’ipotesi meno grave reato di cui all’art. 612 c.p., che non avrebbe portato alla configurabilità della calunnia per mancanza di querela della persona offesa.

 

Infine, la lettera si inserisce in una denuncia che non riguardava R., ma era diretta esclusivamente nei confronti del provveditore, circostanza questa che è stata del tutto trascurata dai giudici di merito e che. Invece, rileva quanto meno sul piano soggettivo del reato di calunnia. Piano soggettivo che la sentenza impugnata non ha affatto indagato, omettendo ogni accertamento sulla consapevolezza del R. circa la innocenza del R., ritenendo, ancora una volta, che la dimostrazione della sua partecipazione alla elaborazione delle dodici lettere provasse, automaticamente, anche il profilo del dolo.

 

5. - In conclusione, per le ragioni sopra esposte, deve escludersi che la condotta contestata all'imputato abbia configurato il reato di calunnia, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. Pertanto la sentenza deve essere annullata senza rinvio.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

 

 

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