MASSIMA
Non risponde di calunnia chi
denuncia un fatto realmente accaduto, non configurandosi
in tal caso la falsa accusa idonea ad integrare il
reato. (Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha
annullato senza rinvio la sentenza impugnata perché il
fatto non sussiste, ritenendo che la denuncia sporta da
un professore nei confronti del dirigente scolastico e
volta a segnalare la violenza privata perpetrata nei
confronti della madre di un allievo per cercare di
indurla con “velate minacce” a ritrattare le accuse
rivolte allo stesso preside e relative a presunti
maltrattamenti, non integra il reato di calunnia.
Difatti, l’espressione “velate minacce” può riferirsi
alla pressione esercitata dal dirigente sulla donna nel
corso di un dialogo realmente verificatosi, sì da
escludere la falsa accusa idonea ad integrare il reato
in esame.)
CASUS DECISUS
La Corte d'appello di Caltanissetta
confermava la sentenza di primo grado che aveva
riconosciuto L. R. responsabile del reato di calunnia,
condannandolo alla pena di due anni di reclusione e al
risarcimento dei danni in favore della parte civile, a
cui veniva assegnata una provvisionale di € 3.000.00. La
vicenda si inseriva nel contesto dei rapporti
conflittuali tra l’imputato, insegnante di sostegno, e
S. R., dirigente scolastico, il quale aveva avviato un
procedimento disciplinare a carico del professore,
conclusosi con la sanzione dell’avvertimento scritto,
seguito da una ispezione che aveva determinato il
Provveditore agli studi di Enna a contestare al docente
una serie di addebiti di natura disciplinare.
Quest’ultimo sporgeva denuncia alla Procura della
Repubblica, finalizzata a segnalare il comportamento del
dirigente nei confronti della madre di un allievo per
cercare di indurla a ritrattare “con velate minacce” le
accuse rivolte allo stesso preside e relative a presunti
maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile.
ANNOTAZIONE
di Patrizia Trunfio
Con la sentenza in rassegna si
chiede alla Suprema Corte di precisare se l’espressione
“velate minacce” valga ad integrare, nel caso in esame,
il reato di calunnia. La vicenda si inseriva nel
contesto dei rapporti conflittuali tra l’imputato,
insegnante di sostegno, e il dirigente scolastico, il
quale aveva avviato un procedimento disciplinare a
carico del professore, conclusosi con la sanzione
dell’avvertimento scritto, seguito da una ispezione che
aveva determinato il Provveditore agli studi a
contestare al docente una serie di addebiti di natura
disciplinare. Quest’ultimo sporgeva denuncia alla
Procura della Repubblica, segnalando il comportamento,
idoneo ad integrare il reato di violenza privata, del
dirigente nei confronti della madre di un allievo per
cercare di indurla a ritrattare “con velate minacce” le
accuse rivolte allo stesso preside e relative a presunti
maltrattamenti psicologici subiti dal figlio disabile.
Precisa la Corte che la circostanza del dialogo
realmente verificatosi tra la donna e il dirigente valga
a ridimensionare i termini della questione. In
quell’occasione, il dirigente aveva annunciato
l’intenzione di ricorrere all’autorità giudiziaria per
tutelare la sua posizione diffamata dalle missive e
aveva sollecitato la donna a redigere una lettera di
smentita, successivamente presentata. Orbene, il
Collegio ritiene che la “pressione” esercitata dal
dirigente sulla donna possa riferirsi all’espressione
“velate minacce” impiegata dal docente nella denuncia e
che, pertanto, la stessa non costituisce una falsa
accusa idonea ad integrare il reato di calunnia. Per
tali motivi annulla senza rinvio la sentenza impugnata
perché il fatto non sussiste.
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE
- SENTENZA 11 ottobre 2011, n.36719 - Pres. Garribba –
est. Fidelbo
Svolgimento del processo
1. - Con la decisione in epigrafe
la Corte d'appello di Caltanissetta ha confermato la
sentenza dell'8 luglio 2005 con cui il Tribunale di Enna
aveva riconosciuto L. R. responsabile del reato di
calunnia contestato al capo b) dell'imputazione,
condannandolo alla pena di due anni di reclusione e al
risarcimento dei danni in favore della parte civile, a
cui veniva assegnata una provvisionale di € 3.000.00.
La vicenda si inserisce nel
contesto dei rapporti conflittuali tra l’imputato,
insegnante di sostegno presso il Circolo didattico Rocco
Chinnici di Piazza Armerina, e S. R., dirigente
scolastico nello stesso circolo didattico, il quale
aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del
R. conclusosi con la sanzione dell’avvertimento scritto,
seguito da una ispezione che aveva determinato il
Provveditore agli studi di Enna a contestare, sempre al
R., una serie di addebiti di natura disciplinare.
2. - Ricorre per cassazione il
difensore di fiducia dell'imputato, deducendo la
violazione dell'art. 368 c.p. e il connesso vizio di
motivazione. Nel ricorso si sottolinea come la sentenza
abbia disatteso una serie di elementi probatori per
adagiarsi in maniera acritica sulle argomentazioni
rassegnate dal primo giudice: il riferimento è alle
dichiarazioni di L.G.. palesemente inattendibili, a
quelle dello stesso R., nonché alla relazione
dell'ispettore e ai c.d. “interrogatori” a cui è stata
sottoposta L.G. da parte del dirigente scolastico, fatti
da cui sarebbero emersi circostanze che avrebbero dovuto
condurre i giudici a trarre le dovute conclusioni in
ordine alla prova dell'innocenza dell'imputato e alla
buona fede con cui lo stesso mosse le accuse al
direttore del circolo didattico.
Con un successivo motivo il
ricorrente denuncia l'errore in cui sarebbe incorsa la
Corte d'appello nell'escludere l'avvenuta estinzione del
reato per effetto dell'intervenuta prescrizione.
Motivi della decisione
3. - Preliminarmente deve
escludersi che il reato in oggetto sia estinto per
intervenuta prescrizione, così come sostenuto dalla
difesa dell’imputato. Infatti, trova applicazione il
vecchio regime dei termini di prescrizione, in quanto al
momento dell’entrata in vigore della nuova normativa di
cui alla legge n. 251 del 2008 (8.12.2005) il
procedimento si trovava già in fase di appello. Come è
noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno stabilito
che, “ai fini dell'operatività delle disposizioni
transitorie della nuova disciplina della prescrizione,
la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado
determina la pendenza in grado d'appello del
procedimento, ostativa all'applicazione retroattiva
delle norme più favorevoli” (Sez. un. 29 ottobre 2009.
n. 47008, D'Amato). Nella specie la sentenza di primo
grado è stata pronunciata l’8.7.2005, sicché non può
trovare applicazione la nuova e più favorevole
disciplina, sicché i termini prescrizionali devono,
essere calcolati in base alla normativa preesistente,
che prevede per la calunnia il termine massimo di
quindici anni, termine che non è ancora decorso dal
momento che il reato contestato risulta essere stato
commesso il 6.12.2000.
4. - Il ricorso è comunque fondato
nel “merito”.
La sentenza impugnata ha trascurato
di esaminare il contenuto della “denuncia” presentata
dall'imputato e ha omesso ogni approfondita
giustificazione sulla diversa valutazione dei fatti
attribuiti al R. nei due capi di imputazione contestati
originariamente.
Tali distinte imputazioni traggono
origine dalla denuncia che l’imputato ha presentato, in
due tempi, alla procura della Repubblica di Enna. Nella
prima lettera. pervenuta negli uffici della procura il
16.10.2000, il R. denuncia G. I., provveditore agli
studi di Enna, accusandolo di una serie di condotte
abusive e omissive che avrebbe posto in essere nel corso
del procedimento disciplinare a suo carico, condotte
finalizzate a danneggiare lo stesso R. e a favorire S.
R., cioè il direttore didattico destinatario di
contestazioni da parte della madre di un alunno
frequentante la scuola dove insegnava lo stesso
imputato. La successiva lettera del 4/6.12.2000 contiene
un chiarimento in ordine ad un punto della precedente
denuncia, in cui il R. si lamentava del fatto che il
provveditore non aveva preso provvedimenti nei confronti
di R., responsabile di non aver portato a conoscenza
della Commissione disciplinare una missiva della L.G.,
avente ad oggetto fatti attinenti a tale procedura: in
particolare, l'imputato chiarisce che la lettera,
contenente la smentita di una serie di accuse che L.G.
aveva rivolto al R., era stata ottenuta “con velate
minacce” da parte dello stesso R..
Dalle due lettere indirizzate alla
procura della Repubblica sono scaturite le distinte
imputazioni di calunnia ai danni di G. I. (capo a) e di
S. R. (capo b). con conseguente condanna del R. solo per
la seconda calunnia.
In particolare, nell' imputazione
riguardante la denuncia presentata il 4/6.12.2000 si
contesta al R. di avere accusato, pur sapendolo
innocente, S. R. del reato di violenza privata
realizzata ai danni di S. L.G., madre di un alunno della
scuola portatore di handicap, costringendola, attraverso
minacce, a firmare una lettera con cui negava di avere
redatto dodici precedenti missive contenenti una serie
di accuse rivolte proprio al dirigente scolastico, in
cui riferiva di veri e propri maltrattamenti psicologici
subiti dal figlio disabile, missive che oltre ad essere
del tutto false sarebbero state dettate alla L.G. dallo
stesso R..
I giudici di appello. muovendosi
nel solco di tale imputazione. giungono a ritenere la
responsabilità dell’imputato attribuendo veridicità alla
versione dei fatti sostenuta in dibattimento dalla L.G.,
là dove conferma che il R. sarebbe intervenuto nella
determinazione dell'intero contenuto delle dodici
missive oggetto di smentita”. Secondo questa
impostazione alla dimostrazione che le dodici lettere
erano state redatte con la collaborazione del R. e che
il contenuto di esse non era veridico consegue, quasi
automaticamente, la prova della condotta calunniosa in
quanto l’imputato avrebbe strumentalizzato la L.G. “non
solo per prepararsi una difesa nel procedimento
disciplinare, ma anche per ribaltare le incolpazioni in
danno di chi, come il R., era percepito come un
personale nemico”.
Ma in questo modo viene spostato
l’oggetto dell'accertamento del reato di calunnia, che
non riguarda il contenuto delle dodici lettere pervenute
al direttore didattico, ma la falsa accusa rivolta al R.
di avere ottenuto la ritrattazione della L.G. “con
velate minacce”. Anche ammettendo che il R. abbia
redatto le dodici lettere di contenuto diffamatorio,
questa circostanza non appare idonea a ritenere la
natura calunniosa della lettera in questione. L'oggetto
del giudizio avrebbe dovuto puntare all'accertamento
della falsità dell'accusa di violenza privata e della
consapevolezza da parte dell'imputato della innocenza
del R..
Innanzitutto, si osserva che non è
contestato che nel corso degli accertamenti disciplinari
a carico del R. vi sia stato l'incontro tra R. e L.G.,
avente ad oggetto proprio le dodici missive sottoscritte
dalla donna. Ebbene, le sentenze di merito riconoscono
che in questo incontro il R. manifestò alla L.G.
l’intenzione di ricorrere alla autorità giudiziaria per
tutelare la sua posizione, essendosi ritenuto diffamato
dalle missive, e che solo a seguito di tale colloquio
venne redatta dalla donna la lettera di smentita. I
giudici di merito non si sono soffermati sulle modalità
e sul contenuto di tale colloquio, mentre l’imputato,
nel suo ricorso, ne parla come di un vero e proprio
“interrogatorio” cui sarebbe stata sottoposta L.G.,
rilevando come lo stesso R., all'udienza del 22.10.2004,
riferisca di avere sollecitato la donna a redigere una
lettera di smentita. Che vi sia stata una pressione
sulla L.G. emerge anche dalle testimonianze
dell'ispettore S., presente all'incontro, il quale
racconta che L.G., “messa alle strette”, modificò la sua
versione indicando il R. come ispiratore delle dodici
lettere, circostanza questa confermata dalle
dichiarazioni dell'insegnante C..
Si tratta di circostanze ed
elementi rilevanti ai fini della valutazione sulla
sussistenza della calunnia, ai quali le sentenze di
merito non hanno dato il giusto valore.
Invero, la Corte d’appello arriva
ad ammettere che vi possa essere stata “una coartazione
esercitata sulla L.G.” da parte del R., ma a questa
affermazione non segue alcuna considerazione in ordine
alla possibile mancanza del carattere calunnioso delle
accuse rivolte dall’imputato, al contrario si sostiene,
in maniera illogica, che “il puro e semplice accenno a
minacce” consente la configurabilità del reato di
violenza privata, precisando che se l'imputato avesse
fatto riferimento “ad una reazione mirata ad opporsi al
comportamento delittuoso già patito (così da ottenere
una smentita senza ricorrere all'autorità giudiziaria),
l’affermazione in ordine alle minacce avrebbe assunto
con tutta evidenza ben altro significato” potendo
ipotizzarsi semmai il meno grave delitto di cui all'art.
393 c.p..
Il ragionamento, piuttosto
tortuoso, seguito dalla sentenza esclude in maniera
assoluta e irragionevole che il R., nella lettera del
4/6.12.2000, abbia voluto fare riferimento proprio alle
“pressioni” operate sulla L.G. nel corso degli incontri
con R.: l'espressione usata «velate minacce» viene
caricata dai giudici di secondo grado di un significato
che non trova necessariamente riscontro negli
avvenimenti narrati, mentre può essere riferita proprio
all'azione di “pressione”, di “messa alle strette” che è
stata esercitata dal R. nei confronti della L.G..
In sostanza, si vuole sottolineare
che la stessa sentenza ha riconosciuto che vi è stata
un'azione volta a convincere L.G. a ritrattare le
precedenti lettere di contestazione, azione del tutto
lecita, che il R. traduce con un’espressione che, anche
a volerla ritenere impropria o eccessivamente forte,
comunque non costituisce oggettivamente una falsa
accusa, in quanto corrisponde a ciò che è ,accaduto nel
corso degli incontri, in cui il R. ha “sollecitato”, la
donna a redigere una lettera di smentita. Le “velate
minacce” cui si riferisce l’imputato altro non sarebbero
che le “sollecitazioni” subite dalla L.G..
D’altra parte, nell'accusa che
l’imputato rivolge al R. non emerge in maniera evidente
il reato di violenza privata: nella lettera si fa
semplicemente riferimento a “velate minacce”,
espressione che avrebbe potuto giustificare anche
l’ipotesi meno grave reato di cui all’art. 612 c.p., che
non avrebbe portato alla configurabilità della calunnia
per mancanza di querela della persona offesa.
Infine, la lettera si inserisce in
una denuncia che non riguardava R., ma era diretta
esclusivamente nei confronti del provveditore,
circostanza questa che è stata del tutto trascurata dai
giudici di merito e che. Invece, rileva quanto meno sul
piano soggettivo del reato di calunnia. Piano soggettivo
che la sentenza impugnata non ha affatto indagato,
omettendo ogni accertamento sulla consapevolezza del R.
circa la innocenza del R., ritenendo, ancora una volta,
che la dimostrazione della sua partecipazione alla
elaborazione delle dodici lettere provasse,
automaticamente, anche il profilo del dolo.
5. - In conclusione, per le ragioni
sopra esposte, deve escludersi che la condotta
contestata all'imputato abbia configurato il reato di
calunnia, sia dal punto di vista oggettivo che
soggettivo. Pertanto la sentenza deve essere annullata
senza rinvio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata perché il fatto non sussiste.
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