Alfonso M. Stile
Per chi, come chi vi parla 1, ha
insegnato ufficialmente diritto penale per più di 40
anni, senza soluzione di continuità, un’occasione come
quella che mi è stata cortesemente concessa nell’ambito
di questo importante incontro fornisce lo spunto per una
valutazione retrospettiva di quanto è accaduto in tutti
questi anni non disgiunta da un esame di coscienza in
funzione di una analisi delle prospettive dei sistemi
penali 2.
Devo affermare che dall’ epoca
dell’entusiasmo giovanile fino alla pacatezza della
maturità (la fase successiva è quella attuale),
pressoché intatto è rimasto lo sforzo di impartire un
insegnamento della disciplina informato al rispetto
della persona e delle sue garanzie nell’ottica di un
diritto penale inteso come Magna Carta, che, in quanto
tale, condiziona e delimita le scelte di politica
criminale che si traducono nelle leggi penali. Molto è
stato dedicato all’approfondimento dei principi
costituzionali della responsabilità penale e alla loro
penetrazione nel sistema del codice penale italiano del
1930, antecedente a tali principi, alcuni dei quali
(colpevolezza, presunzione di innocenza) estranei alla
sua originaria logica.
Forse con un po’ di “inconscia
ipocrisia”, ho potuto, se non trascurare quantomeno
marginalizzare degli evidenti elementi di disturbo come
le “misure di prevenzione” che prescindono dalla
commissione di un reato, che caratterizzano
l’ordinamento giuridico italiano da un quarantennio e
che pure sono andate ad assumere un peso sempre maggiore
in connessione con l’evoluzione del fenomeno mafioso in
senso lato: in fondo - lo dico a mia scusante - non si
tratta di un sistema punitivo in senso stretto, per cui
basta tenerlo distinto dal “penale”, anche se incide
pesantemente sulla libertà e sul patrimonio di persone
anche solo indiziate o sospette di pericolosità
criminale.
Contemporaneamente mi sono
rallegrato per la progressiva riduzione delle misure di
sicurezza applicate ai soggetti imputabili in aggiunta
alle pene vere e proprie: mi sembrava che l’evoluzione
del sistema fosse nella direzione di un auspicato
superamento del doppio binario (pene e misure di
sicurezza) caratteristico del codice penale italiano.
Quanto al diritto penale vero e
proprio, il principio di legalità con i suoi corollari
costituiva (e costituisce) uno dei fondamenti
ineludibili dello stato di diritto, né c’era ragione di
discutere del principio in sé, in quanto esso è
consacrato con formula rigorosa nell’art. 1 del codice
penale, che proprio partendo da questo formale
riconoscimento, rinviava le scelte politiche del regime
fascista alla parte speciale del codice ed alle pene ivi
previste.
Di un diritto penale d’autore (Täterstrafrecht)
si parlava solo come reminiscenza storica di un passato,
anche abbastanza recente, di negazione dello stato di
diritto. Dell’autore, ossia della persona, non è che non
si discutesse, ma per tutt’altre ragioni: per mirare
all’affermazione (che in Italia tardava) della
costituzionalità del principio di colpevolezza (1988)
che rappresenta un limite ulteriore per la
responsabilità penale ed altresì un limite per la pena
da irrogare in concreto, quali che fossero le funzioni
assegnate alla pena stessa.
Quanto al “fatto”, gli sforzi (non
miei, ma) della dottrina europea sono stati rivolti al
tentativo di assicurare che il fatto tipico fosse dotato
di sufficiente offensività, ai fini della cd. dignità
penale: la complessa ricerca della radice costituzionale
del principio di offensività aveva lo scopo di rendere
“giustiziabile” (ossia sottoposto al controllo di
legittimità della Corte Costituzionale) le stesse scelte
del legislatore ordinario, oltre che a vincolare il
giudice alla individuazione del concreto contenuto
offensivo del fatto realizzato.
Gli sviluppi della teoria del bene
giuridico ne sono la dimostrazione. In quest’ottica sono
state stigmatizzate da buona parte della dottrina le
eccessive “anticipazioni della tutela”, pur se
apprestata a beni giuridici di sicuro rilievo, i reati
di pericolo presunto, i cd. reati ostacolo ed altro.
Per quanto concerne la pena in
Italia, Paese dotato di un codice risalente al 1930, la
stigmatizzazione di limiti edittali eccessivamente
elevati ha portato nel 1974 ad un enorme dilatazione del
potere discrezionale del giudice, che ha dato luogo,
insieme ad effetti certamente positivi per la giustizia
sostanziale, a numerosi inconvenienti relativi alla poca
“certezza” connessa alla mancanza di precisi criteri
normativi, nonché ad una sovraesposizione del giudice
penale che si è venuto a trovare più arbitro che
applicatore delle leggi ( e questo non è stato di
giovamento).
Sul piano teorico, comunque, la
pena irrogata per comune opinione non deve superare la
misura della colpevolezza per il fatto, salvo a
consentire, verso il basso, di tener conto delle
esigenze di risocializzazione, rieducazione,
reinserimento contemplate dalla Costituzione. A livello
dottrinario concordemente si esclude un ruolo della
prevenzione generale nella fase della commisurazione
giudiziale.
Nonostante alcuni periodi bui della
storia recente d’Italia e d’Europa connessi al fenomeno
del terrorismo politico degli anni 70 e 80 che portò ad
un dibattito di natura politica sulla questione penale,
con la fine delle dittature comuniste susseguente alla
caduta del muro di Berlino, con i nuovi codici penali
europei (e relativi sistemi punitivi) ispirati ai
principi costituzionali delle democrazie occidentali e
ai principi della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e degli altri strumenti internazionali di
pieno riconoscimento dei diritti umani e quindi in un
quadro del diritto penale ad essi ispirato, sembrava
essere avviato a definitiva affermazione su scala ampia
l’iter del diritto penale liberale nato con
l’illuminismo e con l’idea dello stato di diritto.
Viceversa la caduta delle barriere,
il processo di globalizzazione, favorito da una vera e
propria rivoluzione epocale per quanto riguarda la
comunicazione, insieme a tanti benefici, ha portato
delle conseguenze non tutte positive per l’evoluzione
lineare del diritto penale di cui il quadro di
riferimento attuale e le prospettive.
La globalizzazione segna un
rapidissimo adeguamento della criminalità in quanto
organizzata, di tipo mafioso o terroristico, oltre che
economico (trans nazionalità), e mette a nudo una
notevole debolezza delle democrazie, legate a regole
fondamentali della loro esistenza quale stato di diritto
- il potere è sottomesso al diritto - e delle stesse
organizzazioni internazionali pure legate a principi
irrinunciabili.
Degli illeciti degli stati, che
pure sono drammaticamente presenti, non posso trattare
in questa sede.
Per la verità, già in precedenza
gli USA avevano registrato, pur nell’ambito di una
ideologia neo liberista, una politica criminale
“espansiva”, caratterizzata dal ricorso frequente alla
pena di morte e dall’incremento per quantità e durata
della pena detentiva.
Come è stato rilevato (Mir Puig) si
comincia a manifestare nei fatti una distinzione netta
tra i cittadini: gli osservanti da tutelare e i
delinquenti da colpire. E questo pare manifestarsi anche
nell’ambito del processo penale che da primario
strumento di garanzia dell’accusato tende a sbilanciarsi
a mezzo di lotta contro il delinquente e di tutela delle
vittime. I principi cardine della rivoluzione francese
(Liberté, Egalité, Fraternité) vengono di molto
svalutati in quanto la libertà non è difesa
adeguatamente, l’eguaglianza è solo formale davanti alla
legge, mentre si dimentica del tutto la solidarietà
(immigrati).
Ad una prevenzione precedentemente
preoccupata dei suoi limiti si sostituisce una
prevenzione ossessionata dalla sua incapacità, ma
l’indurimento del sistema penale non porta ai risultati
attesi per cui esso viene progressivamente incrementato.
E’ da osservare, per quanto si dirà
tra poco, che negli USA viene colpita con durezza anche
e specialmente la “delinquenza di strada” (Ferrajoli) e
non soltanto gli autori di fatti criminali
particolarmente gravi. E questo anche specialmente per
“sopperire” apparentemente al sentimento di bisogno di
tutela della popolazione che è anche la massa degli
elettori, il cui consenso è necessario alle istituzioni
democratiche. Quello di una politica criminale volta più
a far vedere che a fare in funzione dell’opinione
pubblica è, a mio avviso uno dei temi più delicati del
momento.
In questo contesto la terribile
strage dell’11 settembre 2001 ha dato luogo a misure un
tempo impensabili, specie se riferite ad un Paese come
gli USA che per lunghissimo tempo ha costituito un
esempio di sistema di garanzie individuali per le
democrazie occidentali.
Non mi soffermo in questa sede, per
mancanza di tempo, a valutare (come pure è stato fatto)
del se la violazione delle regole tradizionali negli USA
(habeas corpus, lunghe carcerazioni senza processo,
tortura, rapimenti) possa essere riportata ad un
concetto di diritto penale, sia pure abnorme o del
nemico. Sono propenso a offrire una risposta negativa,
ma vorrei sottolineare fin da ora che, di natura penale
o amministrativa, le misure sostanziali e processuali
adottate nei confronti dei presunti o sospetti
terroristi e le loro modalità colpiscano l’essenza
stessa dello stato di diritto.
Comunque, non ci si può nascondere
dietro ad etichette a prescindere dagli esiti delle
stragi dell’11 settembre, anche in conseguenza della
globalizzazione già l’esempio anteriore alla strage
della politica criminale americana e della sua
attuazione nel sistema penale non è restato isolato:
l’indurimento dei sistemi penali è da parecchi anni
sotto gli occhi di tutti, mentre è incerta e contestata
la fondatezza dei presupposti di questo indurimento.
Potremmo esaurire tutto il tempo di questo incontro,
elencando le innovazioni normative dei paesi europei che
sono state oggetto di viva discussione
Mentre in determinati gruppi di
stati (UE) i diritti umani, i diritti fondamentali della
persona, trovano pieno riconoscimento tramite le
rispettive costituzioni e la Corte Europea dei diritti
dell’Uomo (sicché non si può più parlare di
autoreferenzialità dei diritti dell’uomo in un’ottica
jus positivista); mentre lo statuto di Roma sulla Corte
Penale Internazionale ha finalmente aperto alla
protezione contro i crimini internazionali, non possiamo
non considerare come in questi stessi paesi, per non
parlare degli altri, da alcuni decenni ha preso piede e
si è consolidato l’inasprimento del sistema penale.
Dal sostanziale superamento della
pena informata a criteri di prevenzione speciale
positiva, volta cioè al recupero del reo e al suo
inserimento nella collettività (sulla base del principio
solidaristico) anche a seguito della crisi del Welfare
State (e alle più recenti crisi economiche) la
retribuzione, che, può essere significativa del rispetto
per i diritti dell’uomo in quanto sinonimo di
proporzione, tende nelle prassi giudiziarie (ma, come
vedremo, anche a livello normativo) almeno con
riferimento a determinati settori e a determinate forme
di criminalità, a diventare invece funzionale alla
prevenzione generale, all’esemplarità. Questo significa
strumentalizzazione della persona la quale non è più
punita per ciò che merita per il fatto commesso ma
perché la sua punizione sia di monito ai potenziali
imitatori. Né ci sembra estraneo a questo percorso la
prospettiva di neutralizzazione del delinquente tipo:
una sorta di ritorno al diritto penale dell’Ancien
Regime o a Stato assoluto. Ma, ovviamente prima della
questione della pena, va evidenziato il diffuso
intervento delle legislazioni europee volto a
contrastare fenomeni criminali, in taluni casi davvero
preoccupanti (terrorismo, criminalità organizzata,
tratta di esseri umani, criminalità economica connessa
(riciclaggio) ma anche fenomeni, meno gravi ma connessi
a questo periodo storico, come quelli mafiosi.
E’ stato questo clima di
irrigidimento generale, combattuto aspramente dalla
dottrina più liberale ma sostenuto da molti seri
studiosi, che ha portato alla elaborazione teorica del
“diritto penale del nemico” ad opera di Günter Jakobs.
E’ lo stesso clima che ha fatto sì
che quella che pochi anni prima sarebbe passata come una
elucubrazione da trattare con sufficienza, ha aperto le
porte ad un larghissimo dibattito scientifico. E questo
deve pur significare qualcosa.
Partendo dal rilievo di trattamenti
differenziati di determinati tipi di autore,
nell’impostazione di Jakobs si opera e si teorizza una
distinzione netta tra il “delinquente normale o comune”
e la categoria del “nemico pubblico” costituita da
delinquenti che si pongono in una linea di rottura
definitiva del patto sociale e quindi vanno combattuti,
come tali, ossia come nemici, ai fini della loro
neutralizzazione.
La concezione binaria (il cittadino
e il nemico) dà luogo a due sistemi differenziati: il
diritto penale del cittadino, corrispondente al diritto
penale tradizionale, con tutte le sue garanzie
sostanziali e processuali, e il diritto penale del
nemico attraverso il quale lo Stato può neutralizzare il
delinquente senza preoccuparsi delle garanzie. In questa
cornice di riferimento, questo tipo d’autore, alla fine
viene espressamente definito “non persona”.
La definizione di Hassemer
Diritto penale del nemico
“Con l’espressione “diritto penale
del nemico” è designato un diritto penale tipo che si
distingue dal diritto penale tradizionale in modo tale
da non potersi considerare solo differenziato o
ulteriormente sviluppato ma che si rapporta ad un
diverso ordinamento giuridico. Il diritto penale del
nemico mette in disparte la generalità dell’ordinamento
giuridico. Diritto penale del nemico e Diritto penale
tradizionale si distinguono nel nocciolo di ogni moderno
diritto penale: nel Menschenbild, nel concetto di
sanzione e nella protezione giuridica. Con il Diritto
penale del nemico la effettiva difesa dal pericolo si
propone in luogo della formalizzazione del controllo
sull’illecito. La sua giustificazione si serve del
concetto di persona e collide con essa”3.
In contrapposizione a questo
sistema binario che giunge a distinguere un ordinamento
per le persone e uno diverso per le non persone, chi
prende atto della realtà normativa e giudiziaria
differenziata per le diverse forme di criminalità e di
criminali, all’interno di Paesi che “sono considerati”
stati democratici di diritto, conferma l’ unicità del
sistema nell’ambito del quale le “sfumature” o anche le
palesi difformità nel trattamento di determinate forme
di criminalità e di determinati tipi di autore sono
parecchie e notevoli, al limite, possono dal luogo a
veri e propri sottosistemi. In questa ottica il diritto
penale fa sempre parte degli strumenti giuridici di
lotta o di contrasto alla criminalità conservando
tuttavia un dialogo con l’autore (imputato o reo
accertato che sia) ma pur sempre con un bilanciamento
tra esigenze di tutela sociale e quelle di protezione
individuale. Tuttavia da una “guerra cavalleresca”
(rispetto delle persone) si può passare ad una guerra
meno cavalleresca nei confronti di taluni col rischio
non astratto che essa diventi una guerra sporca,
arrivando al diritto penale del nemico. Questo rischio
va evitato e ciò proprio in virtù del fatto che manca
una cesura netta che permetta di distinguere il diritto
penale del fatto dal diritto penale del nemico: le
deviazioni (normative e giurisprudenziali) dagli schemi
ordinari più garantisti possono essere o vengono
segnalate e criticate, e, così contenute sul piano
scientifico e agli occhi dell’opinione pubblica, possono
essere sindacate a livello di costituzionalità, sempre
che siano superati i limiti costituzionali di garanzia.
A fronte della concezione
Jakobsiana del diritto penale del nemico (non persona)
mi sembra assolutamente valida la considerazione
(Zaffaroni) che non è tanto il diritto penale a non
poter far proprio quel concetto, ma che è lo stato di
diritto a non poter incorporarlo, “pena la sua scomparsa
come stato di diritto, perché il concetto è proprio di
modello di stato assoluto” (che può essere anche solo
provvisorio o relativo alle emergenze).
Alla scienza del diritto penale
spetta quindi il compito di segnalare le eventuali
deviazioni delle forme di contrasto a certa criminalità
utilizzate dallo Stato con i suoi organi (siano il
Parlamento, la Magistratura o la Polizia): può darsi che
tali deviazioni siano riferibili a leggi, ed allora può
intervenire la Corte Costituzionale, che siano
riferibili a sentenze, e allora devono intervenire le
giurisdizioni sovraordinate, che siano riferibili agli
organi di polizia o ai servizi segreti, ma questi ne
risponderanno.
Ricapitoliamo, scartato il sistema
binario di Jakobs, sembra un dato di fatto che in
presenza di fenomeni criminali particolarmente gravi,
sia pure riferibili di volta in volta alla realtà di
paesi diversi, quali il terrorismo, la criminalità
organizzata ecc., si sia arrivati a delle forme
differenziate di diritto penale, a prospettive di lotta,
nel senso di più forte contrasto, con tali fenomeni.
L’alternativa dottrinaria, a questo
punto muove da due prospettive (diversa funzione del
diritto penale):
escludere che il diritto penale
e il processo possano costituire uno strumento
differenziato di lotta.
prendere atto delle vere
emergenze, rilevare un sottosistema “temporaneo”
(all’interno del diritto penale normale) discutendone i
limiti di legittimità;
Registriamo cioè nel dibattito
internazionale delle posizioni culturali più legate alla
tradizione garantista e delle posizioni più pragmatiche.
Osserva Donini: “Chi dice che il
diritto penale non può mai essere uno strumento di lotta
contro un nemico, già solo per questo ne abbellisce il
volto, occultando gli aspetti più odiosi della penalità
quotidiana. Una scienza molto morale e molto estetica,
dunque, ma forse poco verace, o se si preferisce una
scienza sul dover essere del diritto penale, più che
riferita al suo essere normativo vigente”.
Io personalmente condivido questa
posizione più prammatica, anche non sono disposto a
rinunziare all’affermazione dei principi ai quali ho
sempre creduto.
L’idea soltanto di un Diritto
penale del nemico, in realtà, mi sembra un indice molto
serio della crisi delle democrazie, o almeno di alcune
di esse.
L’ossessione per la criminalità
(giusta o errata che sia) influenza, ed è destinata ad
influenzare l’elaborazione del diritto penale a tutti i
livelli.
Questa ossessione è connessa al
bisogno di sicurezza diffuso nella popolazioni 4:
incide sui soggetti politici, alla
ricerca del consenso che pure è un fondamento della
democrazia: di qui il rischio di una legislazione che
alle volte è solo simbolica ma in altri casi attinge
davvero i diritti della persona;
incide sui giudici e sul “giusto
processo”, perché porsi in contrasto con i pubblici
ministeri che si fanno portatori delle esigenze (vere o
artificiali) di tutela, viene valutato negativamente
dall’opinione pubblica, alla quale anche il giudice, che
pur non dovrebbe, resta sensibile.
Modalità di acquisizione del
consenso e opinione pubblica manipolata sono dunque le
reazioni che contraddicono una politica criminale
razionale e pienamente rispettosa dei principi storici
dell’ordinamento giuridico dello stato di diritto.
Quando, invece, si è in presenza di
effettive esigenze di tutela a fronte di quelle forme di
criminalità sempre più organizzata e sempre più
spietata, sempre più aggressiva pericolosa, il sistema
penale deve individuare adeguati strumenti di contrasto
all’interno dei principi dello stato di diritto.
Perché si possa parlare di sistema
penale di contrasto (inserito nello stato di diritto) è
indispensabile che la produzione normativa sia
controllabile e controllata dalla Corte Costituzionale;
che l’applicazione della legge avvenga ad opera di un
giudice indipendente e davvero imparziale, mediante le
regole del giusto processo, che dia conto adeguatamente
delle sue decisioni ( a sua volta controllabili e
rivedibili).
Entro questi fin troppo ovvi limiti
intrinseci non si può escludere che a un diritto penale
del puro fatto (di tipo tradizional-liberale) e della
colpevolezza possano affiancarsi valutazioni funzionali
all’applicazione di misure di sicurezza.
Ma in tal caso sarebbe
indispensabile tipizzare le ipotesi di grave
pericolosità criminale, in modo da consentirne l’
accertamento 5. Se così non fosse si aprirebbe il varco
ad una ulteriore strumentalizzazione della persona
mediante il riconoscimento solo formale e non provato
dell’esistenza di un nemico da neutralizzare.
Ed infine la mia opinione è che
anche il più efferato e pericoloso delinquente deve
poter conservare, in quanto persona, la chance di
recupero. Questo forse non è un diritto del delinquente,
ma resta un dovere di un ordinamento giuridico di stato
di diritto.
1 Prof. Avv. Alfonso M. Stile,
Ordinario di Diritto Penale alla “Sapienza” Università
di Roma, Vice-Presidente dell'Istituto Superiore
Internazionale di Scienze Criminali (ISISC di Siracusa),
Vice-Presidente dell’Association Internationale de Droit
Penale (AIDP), Presidente dell’Association
Internationale de Droit Penale – Gruppo Italiano
(AIDP-gi), Presidente Onorario dell’Association
Internationale de Droit Penale – Albanian National Group
and Collective Members of Kosovo united in AIDP –
Albanian People Group (AIDP-apg).
2 Lectio Magistralis tenuta in
Prishtina, Kosovo, in data 11 settembre 2010 nell’
“International Conference: Penal Protection of Human
Dignity in Globalisation Era, 11-13 September 2010,
Prishtina, Kosova”, ove lo stesso veniva insignito del
titolo di “Honorary President of Association
Internationale de Droit Penale – Albanian National Group
and Collective Members of Kosovo united in AIDP –
Albanian People Group (AIDP-apg)”.
3 E’ inutile dire che Hassemer
definisce la posizione di Jakobs per sottoporla a dura
critica.
4 Occorrerebbe però riuscire a
valutare quanto il bisogno di sicurezza corrisponda a
situazioni reali di rischio aumentato e quanto sia
riferibile alla amplificazione di un rischio esistente
da tempo nella stessa misura. Vi sono anche situazioni
di pericolosità che sono connesse ad aspetti benefici
per la collettività, ma questi ultimi non sono
rappresentati (immigrati).
5 Occorrerebbe provare la
pericolosità non limitarsi ad evidenziarne gli elementi
di sospetto, ma la cosa non è affatto semplice. |