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RISARCIMENTO: LE DECISIONI DI STRASBURGO SONO VINCOLANTI IN ITALIA NEI GIUDIZI IN CORSO?Cassazione, sez. III, 30 settembre 2011, n. 19985-Diritto e processo.com

 

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1. Le sentenze della Corte di Strasburgo, pur avendo natura dichiarativa, una volta divenute definitive ex art. 44 della Convenzione, consentono di attribuire alla vittima della accertata violazione del diritto protetto dalla Convenzione una somma a titolo di risarcimento dei danni morali e materiali o di riconoscere alla stessa una somma come equa soddisfazione, come è accaduto nel caso in esame;

 

2. In quanto definitive queste sentenze sono precettive alla pari delle norme materiali convenzionali, la cui applicazione non può discostarsi dall'interpretazione che della norma stessa ha dato il giudice Europeo.

 

3. Il giudice interno, il quale ha la materiale disponibilità di incidere sulla fattispecie concreta, non può ignorare o svuotare di contenuto il decisum definitivo della Corte Europea, anche se si tratta di condanna dello Stato a titolo di equa soddisfazione, per la quale non vi è bisogno di alcun exequatur e di fronte alla quale lo Stato non ha altra scelta se non quella di pagare, come di fatto accade;

 

4. La decisione definitiva ha nell'ambito interno, e in relazione al procedimento, valore assimilabile al giudicato formale, ovvero vale solo per il procedimento in corso ed, in quanto tale, ha ovvia ricaduta sulla situazione che in simile ipotesi il giudice è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto logico-giuridico delle relative problematiche che quel giudice è chiamato a risolvere.

 

 

 

 

 

Cassazione, sez. III, 30 settembre 2011, n. 19985

 

(Pres. Trifone – Rel. Uccella)

 

 

 

 

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza dell'8 maggio 2002 il Tribunale di Roma rigettava la domanda di F..D.J. , proposta nei confronti di F.A. , volta ad ottenere il risarcimento dei danni asseritamene patiti a causa di espressioni ingiuriose e diffamatorie, contenute in un'intervista rilasciata dal F. ad una giornalista del quotidiano "(omissis) .

 

Sull'impugnazione di F..D.J. la Corte d'appello di Roma, con sentenza del 16 maggio 2005, rigettava il gravame prendendo in esame anche la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado del tribunale, aveva accolto il ricorso, proposto dallo stesso D.J. , per violazione dell'art. 6, primo comma, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

 

Avverso la decisione della Corte d'appello propone ricorso per cassazione F..D.J. , affidandosi ad un unico motivo, illustrato anche da successiva memoria.

 

Resiste con controricorso A..F. .

 

All'udienza del 21 ottobre 2010 il Collegio, poiché vi era motivo per ritenere che A..F. non avesse avuto conoscenza del sopravvenuto impedimento del suo difensore di fiducia a curarne l'assistenza in giudizio, disponeva che al resistente fosse data comunicazione personale della nuova udienza innanzi a questa Corte.

 

L'adempimento risulta verificato in relazione all'odierna udienza.

 

Il ricorrente all'odierna udienza ha depositato note di replica alle conclusioni motivate del P.G..

 

Motivi della decisione

 

1.- Preliminarmente rileva la Corte che il ricorso, contrariamente a quel che deduce il resistente, non è inammissibile per genericità del motivo, che, anzi, affida alla Corte la soluzione di un problema di puro diritto.

 

Infatti, il ricorrente chiede al Collegio di stabilire, attesa la natura precettiva delle norme convenzionali, se le sentenze della Corte di Strasburgo abbiano efficacia erga omnes (rectius: efficacia immediata e diretta) nell'ordinamento interno e, quindi, se, nel giudizio in corso da lui introdotto, debba farsi applicazione delle statuizioni contenute nella sopravvenuta sentenza pronunciata dalla Corte medesima a seguito del suo ricorso.

 

Per l'adeguata risposta al quesito occorre richiamare la ratio del complesso sistema instaurato dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955, secondo quanto emerge sia dall'osmosi tra giurisprudenza Europea e giurisprudenza interna, sia dall'elaborazione anche della più recente dottrina specialistica sul punto.

 

2. In via generale, va ribadito l'orientamento di questa Corte circa l'immediata rilevanza nel nostro ordinamento delle norme della suddetta Convenzione(art.6) e circa l'obbligo per il giudice dello Stato di applicare direttamente la norma pattizia (Cass., S.U., n.28507/05), anche quando essa non sia conforme al diritto interno, alla sola condizione che la sua interpretazione superi il doveroso controllo secundum constitutionem.

 

Le norme convenzionali, infatti, fanno sistema con l'art. 2 Cost., fonte assiologica interna, in quanto i diritti riconosciuti dalla Convenzione sono inviolabili perché funzionali alla dignità di ogni persona, per cui il giudice deve tener presenti, in modo congiunto ed integrativo, i diritti costituzionalmente garantiti e i diritti convenzionalmente protetti.

 

Allo stesso modo, il giudice dello Stato non può ignorare, nella controversia che è chiamato a decidere, l'interpretazione che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la conseguenza che, nella realizzazione dell'equo processo ed allo scopo di assicurare la parità effettiva delle armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1 comma, Cost.), il giudice interno, affinché la sua statuizione risulti aderente alle norme della Convenzione, deve tenere conto anche dell'elaborazione del diritto vivente quale proveniente proprio dalla Corte di Strasburgo, che della Convenzione è il più autorevole interprete.

 

Questo indirizzo ha trovato conferma ulteriore nelle decisioni n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale, che se in esse, come rileva specialistica dottrina, oscilla tra un polo di ispirazione formale - astratta, per cui la Convenzione ha una collocazione mediana, quale fonte interposta tra il piano costituzionale e quello delle leggi comuni, e un polo assiologico - sostanziale, perché si profilerebbe l'eventuale esigenza di un bilanciamento tra i diritti della Convenzione e gli stessi diritti costituzionalmente protetti, tuttavia ha statuito che nel caso in cui il giudice comune ravvisi una incompatibilità tra norma convenzionale e norma costituzionale, gli atti vanno rimessi al giudice delle leggi.

 

Questa statuizione non può avere altro significato, ad avviso del Collegio, che quello di consentire la piena effettività del diritto vivente superveniens ai fini della esatta definizione della norma, anche interna, va specificato, da osservare nel caso concreto sottoposto al suo giudizio.

 

La qualcosa viene a corrispondere al grado di esattezza e correttezza interpretative se si tiene conto, come se ne dovrebbe tenere, della perenne dialettica tra eternità di valori e contingenza delle situazioni storiche perché si abbia un diritto vivo, secondo l'espressione di autorevole dogmatica del diritto.

 

3.- Di vero, la primazia della Convenzione sul diritto comune non è fine a se stessa, perché, anche se ritenute - le norme convenzionali - come norme interposte e, quindi, formalmente appartenenti all'ordinamento interno, le stesse vengono ad arricchire quell'ordine pubblico italiano che costituisce il limite invalicabile di ogni atto ( normativo o amministrativo o giudiziario) interno, che è supremo principio costituzionale (Corte cost. n. 18/82, in motivazione).

 

Ed è proprio la quasi identità dei beni protetti dalla Convenzione con quelli tutelati e garantiti dalla Costituzione che contribuisce a qualificare, congiuntamente alla loro validità (anche formale) interna, come costitutivi elementi dell'ordine pubblico italiano le norme della Convenzione, che abbiano ad oggetto esigenze o diritti, la cui tutela viene rivendicata dalla Corte di Strasburgo, considerato che il parametro costituzionale dei singoli Stati aderenti è pur sempre il livello minimo e non massimo né medio di tutela, come ormai è acquisito alla coscienza giuridica.

 

4. Quanto fino ad ora considerato in tema di norme convenzionali materiali non esclude, però, di affrontare la problematica degli effetti nell'ambito interno delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo.

 

In merito a ciò rileva il Collegio:

 

1) le sentenze della Corte di Strasburgo, pur avendo natura dichiarativa, una volta divenute definitive ex art. 44 della Convenzione, consentono di attribuire alla vittima della accertata violazione del diritto protetto dalla Convenzione una somma a titolo di risarcimento dei danni morali e materiali o di riconoscere alla stessa una somma come equa soddisfazione, come è accaduto nel caso in esame;

 

2) in quanto definitive queste sentenze sono precettive (Cass. S.U., 23 dicembre 2005 n.28507) alla pari delle norme materiali convenzionali, la cui applicazione non può discostarsi dall'interpretazione che della norma stessa ha dato il giudice Europeo (Cass. I sez. pen. 25 gennaio 2007 n.2800, PM in proc. Dorigo).

 

5. Pertanto, va affermato che:

 

a) il giudice interno, il quale ha la materiale disponibilità di incidere sulla fattispecie concreta, non può ignorare o svuotare di contenuto il decisum definitivo della Corte Europea, anche se si tratta di condanna dello Stato a titolo di equa soddisfazione, per la quale non vi è bisogno di alcun exequatur e di fronte alla quale lo Stato non ha altra scelta se non quella di pagare, come di fatto accade;

 

b) la decisione definitiva ha nell'ambito interno, e in relazione al procedimento, valore assimilabile al giudicato formale, ovvero vale solo per il procedimento in corso ed, in quanto tale, ha ovvia ricaduta sulla situazione che in simile ipotesi il giudice è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto logico-giuridico delle relative problematiche che quel giudice è chiamato a risolvere.

 

6. - Alla luce di questa impostazione, e venendo al caso in esame, va osservato quanto segue.

 

6.1. - In punto di fatto si evince dalla sentenza della Corte Europea del 3 giugno 2004, divenuta definitiva il 10 novembre 2004, che il D.J. ha inoltrato un ricorso alla Corte di Strasburgo iscritto al n. 73936/01 contro la Repubblica Italiana il 17 gennaio 2001, allegando che la immunità riconosciuta al F. , come senatore, aveva violato il suo diritto di accesso ad un tribunale.

 

Il procedimento penale da lui intentato contro il F. era stato definito dalla Corte di cassazione con sentenza del 27 luglio 2000 con declaratoria di inammissibilità.

 

Nella pendenza del procedimento penale il D.J. il 27 maggio 1999 aveva adito il Tribunale di Roma in sede civile e con sentenza del 3 aprile 2002, che il D.J. produsse e depositò avanti alla Corte di Strasburgo l'8 maggio 2002 (par. 21 nella parte en fait) il Tribunale rigettava la domanda risarcitoria per diffamazione a mezzo stampa, confermando la delibera del Senato dell'11 marzo

 

1998 secondo la quale le dichiarazioni del F. erano state fatte nell'ambito delle sue funzioni di parlamentare.

 

La sentenza civile venne appellata dal D.J. .

 

La sentenza della Corte di Strasburgo, che ha constatato la violazione dell'art.6 par. 1 Conv. ed ha accordato al D.J. una somma a titolo di equa soddisfazione, è intervenuta mentre il giudizio civile non era ancora definito, perché la sentenza di primo grado venne appellata e prima della decisione della Corte di appello di Roma, oggi soggetta a ricorso, che è del 16 maggio 2005.

 

La cadenza temporale della vicenda ne evidenzia fin d'ora la peculiarità, nel senso che la decisione della Corte di Strasburgo è intervenuta allorché la controversia civilistica non aveva ancora avuto una decisione definitiva.

 

6.2. In tale sentenza la Corte in essa ha avuto modo di puntualizzare:

 

a) il " rifiuto della Corte di Cassazione di sollevare conflitto di attribuzione ha impedito alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla compatibilità tra la delibera del Senato e le attribuzioni della magistratura" (par.56, in motivazione);

 

b) l'art. 68 Cost. non viola affatto alcuno dei diritti fondamentali della Convenzione in quanto persegue dei fini legittimi, ovvero la protezione del libero dibattito parlamentare e il mantenimento della separazione dei poteri legislativo e giudiziario (par. 49 in motivazione);

 

c) l'art.68 Cost., però, nella fattispecie non gioca alcun ruolo in quanto le dichiarazioni asseritamente diffamatorie del F. nei confronti del D.J. non sono connesse alla funzione di parlamentare del F. , ma rientrano in una vicenda tra privati cittadini, stante l'assenza di un legame evidente con l'attività di parlamentare da parte del F. (par. 53, in motivazione).

 

In altri termini, dalla sentenza di Strasburgo deriva sostanzialmente l'effetto di giudicato soltanto sul punto, peraltro, ritenuto rilevante dai giudici del merito, della stessa causa petendi, oggetto della azione giudiziaria interna non ancora definita, circa la mancata operatività anche nel giudizio civile dell'art. 68 Cost., non essendo stato rinvenuto dai Giudici di Strasburgo il rispetto del giusto equilibrio che deve esistere nella materia tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo (par.55, in motivazione).

 

Se ne deve dedurre che la sentenza della CEDU ha definitivamente statuito, seppure nel corso dello svolgimento del giudizio (ed è questa la peculiarità del caso in esame), circa la non operatività, dell'art. 68 Cost., con l'effetto che questa Corte non può ignorare la statuizione, essendo chiamata a decidere proprio sulla stessa questione.

 

Queste considerazioni, oltre che essere in linea con quanto detto a proposito della precettività delle norme convenzionali e alla giurisprudenza di questa Corte per l'innanzi richiamata, trovano eco in quella parte della dottrina, secondo la quale, in virtù della copertura che l'art. 2 Cost. avrebbe dato ed offrirebbe alla Convenzione Europea nella sua integrità, la sentenza Europea non può non essere efficacia nel sistema interno, trattandosi di statuizione dal valore di giudicato formale per il processo interno.

 

6.3. Infatti, principio fondamentale della Convenzione è quello della solidarietà, vincolante per lo Stato e, quindi, per i suoi organi in virtù dell'obbligo di rispetto dei diritti dell'uomo quali essi concretamente si dispiegano.

 

Di vero, la Corte di Strasburgo, nel dichiarare la violazione da parte dello Stato di uno dei diritti di cui alla Convenzione, precisa il contenuto del diritto individuale e connota il principio generale, che identifica tale contenuto dal carattere vincolante per tutti i sistemi giuridici aderenti al Consiglio d'Europa.

 

Infatti, il principio della solidarietà, che deve essere letto in riferimento all'art. 1 della Convenzione ed alla acquisita coscienza della precettività delle norme convenzionali nell'esegesi fattane dalla Corte Europea (arg. ex art. 6 par.2 TUE e 1 della c.d. Carta di Nizza), importa che la interpretazione della stessa Corte, una volta divenuta definitiva, non debba rimanere senza effetto nell'ambito interno.

 

E non vi è dubbio che tutta la Convenzione si muove nel rispetto di una sovranità statale da esercitare però sempre e nei limiti inderogabili del riconoscimento non solo teorico, ma concreto dei diritti fondamentali, atteso il valore assiologico della dignità della persona, anche quando lo Stato nella sua Costituzione ne proclama la inviolabilità.

 

Il che, per quanto possa valere, sembra ribadito dalla Risoluzione n. 2010/83 del Comitato dei Ministri sull'art.46 par.2 CEDU ed in particolare lett. B n.4 b)., emessa alla fine della Conferenza di Interlaken del 19 febbraio 2010.

 

Nella specie, la statuizione della Corte di Strasburgo, che è intervenuta mentre il giudizio era ancora in corso dopo la fase di primo grado, si è concretata nell'affermare che il denunciato fatto diffamatorio, riguardando esso un rapporto intercorso come tra privati cittadini ed estraneo quindi alla funzione parlamentare, costituiva l'oggetto di controversia per la quale non poteva intervenire la copertura nell'art.68 della Costituzione.

 

6.4. Pertanto, stante l'obbligo per il giudice interno di non contraddire la statuizione contenuta nella sentenza della Corte Europea, laddove essa riguarda, come nella specie, la stessa causa petendi azionata avanti al giudice interno, la sentenza impugnata in parte qua va emendata, con l'effetto che, non dovendo tenersi più in conto l'operatività dell'art.68 Cost., questa Corte è chiamata ad esaminare la sentenza impugnata nella sua interezza e nella sua correttezza nel decisum, oltre che nella motivazione.

 

Al riguardo, va posto in rilievo che il D.J. ebbe ad appellare la sentenza del tribunale deducendo due censure:

 

a) la prima sulla inapplicabilità dell'art. 68 Cost.;

 

b) la seconda, per così dire, nel merito, in quanto assumeva, contrariamente a quanto argomentato dal tribunale, che le espressioni del F. avevano natura diffamatoria nei suoi confronti e superavano i limiti del diritto di critica politica.

 

Di vero, il giudice dell'appello ha respinto l'appello, disconoscendo, richiamandosi a Cass. n. 5664/03 (alla luce di quanto sopra detto in modo errato), ogni valore alla decisione della Corte Europea.

 

Ciò posto in rilievo e, pur dovendosi tener conto del giudicato formale formatosi in sede Europea, perché strettamente collegato al caso in esame, va rilevato, come appare dalla sentenza del Tribunale civile. del 2002 e confermata dal giudice dell'appello, che essa si fondava su due rationes decidendi.

 

La prima concerneva la mancata autorizzazione a procedere data la copertura costituzionale dell'art.68, non più rilevante dopo l'intervento della Corte di Strasburgo, la seconda ha affrontato la condotta del F. quale privato cittadino.

 

Entrando, quindi, nel merito della vicenda, esclusa ogni prerogativa del F. quale parlamentare, il Tribunale ha concluso che il F. ha esercitato un proprio diritto costituzionalmente tutelato ed in capo ad ogni cittadino, (nonché, va aggiunto, dall'art. 10 Conv.) ovvero il diritto di critica politica rivolta non già alla sfera personale del soggetto, bensì all'ambito politico di espressione del soggetto criticato (il D.J. ), escludendo, quindi, ogni elemento volitivo diffamatorio nei confronti di quest'ultimo e la integrazione del reato di diffamazione (p. 4-5 sentenza del Tribunale).

 

In altri termini, il giudice di primo grado, la cui decisione è stata confermata in toto in appello, ha, in un certo senso, pur senza conoscere la sentenza Europea, anticipato quello che poi avrebbe statuito la Corte di Strasburgo, ovvero che la vicenda riguarda due cittadini privati e non già un politico nell'esercizio della sua attività di parlamentare e un candidato alle elezioni ed, entrando nel merito, ne ha escluso la valenza diffamatoria.

 

Ed in merito a questa parte motivazionale va rilevato che nel presente ricorso il ricorrente si è limitato a censurare la sentenza di appello circa il mancato riconoscimento in sede interna della statuizione definitiva sulla non operatività dell'art. 68 Cost., quale rinvenuta dalla Corte di Strasburgo, ma non ha proposto alcuna doglianza sulla omessa pronuncia da parte del giudice dell'appello sul secondo motivo di gravame, attinente alla esclusione del carattere diffamatorio delle espressioni "graffianti" - riporta la sentenza del Tribunale - contenute nella intervista del F. a (OMISSIS) .

 

è, inoltre, appena il caso di aggiungere che se la sentenza della Corte Europea è, nella specie, vincolante in ordine alla ritenuta non operatività dell'art.68 Cost., non può vincolare il giudice interno laddove in essa si considera obiter dictum la esclusione della valenza diffamatoria delle espressioni usate dal F. (v. sentenza della Corte Europea, par. 46, in motivazione), esclusione che, come detto, costituisce la seconda ratio decidendi della sentenza di primo grado e su cui il D.J. aveva redatto uno specifico motivo di appello non considerato dal giudice di secondo grado.

 

Ne consegue che il ricorso va respinto, dovendosi affermare conclusivamente che la decisione definitiva della Corte dei diritti dell'uomo ha effetti precettivi immediati assimilabili al giudicato ed, in quanto tale, deve essere tenuta in considerazione dall'organo dello Stato che, in ragione della sua competenza, è al momento il destinatario naturale dell'obbligo giuridico, derivante dall'art. 1 della Convenzione, di conformare e di non contraddire la sua decisione al deliberato della Corte in relazione a quella parte di esso, là dove ha acquistato autorità di cosa giudicata in riferimento alla stessa quaestio disputanda di cui continua ad occuparsi detto organo.

 

7. Ed, inoltre, va corretta quella parte in motivazione dell'impugnata sentenza, laddove il giudice dell'appello ha ritenuto che si sarebbe formato il giudicato in ordine alla sentenza del Tribunale penale emessa ex art.12 9 cod. proc. pen., ovvero come sentenza di proscioglimento, anticipatoria di dibattimento.

 

Infatti, a tale sentenza non si applica l'art.654 cod. proc. pen., come correttamente aveva rilevato il giudice di primo grado, secondo la decisione di Cass. S.U. n. 674/10.

 

Tenuto conto della peculiarità delle questioni trattate, ritiene il Collegio che sussistano giusti motivi per compensare tra le parti integralmente le spese del presente giudizio di cassazione.

 

In caso di pubblicazione il Collegio dispone che vengano oscurati i dati personali.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

 

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

 

 

 

 

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