1. Le sentenze della Corte di
Strasburgo, pur avendo natura dichiarativa, una volta
divenute definitive ex art. 44 della Convenzione,
consentono di attribuire alla vittima della accertata
violazione del diritto protetto dalla Convenzione una
somma a titolo di risarcimento dei danni morali e
materiali o di riconoscere alla stessa una somma come
equa soddisfazione, come è accaduto nel caso in esame;
2. In quanto definitive queste
sentenze sono precettive alla pari delle norme materiali
convenzionali, la cui applicazione non può discostarsi
dall'interpretazione che della norma stessa ha dato il
giudice Europeo.
3. Il giudice interno, il quale ha
la materiale disponibilità di incidere sulla fattispecie
concreta, non può ignorare o svuotare di contenuto il
decisum definitivo della Corte Europea, anche se si
tratta di condanna dello Stato a titolo di equa
soddisfazione, per la quale non vi è bisogno di alcun
exequatur e di fronte alla quale lo Stato non ha altra
scelta se non quella di pagare, come di fatto accade;
4. La decisione definitiva ha
nell'ambito interno, e in relazione al procedimento,
valore assimilabile al giudicato formale, ovvero vale
solo per il procedimento in corso ed, in quanto tale, ha
ovvia ricaduta sulla situazione che in simile ipotesi il
giudice è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto
logico-giuridico delle relative problematiche che quel
giudice è chiamato a risolvere.
Cassazione, sez. III, 30 settembre
2011, n. 19985
(Pres. Trifone – Rel. Uccella)
Svolgimento del processo
Con sentenza dell'8 maggio 2002 il
Tribunale di Roma rigettava la domanda di F..D.J. ,
proposta nei confronti di F.A. , volta ad ottenere il
risarcimento dei danni asseritamene patiti a causa di
espressioni ingiuriose e diffamatorie, contenute in
un'intervista rilasciata dal F. ad una giornalista del
quotidiano "(omissis) .
Sull'impugnazione di F..D.J. la
Corte d'appello di Roma, con sentenza del 16 maggio
2005, rigettava il gravame prendendo in esame anche la
sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che,
dopo la pronuncia della sentenza di primo grado del
tribunale, aveva accolto il ricorso, proposto dallo
stesso D.J. , per violazione dell'art. 6, primo comma,
della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali.
Avverso la decisione della Corte
d'appello propone ricorso per cassazione F..D.J. ,
affidandosi ad un unico motivo, illustrato anche da
successiva memoria.
Resiste con controricorso A..F. .
All'udienza del 21 ottobre 2010 il
Collegio, poiché vi era motivo per ritenere che A..F.
non avesse avuto conoscenza del sopravvenuto impedimento
del suo difensore di fiducia a curarne l'assistenza in
giudizio, disponeva che al resistente fosse data
comunicazione personale della nuova udienza innanzi a
questa Corte.
L'adempimento risulta verificato in
relazione all'odierna udienza.
Il ricorrente all'odierna udienza
ha depositato note di replica alle conclusioni motivate
del P.G..
Motivi della decisione
1.- Preliminarmente rileva la Corte
che il ricorso, contrariamente a quel che deduce il
resistente, non è inammissibile per genericità del
motivo, che, anzi, affida alla Corte la soluzione di un
problema di puro diritto.
Infatti, il ricorrente chiede al
Collegio di stabilire, attesa la natura precettiva delle
norme convenzionali, se le sentenze della Corte di
Strasburgo abbiano efficacia erga omnes (rectius:
efficacia immediata e diretta) nell'ordinamento interno
e, quindi, se, nel giudizio in corso da lui introdotto,
debba farsi applicazione delle statuizioni contenute
nella sopravvenuta sentenza pronunciata dalla Corte
medesima a seguito del suo ricorso.
Per l'adeguata risposta al quesito
occorre richiamare la ratio del complesso sistema
instaurato dalla Convenzione Europea dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e
resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955,
secondo quanto emerge sia dall'osmosi tra giurisprudenza
Europea e giurisprudenza interna, sia dall'elaborazione
anche della più recente dottrina specialistica sul
punto.
2. In via generale, va ribadito
l'orientamento di questa Corte circa l'immediata
rilevanza nel nostro ordinamento delle norme della
suddetta Convenzione(art.6) e circa l'obbligo per il
giudice dello Stato di applicare direttamente la norma
pattizia (Cass., S.U., n.28507/05), anche quando essa
non sia conforme al diritto interno, alla sola
condizione che la sua interpretazione superi il doveroso
controllo secundum constitutionem.
Le norme convenzionali, infatti,
fanno sistema con l'art. 2 Cost., fonte assiologica
interna, in quanto i diritti riconosciuti dalla
Convenzione sono inviolabili perché funzionali alla
dignità di ogni persona, per cui il giudice deve tener
presenti, in modo congiunto ed integrativo, i diritti
costituzionalmente garantiti e i diritti
convenzionalmente protetti.
Allo stesso modo, il giudice dello
Stato non può ignorare, nella controversia che è
chiamato a decidere, l'interpretazione che delle norme
pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la
conseguenza che, nella realizzazione dell'equo processo
ed allo scopo di assicurare la parità effettiva delle
armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1
comma, Cost.), il giudice interno, affinché la sua
statuizione risulti aderente alle norme della
Convenzione, deve tenere conto anche dell'elaborazione
del diritto vivente quale proveniente proprio dalla
Corte di Strasburgo, che della Convenzione è il più
autorevole interprete.
Questo indirizzo ha trovato
conferma ulteriore nelle decisioni n. 348 e n. 349 del
2007 della Corte costituzionale, che se in esse, come
rileva specialistica dottrina, oscilla tra un polo di
ispirazione formale - astratta, per cui la Convenzione
ha una collocazione mediana, quale fonte interposta tra
il piano costituzionale e quello delle leggi comuni, e
un polo assiologico - sostanziale, perché si
profilerebbe l'eventuale esigenza di un bilanciamento
tra i diritti della Convenzione e gli stessi diritti
costituzionalmente protetti, tuttavia ha statuito che
nel caso in cui il giudice comune ravvisi una
incompatibilità tra norma convenzionale e norma
costituzionale, gli atti vanno rimessi al giudice delle
leggi.
Questa statuizione non può avere
altro significato, ad avviso del Collegio, che quello di
consentire la piena effettività del diritto vivente
superveniens ai fini della esatta definizione della
norma, anche interna, va specificato, da osservare nel
caso concreto sottoposto al suo giudizio.
La qualcosa viene a corrispondere
al grado di esattezza e correttezza interpretative se si
tiene conto, come se ne dovrebbe tenere, della perenne
dialettica tra eternità di valori e contingenza delle
situazioni storiche perché si abbia un diritto vivo,
secondo l'espressione di autorevole dogmatica del
diritto.
3.- Di vero, la primazia della
Convenzione sul diritto comune non è fine a se stessa,
perché, anche se ritenute - le norme convenzionali -
come norme interposte e, quindi, formalmente
appartenenti all'ordinamento interno, le stesse vengono
ad arricchire quell'ordine pubblico italiano che
costituisce il limite invalicabile di ogni atto (
normativo o amministrativo o giudiziario) interno, che è
supremo principio costituzionale (Corte cost. n. 18/82,
in motivazione).
Ed è proprio la quasi identità dei
beni protetti dalla Convenzione con quelli tutelati e
garantiti dalla Costituzione che contribuisce a
qualificare, congiuntamente alla loro validità (anche
formale) interna, come costitutivi elementi dell'ordine
pubblico italiano le norme della Convenzione, che
abbiano ad oggetto esigenze o diritti, la cui tutela
viene rivendicata dalla Corte di Strasburgo, considerato
che il parametro costituzionale dei singoli Stati
aderenti è pur sempre il livello minimo e non massimo né
medio di tutela, come ormai è acquisito alla coscienza
giuridica.
4. Quanto fino ad ora considerato
in tema di norme convenzionali materiali non esclude,
però, di affrontare la problematica degli effetti
nell'ambito interno delle sentenze della Corte Europea
dei diritti dell'uomo.
In merito a ciò rileva il Collegio:
1) le sentenze della Corte di
Strasburgo, pur avendo natura dichiarativa, una volta
divenute definitive ex art. 44 della Convenzione,
consentono di attribuire alla vittima della accertata
violazione del diritto protetto dalla Convenzione una
somma a titolo di risarcimento dei danni morali e
materiali o di riconoscere alla stessa una somma come
equa soddisfazione, come è accaduto nel caso in esame;
2) in quanto definitive queste
sentenze sono precettive (Cass. S.U., 23 dicembre 2005
n.28507) alla pari delle norme materiali convenzionali,
la cui applicazione non può discostarsi
dall'interpretazione che della norma stessa ha dato il
giudice Europeo (Cass. I sez. pen. 25 gennaio 2007
n.2800, PM in proc. Dorigo).
5. Pertanto, va affermato che:
a) il giudice interno, il quale ha
la materiale disponibilità di incidere sulla fattispecie
concreta, non può ignorare o svuotare di contenuto il
decisum definitivo della Corte Europea, anche se si
tratta di condanna dello Stato a titolo di equa
soddisfazione, per la quale non vi è bisogno di alcun
exequatur e di fronte alla quale lo Stato non ha altra
scelta se non quella di pagare, come di fatto accade;
b) la decisione definitiva ha
nell'ambito interno, e in relazione al procedimento,
valore assimilabile al giudicato formale, ovvero vale
solo per il procedimento in corso ed, in quanto tale, ha
ovvia ricaduta sulla situazione che in simile ipotesi il
giudice è chiamato ad affrontare, in quanto presupposto
logico-giuridico delle relative problematiche che quel
giudice è chiamato a risolvere.
6. - Alla luce di questa
impostazione, e venendo al caso in esame, va osservato
quanto segue.
6.1. - In punto di fatto si evince
dalla sentenza della Corte Europea del 3 giugno 2004,
divenuta definitiva il 10 novembre 2004, che il D.J. ha
inoltrato un ricorso alla Corte di Strasburgo iscritto
al n. 73936/01 contro la Repubblica Italiana il 17
gennaio 2001, allegando che la immunità riconosciuta al
F. , come senatore, aveva violato il suo diritto di
accesso ad un tribunale.
Il procedimento penale da lui
intentato contro il F. era stato definito dalla Corte di
cassazione con sentenza del 27 luglio 2000 con
declaratoria di inammissibilità.
Nella pendenza del procedimento
penale il D.J. il 27 maggio 1999 aveva adito il
Tribunale di Roma in sede civile e con sentenza del 3
aprile 2002, che il D.J. produsse e depositò avanti alla
Corte di Strasburgo l'8 maggio 2002 (par. 21 nella parte
en fait) il Tribunale rigettava la domanda risarcitoria
per diffamazione a mezzo stampa, confermando la delibera
del Senato dell'11 marzo
1998 secondo la quale le
dichiarazioni del F. erano state fatte nell'ambito delle
sue funzioni di parlamentare.
La sentenza civile venne appellata
dal D.J. .
La sentenza della Corte di
Strasburgo, che ha constatato la violazione dell'art.6
par. 1 Conv. ed ha accordato al D.J. una somma a titolo
di equa soddisfazione, è intervenuta mentre il giudizio
civile non era ancora definito, perché la sentenza di
primo grado venne appellata e prima della decisione
della Corte di appello di Roma, oggi soggetta a ricorso,
che è del 16 maggio 2005.
La cadenza temporale della vicenda
ne evidenzia fin d'ora la peculiarità, nel senso che la
decisione della Corte di Strasburgo è intervenuta
allorché la controversia civilistica non aveva ancora
avuto una decisione definitiva.
6.2. In tale sentenza la Corte in
essa ha avuto modo di puntualizzare:
a) il " rifiuto della Corte di
Cassazione di sollevare conflitto di attribuzione ha
impedito alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla
compatibilità tra la delibera del Senato e le
attribuzioni della magistratura" (par.56, in
motivazione);
b) l'art. 68 Cost. non viola
affatto alcuno dei diritti fondamentali della
Convenzione in quanto persegue dei fini legittimi,
ovvero la protezione del libero dibattito parlamentare e
il mantenimento della separazione dei poteri legislativo
e giudiziario (par. 49 in motivazione);
c) l'art.68 Cost., però, nella
fattispecie non gioca alcun ruolo in quanto le
dichiarazioni asseritamente diffamatorie del F. nei
confronti del D.J. non sono connesse alla funzione di
parlamentare del F. , ma rientrano in una vicenda tra
privati cittadini, stante l'assenza di un legame
evidente con l'attività di parlamentare da parte del F.
(par. 53, in motivazione).
In altri termini, dalla sentenza di
Strasburgo deriva sostanzialmente l'effetto di giudicato
soltanto sul punto, peraltro, ritenuto rilevante dai
giudici del merito, della stessa causa petendi, oggetto
della azione giudiziaria interna non ancora definita,
circa la mancata operatività anche nel giudizio civile
dell'art. 68 Cost., non essendo stato rinvenuto dai
Giudici di Strasburgo il rispetto del giusto equilibrio
che deve esistere nella materia tra le esigenze
dell'interesse generale della comunità e gli imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell'individuo (par.55, in motivazione).
Se ne deve dedurre che la sentenza
della CEDU ha definitivamente statuito, seppure nel
corso dello svolgimento del giudizio (ed è questa la
peculiarità del caso in esame), circa la non
operatività, dell'art. 68 Cost., con l'effetto che
questa Corte non può ignorare la statuizione, essendo
chiamata a decidere proprio sulla stessa questione.
Queste considerazioni, oltre che
essere in linea con quanto detto a proposito della
precettività delle norme convenzionali e alla
giurisprudenza di questa Corte per l'innanzi richiamata,
trovano eco in quella parte della dottrina, secondo la
quale, in virtù della copertura che l'art. 2 Cost.
avrebbe dato ed offrirebbe alla Convenzione Europea
nella sua integrità, la sentenza Europea non può non
essere efficacia nel sistema interno, trattandosi di
statuizione dal valore di giudicato formale per il
processo interno.
6.3. Infatti, principio
fondamentale della Convenzione è quello della
solidarietà, vincolante per lo Stato e, quindi, per i
suoi organi in virtù dell'obbligo di rispetto dei
diritti dell'uomo quali essi concretamente si
dispiegano.
Di vero, la Corte di Strasburgo,
nel dichiarare la violazione da parte dello Stato di uno
dei diritti di cui alla Convenzione, precisa il
contenuto del diritto individuale e connota il principio
generale, che identifica tale contenuto dal carattere
vincolante per tutti i sistemi giuridici aderenti al
Consiglio d'Europa.
Infatti, il principio della
solidarietà, che deve essere letto in riferimento
all'art. 1 della Convenzione ed alla acquisita coscienza
della precettività delle norme convenzionali
nell'esegesi fattane dalla Corte Europea (arg. ex art. 6
par.2 TUE e 1 della c.d. Carta di Nizza), importa che la
interpretazione della stessa Corte, una volta divenuta
definitiva, non debba rimanere senza effetto nell'ambito
interno.
E non vi è dubbio che tutta la
Convenzione si muove nel rispetto di una sovranità
statale da esercitare però sempre e nei limiti
inderogabili del riconoscimento non solo teorico, ma
concreto dei diritti fondamentali, atteso il valore
assiologico della dignità della persona, anche quando lo
Stato nella sua Costituzione ne proclama la
inviolabilità.
Il che, per quanto possa valere,
sembra ribadito dalla Risoluzione n. 2010/83 del
Comitato dei Ministri sull'art.46 par.2 CEDU ed in
particolare lett. B n.4 b)., emessa alla fine della
Conferenza di Interlaken del 19 febbraio 2010.
Nella specie, la statuizione della
Corte di Strasburgo, che è intervenuta mentre il
giudizio era ancora in corso dopo la fase di primo
grado, si è concretata nell'affermare che il denunciato
fatto diffamatorio, riguardando esso un rapporto
intercorso come tra privati cittadini ed estraneo quindi
alla funzione parlamentare, costituiva l'oggetto di
controversia per la quale non poteva intervenire la
copertura nell'art.68 della Costituzione.
6.4. Pertanto, stante l'obbligo per
il giudice interno di non contraddire la statuizione
contenuta nella sentenza della Corte Europea, laddove
essa riguarda, come nella specie, la stessa causa
petendi azionata avanti al giudice interno, la sentenza
impugnata in parte qua va emendata, con l'effetto che,
non dovendo tenersi più in conto l'operatività
dell'art.68 Cost., questa Corte è chiamata ad esaminare
la sentenza impugnata nella sua interezza e nella sua
correttezza nel decisum, oltre che nella motivazione.
Al riguardo, va posto in rilievo
che il D.J. ebbe ad appellare la sentenza del tribunale
deducendo due censure:
a) la prima sulla inapplicabilità
dell'art. 68 Cost.;
b) la seconda, per così dire, nel
merito, in quanto assumeva, contrariamente a quanto
argomentato dal tribunale, che le espressioni del F.
avevano natura diffamatoria nei suoi confronti e
superavano i limiti del diritto di critica politica.
Di vero, il giudice dell'appello ha
respinto l'appello, disconoscendo, richiamandosi a Cass.
n. 5664/03 (alla luce di quanto sopra detto in modo
errato), ogni valore alla decisione della Corte Europea.
Ciò posto in rilievo e, pur
dovendosi tener conto del giudicato formale formatosi in
sede Europea, perché strettamente collegato al caso in
esame, va rilevato, come appare dalla sentenza del
Tribunale civile. del 2002 e confermata dal giudice
dell'appello, che essa si fondava su due rationes
decidendi.
La prima concerneva la mancata
autorizzazione a procedere data la copertura
costituzionale dell'art.68, non più rilevante dopo
l'intervento della Corte di Strasburgo, la seconda ha
affrontato la condotta del F. quale privato cittadino.
Entrando, quindi, nel merito della
vicenda, esclusa ogni prerogativa del F. quale
parlamentare, il Tribunale ha concluso che il F. ha
esercitato un proprio diritto costituzionalmente
tutelato ed in capo ad ogni cittadino, (nonché, va
aggiunto, dall'art. 10 Conv.) ovvero il diritto di
critica politica rivolta non già alla sfera personale
del soggetto, bensì all'ambito politico di espressione
del soggetto criticato (il D.J. ), escludendo, quindi,
ogni elemento volitivo diffamatorio nei confronti di
quest'ultimo e la integrazione del reato di diffamazione
(p. 4-5 sentenza del Tribunale).
In altri termini, il giudice di
primo grado, la cui decisione è stata confermata in toto
in appello, ha, in un certo senso, pur senza conoscere
la sentenza Europea, anticipato quello che poi avrebbe
statuito la Corte di Strasburgo, ovvero che la vicenda
riguarda due cittadini privati e non già un politico
nell'esercizio della sua attività di parlamentare e un
candidato alle elezioni ed, entrando nel merito, ne ha
escluso la valenza diffamatoria.
Ed in merito a questa parte
motivazionale va rilevato che nel presente ricorso il
ricorrente si è limitato a censurare la sentenza di
appello circa il mancato riconoscimento in sede interna
della statuizione definitiva sulla non operatività
dell'art. 68 Cost., quale rinvenuta dalla Corte di
Strasburgo, ma non ha proposto alcuna doglianza sulla
omessa pronuncia da parte del giudice dell'appello sul
secondo motivo di gravame, attinente alla esclusione del
carattere diffamatorio delle espressioni "graffianti" -
riporta la sentenza del Tribunale - contenute nella
intervista del F. a (OMISSIS) .
è, inoltre, appena il caso di
aggiungere che se la sentenza della Corte Europea è,
nella specie, vincolante in ordine alla ritenuta non
operatività dell'art.68 Cost., non può vincolare il
giudice interno laddove in essa si considera obiter
dictum la esclusione della valenza diffamatoria delle
espressioni usate dal F. (v. sentenza della Corte
Europea, par. 46, in motivazione), esclusione che, come
detto, costituisce la seconda ratio decidendi della
sentenza di primo grado e su cui il D.J. aveva redatto
uno specifico motivo di appello non considerato dal
giudice di secondo grado.
Ne consegue che il ricorso va
respinto, dovendosi affermare conclusivamente che la
decisione definitiva della Corte dei diritti dell'uomo
ha effetti precettivi immediati assimilabili al
giudicato ed, in quanto tale, deve essere tenuta in
considerazione dall'organo dello Stato che, in ragione
della sua competenza, è al momento il destinatario
naturale dell'obbligo giuridico, derivante dall'art. 1
della Convenzione, di conformare e di non contraddire la
sua decisione al deliberato della Corte in relazione a
quella parte di esso, là dove ha acquistato autorità di
cosa giudicata in riferimento alla stessa quaestio
disputanda di cui continua ad occuparsi detto organo.
7. Ed, inoltre, va corretta quella
parte in motivazione dell'impugnata sentenza, laddove il
giudice dell'appello ha ritenuto che si sarebbe formato
il giudicato in ordine alla sentenza del Tribunale
penale emessa ex art.12 9 cod. proc. pen., ovvero come
sentenza di proscioglimento, anticipatoria di
dibattimento.
Infatti, a tale sentenza non si
applica l'art.654 cod. proc. pen., come correttamente
aveva rilevato il giudice di primo grado, secondo la
decisione di Cass. S.U. n. 674/10.
Tenuto conto della peculiarità
delle questioni trattate, ritiene il Collegio che
sussistano giusti motivi per compensare tra le parti
integralmente le spese del presente giudizio di
cassazione.
In caso di pubblicazione il
Collegio dispone che vengano oscurati i dati personali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e
compensa integralmente tra le parti le spese del
presente giudizio di cassazione.
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