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Una pronuncia gravida di principi
giuridici quella depositata il 2 agosto 2011 dai Giudici
della seconda sezione civile della Cassazione.
La Corte era chiamata ad esprimersi
sulla proprietà di una cantina, a seguito di vicende
connesse a successione ereditaria e di un complesso e
contraddittorio procedimento in primo e secondo grado,
che vedeva fratelli contestarsi vicendevolmente la
proprietà della cantina medesima, gli uni sostenendo che
la stessa fosse una pertinenza del solo appartamento al
piano rialzato (che era quello originario), gli altri
sostenendo che la cantina fosse asservita all’intero
edificio e, quindi, anche all’appartamento al primo
piano, di loro proprietà, costruito in un secondo
momento. La Corte precisa, in tema di pertinenze, che
“La destinazione a pertinenza di una cosa considerata
accessoria rispetto ad altra considerata principale può
derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale
dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione
operata dal proprietario di quest’ultima. Per converso,
la specifica esclusione dei rapporto pertinenziale tra
due porzioni immobiliari ad opera dell’originario
proprietario di entrambe non consente di affermare la
sussistenza del vincolo pertinenziale pur ove possa
apparire ragionevole l’utilità di quella accessoria
rispetto alla principale” (v. Cass., sent. n.
14350/2000). “Ai sensi del plesso normativo costituito
dagli artt. 817 e 819 c.c.” – prosegue la Corte – “la
volontà di destinare in modo durevole una cosa al
servizio o ad ornamento di un’altra, così come quella di
far cessare il rapporto pertinenziale già costituito,
non necessita di forme particolari o solenni, ma può
essere desunta da qualsiasi elemento ritenuto idoneo a
tal fine dal giudice di merito, il cui accertamento non
è sindacabile in sede di legittimità se espresso con
motivazione adeguata e immune da vizi logici” (cfr., al
riguardo, Cass., sent. nn. 11437/2010, n. 26946/2006).
Correttamente avrebbe pertanto
giudicato la Corte d’Appello di Milano, negando che, nel
caso de quo, la cantina fosse di pertinenza dell’intero
edificio, poiché le evidenze istruttorie denunciavano
come la cantina fosse sempre stata posta in rapporto
pertinenziale con il solo appartamento originario e che
tale assetto non era stato mai modificato.
Infondata sarebbe anche la pretesa
di considerare la cantina quale parte comune del
condominio, poiché il diritto “sulle parti comuni
dell’edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali
parti siano necessarie per l’esistenza dell’edificio
stesso, ovvero che siano permanentemente destinate
all’uso o al godimento comune, sicché la presunzione di
comproprietà posta dall’art. 1117 c.c., che contiene
un’elencazione non tassativa, ma meramente
esemplificativa dei beni da considerare oggetto di
comunione, può essere superata se la cosa, per obiettive
caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo
all’uso o al godimento di una parte dell’immobile,
venendo meno, in questi casi, il presupposto per il
riconoscimento di una con titolarità necessaria, giacché
la destinazione particolare del bene prevale
sull’attribuzione legale” (Cass. sent. nn. 17033/2010,
1787/2007).
La Corte ha ritenuto corretto il
giudizio nel merito che negava il riconoscimento della
cantina quale parte comune dell’edificio, proprio per la
anzidetta natura pertinenziale della stessa con il solo
appartamento del piano rialzato.
Infine, poiché il proprietario
dell’appartamento del primo piano eccepiva che la
proprietà sarebbe stata acquisita per usucapione, avendo
avuto il compossesso della cantina oggetto del
contendere, la Corte d’Appello di Milano affermava che
il possesso del bene descritto non si presentava come
“esclusivo” e non era perciò idoneo, neppure in
astratto, ai fini dell’usucapione.
Sul punto la Suprema Corte cassava
la sentenza d’appello, chiarendo che su un immobile di
proprietà esclusiva ben può crearsi una situazione di
compossesso pro indiviso tra dominus e terzo, con il
conseguente possibile acquisto della comproprietà pro
indiviso dello stesso bene, nella misura pari alla
“quota” di compossesso esercitato. La situazione di
compossesso – aggiunge la Cassazione – non esige
l’esclusione del possesso del dominus, “né richiede che
il compossessore effettivo ignori l’esistenza del
diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad
escludere l’animus possidendi che sorregge i
comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il
quale abbia usato della cosa uti condominius” (Cass.
sent. nn. 21425/2004, 13082/2002).
Non cede ad ambiguità lessicali la
Cassazione laddove, conclusivamente, afferma che “La
decisione impugnata si fonda, dunque, in parte qua, su
di un errato presupposto giuridico, quello secondo il
quale il possesso non esclusivo del bene sarebbe
inidoneo ai fini dell’usucapione”.
Annalisa Gasparre
Cassazione Civile, Sez. II, 02
Agosto 2011, n. 16914 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. - C.M.
e Jo. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di
omissis, sez. distaccata di omissis, il fratello C. I.,
per sentir accertare e dichiarare la propria esclusiva
proprietà della cantina ubicata al piano seminterrato
del fabbricato sito in omissis, e l'inesistenza del
diritto di comproprietà vantato dal C. sulla medesima
cantina, nonchè per sentirlo condannare al rilascio del
locale e al risarcimento dei danni. A sostegno della
domanda proposta, esposero di essere divenute
comproprietarie esclusive del vano cantina a seguito di
una serie di atti di disposizione dei propri genitori,
evidenziando, in particolare, che questi ultimi,
acquistato il terreno con atto del 4 ottobre 1957, vi
avevano costruito un appartamento, posto al piano
rialzato, ed un locale cantina, da adibire ad abitazione
familiare, completandolo, dopo alcuni anni, con la
realizzazione di un primo piano, comprendente due
piccoli appartamenti, e di un solaio, pertinenza degli
stessi. Con atto del 16 dicembre 1971, gli stessi
avevano trasferito al figlio I. e ad M.A.,
riservandosene l'usufrutto, la nuda proprietà dei due
appartamenti del primo piano e del sottotetto o lastrico
solare. Con testamento del 10 maggio 1979, la madre,
signora B.B., aveva disposto della propria quota di
comproprietà dell'appartamento posto al piano terreno,
lasciandolo alle figlie in parti uguali, e della propria
quota di comproprietà del box posto allo stesso piano,
lasciandolo ai figli I. e L., in parti uguali; a seguito
del decesso della madre era stata devoluta alle attrici
la quota di metà dell'appartamento con annesso un vano
cantina al piano seminterrato. Successivamente, il
padre, C.A., aveva dapprima disposto dei propri beni con
testamento pubblico del 9 dicembre 1982, lasciando alle
figlie Jo. e M. la restante quota di comproprietà
dell'appartamento posto al piano terreno nonchè del box
e del vano cantina. Quindi, con testamento pubblico del
14 maggio 1996, revocando ogni precedente disposizione
testamentaria, lo stesso aveva legato alle figlie tutti
i diritti da lui vantati sulla cantina. C.I., di fronte
alle richieste di rilasciare libera la cantina, aveva
contestato il diritto delle sorelle. Il convenuto,
costituitosi in giudizio, dedusse di essere divenuto
legittimo proprietario o comproprietario della cantina,
a seguito dell'acquisto, insieme alla moglie M.A., della
nuda proprietà del primo piano e del sottotetto, poi
consolidatasi alla morte dei genitori, avendo
acquistato, con tale atto, anche la proprietà delle
pertinenze e della quota di comproprietà delle parti e
spazi comuni dell'edificio. La cantina, infatti, era da
considerare una pertinenza dell'edificio, in base al
disposto dell'art. 817 c.c., ed avendo il dante causa
destinato la cantina a servizio dell'intero fabbricato.
In subordine, il convenuto eccepì di aver acquistato la
proprietà del bene per effetto di usucapione, ed, in
linea ulteriormente subordinata, di aver acquistato la
comproprietà della cantina per successione dai genitori,
almeno quanto alla quota di successione della madre, che
non aveva disposto dei propri diritti sulla cantina. 2.
- Con sentenza depositata l'8 giugno 2001, il Tribunale
di omissis, sez. distaccata di omissis, rigettò le
domande attoree, dichiarando interamente compensate tra
le parti le spese della lite. Avverso detta sentenza
proposero appello C.M. e Jo.. Il convenuto,
costituitosi, chiese il rigetto del gravarne proponendo
anche appello incidentale sulla decisione nella parte
relativa alle spese del giudizio. 3. - La Corte
d'appello di omissis, con sentenza depositata il 6
ottobre 2004, in parziale riforma della decisione
impugnata, premesso che, sulla base degli atti, si
doveva giungere alla conclusione che la cantina in
questione era stata sempre in rapporto pertinenziale con
il solo appartamento posto al piano terreno
dell'edificio già abitato dai genitori delle parti, e
che la successiva edificazione del primo piano e del
solaio non aveva comportato la instaurazione del
rapporto pertinenziale anche tra la cantina e i due
nuovi appartamenti realizzati, dichiarò che C.M. e Jo.
erano proprietarie esclusive, in comproprietà tra loro,
della cantina in questione, affermando l'inesistenza del
diritto di comproprietà vantato su tale bene dal
convenuto; rilevando, altresì, quanto
alla eccezione di usucapione di
tale diritto, la contraddittorietà di una simile
prospettazione rispetto all'affermata destinazione del
bene al servizio dell'intero fabbricato, ed osservando
che le prove orali richieste a tale scopo tendevano a
fornire la prova di un possesso del bene comunque non
esclusivo, inidoneo, pertanto, ai fini dell'usucapione.
L'appello incidentale fu dichiarato assorbito, e il C.
condannato a rilasciare la cantina, e dichiarando
assorbito l'appello incidentale. 4. - Per la cassazione
di tale sentenza ricorre il C. sulla base di tre motivi,
illustrati anche da successiva memoria. Resistono con
controricorso C.M. e Jo.. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. -
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta violazione
e/o falsa applicazione delle norme e dei principi in
materia di pertinenza, con particolare riferimento agli
artt. 817, 818 e 819 c.c.; omessa, insufficiente e/o
contraddittoria motivazione su di un punto decisivo
della controversia; mancata ammissione dei mezzi di
prova. La Corte di merito avrebbe errato nel ritenere
che il vano cantina fosse in rapporto pertinenziale con
il solo appartamento del piano terreno e non anche con
l'intero edificio, composto, oltre che dal piano
terreno, anche da un primo piano e da un sottotetto o
solaio, nonostante la cantina fosse stata utilizzata da
tutti gli abitanti e proprietari del fabbricato.
Entrambi i presupposti della instaurazione del vincolo
pertinenziale - idoneità del bene a svolgere la funzione
di servizio od ornamento rispetto ad altro ponendosi in
collegamento funzionale con questo, con coincidenza in
capo ad un unico soggetto del potere di disporre sia del
bene con vocazione servente che di quello principale, ed
elemento soggettivo rispondente alla effettiva volontà
dell'avente diritto di destinare durevolmente il bene
accessorio a servizio od ornamento del bene principale -
sarebbero, secondo il ricorrente, elementi costitutivi
ed identificativi della vicenda in questione. Infatti,
l'intento di C.A. e B.B., nel momento in cui avevano
acquistato l'area nuda e avevano cominciato ad
edificare, era quella di realizzare un fabbricato per
soddisfare tutte le esigenze della famiglia, destinando
le parti. dell'edificio con naturale vocazione servente
(cantina e solaio) al servizio dell'intero fabbricato.
L'incontestato uso della cantina da parte di tutti i
familiari abitanti nell'edificio avrebbe confermato la
volontà dei proprietari di destinare anche la cantina al
servizio dell'intero fabbricato. La Corte di merito
avrebbe altresì omesso l'esame dei documenti in atti e
l'ammissione delle prove richieste dall'attuale
ricorrente per fornire la prova della destinazione della
cantina quale pertinenza dell'intero fabbricato. 2.1. -
La censura è destituita di fondamento. 2.2. - La
destinazione a pertinenza di una cosa considerata
accessoria rispetto ad altra considerata principale può
derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale
dell'una al servizio dell'altra o dalla destinazione
operata dal proprietario di quest'ultima. Per converso,
la specifica esclusione del rapporto pertinenziale tra
due porzioni immobiliari ad opera dell'originario
proprietario di entrambe non consente di affermare la
sussistenza del vincolo pertinenziale pur ove possa
apparire ragionevole l'utilità di quella accessoria
rispetto alla principale (v. Cass., sent. n. 14350 del
2000). Ai sensi del plesso normativo costituito dagli
artt. 817 e 819 c.c., la volontà di destinare in modo
durevole una cosa al servizio o ad ornamento di
un'altra, così come quella di far cessare il rapporto
pertinenziale già costituito, non necessita di forme
particolari o solenni, ma può essere desunta da
qualsiasi elemento ritenuto idoneo a tal fine dal
giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile
in sede di legittimità, se espresso con motivazione
adeguata ed immune da vizi logici (cfr., al riguardo,
Cass., sentt. n. 11437 del 2010, n. 26946 del 2006).
2.3. - Nella specie, la Corte di merito ha espresso il
convincimento, argomentato in modo articolato e
plausibile, che la cantina in questione sia stata sempre
in rapporto pertinenziale con il solo appartamento posto
al piano terreno dell'edificio, già abitato dai genitori
delle parti, e che diverse circostanze, opportunamente e
correttamente valutate, non abbiano evidenziato la
volontà dei coniugi di non modificare l'originario
vincolo estendendolo all'intero edificio allorchè questo
era stato ampliato mediante la costruzione di un primo
piano e di un sottotetto o solaio. Ininfluente, rispetto
a tale decisione, rimarrebbe anche, secondo il corretto
e articolato iter argomentativo seguito dalla Corte di
merito, la eventuale dimostrazione che la cantina fosse
stata utilizzata, in vario modo, da tutti gli abitanti
dell'edificio, poichè la condotta o la volontà di
costoro,
che non erano proprietari
dell'edificio,non avrebbero potuto costituire un valido
vincolo pertinenziale tra la cantina e il loro immobile,
sovrapponendosi alla volontà manifestata dagli originari
proprietari della cantina e del piano terreno, i coniugi
C. e B.. 3. - Con il secondo motivo di ricorso, si
denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di
legge, con particolare riferimento all'art. 1117 c.c.;
mancata ammissione dei mezzi di prova. Avrebbe errato la
Corte territoriale nell'escludere che la cantina de qua
fosse oggetto di proprietà comune ai sensi dell'art.
1117 c.c., in quanto essa era stata utilizzata per il
riscaldamento centrale, essendo stata "ivi collocata la
caldaia per il riscaldamento a favore dell'intero
edificio, ed inoltre per la lavanderia, gli stenditoi ed
altri simili servizi in comune. Anche con riferimento a
tali circostanze la Corte avrebbe immotivatamente omesso
l'ammissione dei relativi mezzi di prova. 4.1. - La
doglianza è immeritevole di accoglimento. 4.2. - Come
già chiarito da questa Corte, il diritto di condominio
sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento
nel fatto che tali parti siano necessarie per
l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano
permanentemente destinate all'uso o al godimento comune,
sicchè la presunzione di comproprietà posta dall'art.
1117 c.c., che contiene un'elencazione non tassativa, ma
meramente esemplificativa dei beni da considerare
oggetto di comunione, può essere superata se la cosa,
per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in
modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte
dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il
presupposto per il riconoscimento di una contitolarità
necessaria, giacchè la destinazione particolare del bene
prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua
del titolo contrario (v. Cass., sentt. n. 17933 del
2010, n. 4787 del 2007). 4.3. - Di tale principio la
Corte ha fatto, nella specie, corretta applicazione
allorchè, con iter argomentativo che non presenta vizi
sotto il profilo logico nè giuridico, ed in coerenza con
quanto già ritenuto in ordine alla natura pertinenziale
della cantina a vantaggio del solo piano terreno
dell'edificio, ha giudicato infondata la pretesa
dell'appellato di ottenere il riconoscimento del suo
diritto di proprietà quale condomino, non essendo la
cantina parte comune dell'edificio, proprio per la
natura pertinenziale del vincolo testè richiamata, e non
ha valutato come sufficienti a dimostrare il contrario
le circostanze dedotte dall'attuale ricorrente sulla
presenza nella cantina in questione di una caldaia per
il riscaldamento e dei tubi dell'acqua, destinata a
favore dell'intero edificio. Tale conclusione la Corte
ha, quindi, plausibilmente ritenuto non poter essere
messa in discussione da fatti ulteriori. 5. - Con la
terza censura, si denuncia violazione e/o falsa
applicazione delle norme e dei principi in materia di
possesso e usucapione, e in particolare degli artt. 1140
e 1158 c.c.; omessa e/o insufficiente motivazione su di
un punto decisivo della controversia; mancata ammissione
dei mezzi di prova. Avrebbe errato la Corte di merito
nel rigettare la eccezione di usucapione formulata in
via subordinata dal ricorrente. La motivazione sul
punto, nella parte in cui afferma che il compossesso uti
condominus, siccome non esclusivo, sarebbe inidoneo ai
fini della usucapione del diritto di comproprietà,
contrasterebbe con i principi affermati dalla
giurisprudenza di legittimità in materia di possesso,
compossesso e usucapione. Avrebbe, pertanto, errato il
giudice di secondo grado nel non ammettere i mezzi di
prova richiesti dall'attuale ricorrente per dimostrare i
fatti rilevanti ai fini dell'usucapione. 6.1. - La
doglianza è fondata. 6.2. - Questa Corte ha già chiarito
che su di un immobile di proprietà esclusiva di un
soggetto può ben crearsi una situazione di compossesso
pro indiviso tra lo stesso soggetto proprietario ed un
terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte
di quest'ultimo, della comproprietà pro indiviso dello
stesso bene, una volta trascorso il tempo per
l'usucapione, nella misura corrispondente al possesso
esercitato. Nè tale situazione di compossesso, che
consiste nell'esercizio del comune potere di fatto sulla
cosa, in tota et in qualibet parte della stessa, da
parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso
del proprietario (che in tal caso si tratterebbe di
possesso esclusivo); nè richiede che il compossessore
effettivo ignori l'esistenza del diritto altrui, non
valendo la contraria eventualità ad escludere l'animus
possidendi che sorregge i comportamenti
effettivamente tenuti dal
possessore il quale abbia usato della cosa uti
condominus (v. Cass., sentt. n. 21425 del 2004, n. 13082
del 2002). 6.3. - La decisione impugnata si fonda,
dunque, in parte qua, su di un errato presupposto
giuridico, quello secondo il quale il possesso non
esclusivo del bene sarebbe inidoneo ai fini
dell'usucapione. 7. - Conclusivamente, rigettati il
primo ed il secondo motivo del ricorso, ne va accolto il
terzo. La sentenza impugnata va cassata in relazione a
tale motivo, e la causa rinviata ad un diverso giudice,
che si individua in altra sezione della Corte d'appello
di omissis - cui è demandato altresì il regolamento
delle spese del presente giudizio -, che riesaminerà la
questione adeguandosi al principio di diritto enunciato
sub 6.2. P.Q.M. La Corte rigetta il primo ed il secondo
motivo di ricorso, accoglie il terzo. Cassa la sentenza
in relazione ai motivo accolto, e rinvia, anche per le
spese del presente giudizio, ad altra sezione della
Corte d'appello di omissis. |