Faro della Cassazione sulla
distrazione dei beni aziendali da parte dei soci in
prossimità della dichiarazione di fallimento. A guidare
la decisione dei giudici sono le scritture contabili
dell’azienda e - chiariscono - per smantellarne
l’evidenza non è sufficiente la semplice testimonianza
contraria e neppure l’esibizioni di prove documentali,
se incerte. Seguendo questa direttrice, la Corte di
cassazione, sentenza 36125/2011, ha respinto il ricorso
di un imprenditore di Lucca condannato in primo grado e
poi in appello per bancarotta preferenziale per essersi
attribuito un rimborso di 18mila euro a seguito della
vendita di una Jaguar aziendale.
L’auto di lusso era stata
acquistata un anno e mezzo prima del fallimento, per
31mila euro, a spese del socio amministratore poi
condannato e figurava come un suo finanziamento
all’impresa. A pochi mesi dalla bancarotta però
l’imprenditore per paura di perderne la disponibilità,
l’aveva fatta alienare dalla società ad una persona di
sua conoscenza e poi aveva girato sul suo conto i 18mila
euro incassati in contanti dalla azienda, “come parte
del versamento eseguito quale finanziamento della
società”.
La Cassazione, dunque, ha bocciato
la tesi difensiva secondo cui l’auto sarebbe stata
acquistata da terzi e intestata fiduciariamente
all’azienda in vista di un interessamento del socio -
poi saltato - all’acquisto della maggioranza delle
quote.
Per la Suprema corte, infatti, le
testimonianze presentate dalla difesa, in assenza di una
valida prova documentale del pagamento effettuato dal
terzo, sono da considerarsi inaffidabili, mentre “le
scritture contabili, provenendo dallo stesso
imprenditore, quando dallo stesso formate e
ordinatamente tenute, fanno prova presuntiva semplice,
nei confronti dello stesso, in ordine alla veridicità di
quanto dalle stesse emergente”.
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