L’agire in violazione delle norme
interne dell'ente sulla esazione dei crediti non può
avere la conseguenza di elidere i presupposti del
peculato, che si verifica tanto se il pubblico ufficiale
o l'incaricato di pubblico servizio abbia la
disponibilità giuridica quanto semplicemente quella
materiale del denaro altrui. Il possesso di tale denaro
per ragioni di ufficio, presupposto dei delitto in
questione, si verifica sia se avvenga secondo le regole
che disciplinano i pagamenti all'ente sia se si realizzi
con violazione delle disposizioni organizzative
dell'ufficio al riguardo, potendo tale violazione
costituire un illecito disciplinare che si aggiunge al
peculato. E ciò perché è irrilevante per la consumazione
del reato contestato che l'appropriazione derivi da un
corretto e legittimo esercizio delle funzioni esercitate
da parte dell'agente o dall'esercizio di fatto e
arbitrario di tali funzioni; dovendosi escludere il
peculato solo quando il possesso sia meramente
occasionale, cioè dipendente da evento fortuito o legato
al caso; ma non può sussistere l'occasionalità quando
l'affidamento riposto dal privato nella qualifica
pubblica del soggetto ha favorito l'insorgere del
presupposto del reato.
Cassazione, sez. Feriale Penale, 14
settembre 2011, n. 34086
(Pres. Cassano – Rel. Fazio)
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 13 aprile 2011,
la corte di appello di Genova ha ribadito la
responsabilità di B.D., geometra dipendente dell'Area
Urbanistica del Comune di OMISSIS per il delitto di
peculato, affermata da quel Tribunale in relazione a 5
ipotesi, in cui egli si era appropriato del denaro
versato da cittadini per la definizione di pratiche
edilizie onerose, e per il delitto di truffa in altri
casi in cui l'appropriazione era relativa a somme in
realtà non dovute alla amministrazione, che con
l'inganno l'imputato aveva fatto credere tali agli
utenti. Ne confermava altresì la pena, negandone la
riduzione invocata.
2. Ricorre il difensore del B. e
deduce la erronea qualificazione dei fatti in peculato,
dato che l'imputato, per regolamento comunale e per
contratto, non poteva disporre del denaro pubblico,
sicché difettava il presupposto della appartenenza delle
somme versate alla PA ed i fatti commessi erano invece
da qualificare come truffa, avendo egli generato delle
modalità fraudolente che avevano consentito l'accesso
alla provvista. Il giudice di merito avrebbe confuso il
concetto di appartenenza con quello di appropriazione.
Inoltre era ingiustificata la negazione delle invocate
attenuanti generiche reputando quale elemento di
disvalore la contumacia, che è invece una delle facoltà
legittime dell'imputato.
Considerato in diritto
1. Il ricorso, manifestamente
infondato, è da dichiarare inammissibile, con le
consequenziali statuizioni in tema di spese processuali
ed ammenda in favore della cassa.
2. In ordine al primo motivo, la
tesi secondo cui la sua attività illecita si svolgeva al
di fuori della normativa che disciplina l'esazione dei
crediti dell'ente, la quale potrebbe essere svolta solo
dai cassieri, è del tutto priva di fondamento e basata
su un equivoco di fondo.
3. La sentenza impugnata afferma
che il B. incassava denari provenienti dagli utenti i
quali gli versavano somme che erano necessarie per la
definizione di pratiche edilizie, secondo importi che
erano comunque dovuti all'ente comunale; per tali
pratiche, il ricorrente intascava denaro spettante alla
PA ed ad essa appartenente, comportandosi di fatto quale
soggetto legittimato a ricevere il pagamento.
4. È da osservare che l'eventuale
agire in violazione delle norme interne dell'ente sulla
esazione dei crediti non può avere la conseguenza di
elidere i presupposti del peculato, che si verifica
tanto se il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio abbia la disponibilità giuridica
quanto semplicemente quella materiale del denaro altrui.
Il possesso di tale denaro per ragioni di ufficio,
presupposto dei delitto in questione, si verifica sia se
avvenga secondo le regole che disciplinano i pagamenti
all'ente sia se si realizzi con violazione delle
disposizioni organizzative dell'ufficio al riguardo,
potendo tale violazione costituire un illecito
disciplinare che si aggiunge al peculato. E ciò perché è
irrilevante per la consumazione del reato contestato che
l'appropriazione derivi da un corretto e legittimo
esercizio delle funzioni esercitate da parte dell'agente
o dall'esercizio di fatto e arbitrario di tali funzioni;
dovendosi escludere il peculato solo quando il possesso
sia meramente occasionale, cioè dipendente da evento
fortuito o legato al caso; ma non può sussistere
l'occasionalità quando l'affidamento riposto dal privato
nella qualifica pubblica del soggetto ha favorito
l'insorgere del presupposto del reato.
5. Come è evidente il comportamento
tenuto integra a pieno il delitto di peculato, anche dal
profilo della appartenenza del denaro alla PA, che il
ricorrente contesta poiché ritiene sia frutto della sua
abilità truffaldina, in quanto, nel caso delle esazioni
riscosse in relazioni a prestazioni che i privati
comunque dovevano effettuare, le somme già appartenevano
alla PA a nulla rilevando le modalità di riscossione e
la eventuale irritualità dei mezzi di pagamento, anche
in contrasto con disposizioni ed assetti organizzativi
dell'ufficio, e la circostanza che il pubblico ufficiale
sia entrato nel possesso del bene nel rispetto o meno
delle competenze che il mansionario interno prevede. (p.
Sez. 6, Sentenza n. 26081 del 28/04/2004 Conformi: N.
405 del 1994 Rv. 198499, N. 11505 del 1997 Rv. 209477,
N. 11417 del 2003 Rv. 224051, Sez. 6, Sentenza n. 20952
del 13/05/2009).
6. Quanto esposto esclude dunque
che tutto il denaro percepito dal B. sia ricollegabile
al delitto di truffa, dato che in punto di fatto è
pacifico che per alcuni esazioni esso era effettivamente
dovuto dai cittadini e pertanto nel momento in cui il
ricorrente se ne è appropriato esso era già entrato
"secondo norma" nel patrimonio dell'ente. Dunque il
possesso del denaro da parte del ricorrente non era
conseguenza di una truffa, ma si ricollegava
direttamente all'illecito storno di somme da esigere per
conto della PA.
7. Parimenti inammissibile è il
motivo con cui il ricorrente si duole del diniego delle
generiche, che la corte ha adeguatamente motivato in
considerazione della gravità della sua condotta, della
diffusione della stessa nel territorio, sulla sua
negativa personalità, con argomentazioni che non
manifestano né insufficienza né illogicità e pertanto
non sono censurabili in questa sede.
8. Il ricorrente è da condannare al
pagamento delle spese processuali ed a versare una
somma, che si reputa equo determinare in Euro mille, a
favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di Euro mille in favore della
cassa delle ammende.
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