– Donatella CHICCO
_
La Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 37402/2011 depositata il 17 ottobre, ha
affrontato la fattispecie contemplata dall’art. 322, II
comma, c.p., in tema di istigazione alla corruzione,
norma che completa l’articolato sistema dei reati di
corruzione disciplinati agli artt. 318-321 c.p.
Il problema della corruzione ha
caratterizzato e caratterizza tutt’oggi la società a
vari livelli, in tutti i paesi ed in ogni periodo
storico. Nell’ordinamento italiano, in particolare, la
corruzione genera un vero e proprio mercato illegale
parallelo, operante a più livelli e coinvolgente i
centri di potere decisionale ed i vertici politici; il
fenomeno è territorialmente diffuso, saldamente inserito
in varie attività ed operante anche sul piano
finanziario il che significa che esiste una precisa
capacità di organizzare meccanismi ad hoc per la
gestione dei proventi.
In linea di principio e in via di
prima approssimazione, la corruzione si verifica qualora
le persone preposte a determinati incarichi si avvalgano
della propria posizione per procurarsi vantaggi di
natura personale, non necessariamente consistenti in
compensi monetari. Il reato de quo prevede che “Chiunque
offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad
un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico
servizio che riveste la qualità di pubblico impiegato,
per indurlo a compiere un atto del suo ufficio,
soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia
accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'art.
318 c.p., ridotta di un terzo”.
In particolare, il secondo comma,
recita: “Se l'offerta o la promessa è fatta per indurre
un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico
servizio a omettere o a ritardare un atto del suo
ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri,
il colpevole soggiace, qualora l'offerta o la promessa
non sia accettata, alla pena stabilita nell'art. 319
c.p., ridotta di un terzo”.
Nel caso di specie, l’imputato,
fermato dalla Polizia Stradale per un controllo di
routine, veniva trovato con la revisione della patente
falsificata. Accertata tale infrazione e nelle more di
comminare la sanzione prevista, il conducente,
probabilmente in preda ad uno stato emotivo
confusionale, si rivolgeva ai due pubblici ufficiali
dicendo «vi do quello che volete, se mi lasciate
andare».
Il giovane automobilista, con tale
ardita affermazione, sperava di convincere i due
poliziotti a non procedere o a omettere gli atti
derivanti dall’accertamento eseguito, offrendo,
presumibilmente, del denaro per evitare le “spiacevoli”
conseguenze della sua condotta.
Conseguenze si spiacevoli, ma anche
inevitabili. Tale frase, infatti, se rivolta a pubblici
ufficiali in servizio e, tra l’altro, in flagranza di
reato, anche se manca un’offerta determinata e ben
precisa di denaro, integra il reato di istigazione alla
corruzione.
Esaminando ora i tratti salienti
della fattispecie in esame, il bene giuridico protetto
s’identifica con l’imparzialità e il buon andamento
della P.A., valori che trovano il loro fondamento
giuridico nei principi sanciti dalla stessa
Costituzione: secondo l’art. 97 Cost., infatti, l’agere
amministrativo deve essere permeato dall’imparzialità e
dal buon andamento, ispirando l’attività dello Stato e
che, pertanto, vengono inevitabilmente compromessi
quando il pubblico ufficiale non adempie al suo dovere.
Per quanto concerne la condotta
incriminata, questa consta nell’ “omettere” o nel
“ritardare” un atto d’ufficio, inteso come ogni condotta
del p.u. posta in essere nello svolgimento delle sue
mansioni, individuata o individuabile: provvedimenti,
atti dovuti, proposte, richieste, pareri, operazioni,
comportamenti materiali, silenzio, atti di governo, atti
di diritto privato, condotte connesse con altre con le
quali formano un quid che per il diritto amministrativo
è atto unico.
La contrarietà ai doveri d’ufficio
consiste nella violazione del dovere generico o
specifico che incombe sul pubblico agente e che ha fonte
nella legge, nei regolamenti, nelle istruzioni del capo
dell’ufficio e nella consuetudine; con riferimento,
invece, all’elemento oggettivo del reato, malgrado
quanto ritenuto da una parte della dottrina (Antolisei)
secondo cui la norma in oggetto ricomprende anche
condotte che, ove da essa non previste, sarebbero
penalmente irrilevanti ai sensi dell’art. 115 c.p.
(rubricato “Accordo per commettere un reato.
Istigazione”), il reato in esame non ha nulla a che fare
con l’istigazione alla corruzione prevista dalla norma
sopra citata: secondo alcuni, si tratterebbe di
un’ipotesi di tentativo elevato a figura autonoma di
reato (Pagliaro); orientamento condiviso anche dalla
giurisprudenza prevalente (Cass.pen., sez. VI,
30.10.1997).
Altri, al contrario, partendo dal
presupposto della necessaria plurisoggettività della
fattispecie di corruzione, ritengono sia possibile che
il tentativo sia integrato dalla condotta di uno solo
dei soggetti attivi, e pertanto considerano
l’istigazione alla corruzione un’ipotesi autonoma di
reato (Segreto – De Luca).
Già condannato nei primi due gradi
di giudizio, nel ricorso per cassazione viene dedotto
che l'offerta di denaro era avvenuta in termini talmente
vaghi da non poter integrare la materialità del reato
contestato. L’offerta deve essere, in ogni caso, seria
ed idonea ad indurre il pubblico ufficiale a porre in
essere la propria controprestazione: tale idoneità va
valutata quindi in un giudizio c.d. ex ante, tenendo
conto dell’entità del compenso, della qualità del
destinatario e della natura dell’atto che l’extraneus
mira ad ottenere.
Parte della dottrina ritiene, poi,
che l’offerta sia percepita dal destinatario, mentre
secondo altri ad integrare il reato è sufficiente la
condotta in sé, indipendentemente dalla sua percezione
da parte del pubblico ufficiale.
Alla luce di quanto fin qui
esposto, gli Ermellini convengono che l'offerta espressa
in termini vaghi rimette ai destinatari la
quantificazione dell'offerta. La Suprema Corte
sottolinea che l'offerta è generica e indeterminata nel
contenuto, ma questo significa solo che il ricorrente ha
rimesso agli stessi pubblici ufficiali la determinazione
dell'oggetto dell'offerta, spingendo i destinatari a
quantificare la somma che intendono ricevere «quale
corrispettivo del mancato compimento dell'atto del
proprio ufficio, avviando così la contrattazione
illecita tipica della fattispecie corruttiva». Pertanto
il ricorso viene rigettato.
A parere di chi scrive, in un più
ampio disegno di moralizzazione e miglioramento
strutturale e funzionale della pubblica amministrazione,
responsabilizzazione dei soggetti giuridici, contrasto
della criminalità organizzata e della sua infiltrazione
all’interno dell’amministrazione, non si può non
condividere tale orientamento. (d.c. Non è, invero,
qualificabile come intrinsecamente e originariamente
inidonea a integrare il reato contestato, perché
astratta, in quanto generica e indeterminata nel
contenuto, l'offerta in cui la determinazione
dell'oggetto sia rimessa allo stesso pubblico ufficiale
che si intende corrompere. Tale offerta, infatti, è
concretamente diretta a spingere il destinatario a
quantificare lui stesso la somma che intende ricevere
quale corrispettivo del mancato compimento dell'atto del
proprio ufficio, avviando così la contrattazione
illecita tipica della fattispecie corruttiva (cfr. in
fattispecie analoga Cass. n. 23018 del 23.01.2004,
Caiola). Rientra, quindi, senza dubbio nello schema
descritto l'offerta avanzata dall'autore al pubblico
ufficiale nei termini di cui al caso in esame (''vi dò
quello che volete").
Corte di Cassazione, sez. VI
Penale, sentenza 13– 17 ottobre 2011, n. 37402
Presidente De Roberto – Relatore
Cortese
Fatto
Con sentenza del 03.10.2006 il
Tribunale di Arezzo dichiarava l. S. colpevole, fra
l'altro, del reato previsto dall'art. 322, comma 2,
c.p., per aver offerto denaro al Sovrintendente L. D.A.
e all'Assistente M. M., in servizio presso la Polizia
Stradale, i quali, nel corso di un controllo avevano
verificato la falsità dell'attestazione dell'avvenuta
revisione dell'autovettura condotta dal S., al fine di
indurli ad omettere gli atti conseguenti a detto
accertamento.
Su appello dell'imputato, la Corte
d'appello di Firenze con sentenza del 13.01.2010
confermava in parte qua la pronuncia di primo grado.
Propone ricorso il prevenuto a mezzo del difensore,
deducendo che l'offerta di denaro era avvenuta in
termini così vaghi (“vi dò quello che volete, se mi
lasciate andare”) da non poter integrare la materialità
del reato contestato.
Diritto
Il ricorso è infondato.
Non è, invero, qualificabile come
intrinsecamente e originariamente inidonea a integrare
il reato contestato, perché astratta, in quanto generica
e indeterminata nel contenuto, l'offerta in cui la
determinazione dell'oggetto sia rimessa allo stesso
pubblico ufficiale che si intende corrompere. Tale
offerta, infatti, è concretamente diretta a spingere il
destinatario a quantificare lui stesso la somma che
intende ricevere quale corrispettivo del mancato
compimento dell'atto del proprio ufficio, avviando così
la contrattazione illecita tipica della fattispecie
corruttiva (cfr. in fattispecie analoga Cass. n. 23018
del 23.01.2004, Caiola). Rientra, quindi, senza dubbio
nello schema descritto l'offerta avanzata dall'autore al
pubblico ufficiale nei termini di cui al caso in esame
(''vi dò quello che volete").
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. |