L'art. 2947, coordinato con gli
artt. 2059 e 2935 c.c., va interpretato nel senso che il
termine di prescrizione del diritto al risarcimento del
danno morale da diffamazione (commessa, nell'ipotesi, a
mezzo di corrispondenza epistolare) inizia a decorrere
non dal momento in cui l'agente compie il fatto
illecito, ma dal momento in cui la parte lesa ne viene a
conoscenza
Cassazione, sez. III, 7 ottobre
2011, n. 20609
(Pres. Amatucci – Rel. Giacalone)
In fatto e in diritto
1. S..P. propone ricorso per
cassazione, sulla base di tre motivi, avverso la
sentenza della Corte d'Appello di Milano, depositata il
7 maggio 2008, che - in relazione a controversia
promossa per il risarcimento dei danni da diffamazione a
mezzo di una lettera inviata da A.P..R. alla Prefettura
di Pavia - ha confermato la sentenza di primo grado, la
quale aveva ritenuto prescritto il diritto
all'indennizzo, osservando che: a. nella diffamazione,
l'illecito istantaneo si perfeziona ed il danno alla
reputazione si verifica nel momento in cui la
comunicazione lesiva dell'altrui reputazione raggiunga
un secondo soggetto, in tale momento sorgendo sia il
diritto di querela per il reato che quello al
risarcimento dei danni per l'illecito civile, sicché il
Tribunale aveva correttamente individuato il dies a quo
della prescrizione del diritto al risarcimento in quello
in cui la lettera del R., già lasciata in copia presso
lo studio del geom. C. era pervenuta alla Prefettura
(21.12.1993), restando irrilevante l'eventuale ulteriore
propalazione della comunicazione diffamatoria; né
assumeva rilievo che il P. ignorasse l'esistenza della
lettera, posto che il danno alla reputazione, anche se
da lui non conosciuto, si era già prodotto; b, né poteva
trovare applicazione l'art. 2947, terzo comma, c.c., ed
assumere rilievo la data di morte del R., posto che il
termine quinquennale per l'esercizio del diritto al
risarcimento si era già consumato all'atto della
proposizione della denuncia querela e del conseguente
avvio dell'azione penale, né essi avrebbero potuto
rimettere in termini il danneggiato facendo decorrere un
nuovo periodo di prescrizione. Gli eredi del R.
resistono con controricorso, chiedendo il rigetto del
ricorso.
2. Col primo motivo, il ricorrente
lamenta violazione degli artt. 2935 e 2724 c.c., per
avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che,
ai fini dell'impossibilità dell'esercizio del diritto al
risarcimento, rilevino solo le cause giuridiche che
l'ostacolino, non gli impedimenti di mero fatto e, in
genere, quelli relativi alla sfera soggettiva del
titolare del diritto, senza tenere conto che avrebbe
dovuto assumere, invece, rilievo il momento in cui la
produzione del danno si fosse manifestata all'esterno
divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile.
Chiede alla Corte se "in caso di diritto al risarcimento
del danno da fatto illecito altrui deve ritenersi
indispensabile, ai fini della prescrizione quinquennale,
che il danneggiato venga posto in condizione di
conoscere e percepire l'esistenza e la gravità del danno
prodotto dall'azione del terzo responsabile sia per dolo
che per colpa, non potendo diversamente la prescrizione
estintiva iniziare a decorrere legittimamente nei suoi
confronti".
3. Col secondo motivo, il
ricorrente lamenta violazione dell'art. 2947, terzo
comma, c.c., per non avere la Corte territoriale tenuto
conto che la prescrizione avrebbe dovuto decorrere dalla
morte del R. o dalla data della pronuncia di estinzione
del reato per tale causa e chiede alla Corte se "in caso
di estinzione del reato per causa diversa dalla
prescrizione accertata in sede penale, il diritto al
risarcimento del danno ai sensi dell'indicata norma si
prescriva nel termine di cinque anni con decorrenza
dalla data di estinzione del reato, anche se dovesse
eventualmente risultare nella causa civile risarcitoria
che il reato si sia estinto per prescrizione".
4. Col terzo motivo, il ricorrente
deduce violazione dell'art. 92 c.p.c. e chiede alla
Corte se "in materia di spese di lite debba essere
valutata in favore della parte soccombente, oltre alla
condotta moralmente apprezzabile dalla stessa tenuta,
anche il comportamento processuale della parte
vittoriosa che appaia in contrasto con i principi di
lealtà, probità e correttezza previsti dall'art. 88
c.p.c. e tali da costituire, in caso di soccombenza,
motivo di risarcimento del danno per responsabilità
aggravata".
5. La censura di cui al primo
motivo è fondata, nei termini di seguito precisati.
5.1. La Corte territoriale ha
affermato che "nella diffamazione, l'illecito istantaneo
si perfeziona ed il danno alla reputazione si verifica
nel momento in cui la comunicazione lesiva dell'altrui
reputazione raggiunga un secondo soggetto, in tale
momento sorgendo sia il diritto di querela per il reato
che quello al risarcimento dei danni per l'illecito
civile". L'affermazione - che può condividersi quanto
all'individuazione del momento in cui si consuma il
reato di diffamazione - non è corretta per quanto
riguarda il momento di verificazione del danno
risarcibile civilmente, specie ove si ponga mente che
nella fattispecie è controversa l'attribuzione del
"danno morale" conseguito all'indicato reato (come da
conclusioni ed esposizione in fatto della sentenza
impugnata). Del pari, l'affermazione della Corte di
merito non è condivisibile quanto alla decorrenza del
termine per la proposizione della querela.
5.2. Questa Corte ha avuto modo di
affrontare la questione dell'interpretazione del
concetto di "verificazione del danno" ai sensi dell'art.
2947 in rapporto alla decorrenza del termine di
prescrizione del diritto al risarcimento dei danni
patrimoniali. In argomento, ha affermato che é vero che
l'art. 2947, comma primo, c.c. prevede che "il diritto
al risarcimento del danno derivante da fatto illecito,
si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto
si è verificato", per cui, in base al tenore letterale
di detta norma il dies a quo della prescrizione dovrebbe
decorrere dalla data del fatto. Tuttavia, detta norma va
coordinata con le norme cardini sulla responsabilità
aquiliana (art. 2043 c.c.) e sulla decorrenza della
prescrizione in generale (art. 2935 c.c.). L'art. 2043
c.c. prevede che "qualunque fatto, doloso o colposo, che
cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha
commesso il fatto a risarcire il danno". Il diritto al
risarcimento del danno sorge non per effetto della sola
esistenza del fatto illecito, e quindi della condotta
(commissiva o omissiva) dell'agente, ma per l'effetto
del danno che questa condotta ha causato. Nel danno
patrimoniale tipico (art. 2043) vi sono, quindi più
componenti: il "comportamento", ovvero l'atto in sé
riconducibile alla volontà dell'agente, "l'evento
naturalistico", legato da un nesso causale al
comportamento, e "le conseguenze dannose patrimoniali",
in senso proprio, a loro volta connesse con l'evento.
Sono proprio le conseguenze dannose che vanno risarcite
a norma dell'art. 2043. Pertanto, nella struttura della
responsabilità civile, ai sensi di detta norma, non c'è
risarcimento se non c'è perdita e, perché vi sia
perdita, occorre che essa sia conseguenza di una lesione
giuridica soggettiva (Corte Cost. 27.10.1994, n. 372).
5.3. Secondo l'art. 2935 c.c. "la
prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere". Ne consegue che: se
non c'è (ancora) il danno, non c'è (ancora) il diritto
al risarcimento e, di conseguenza, non decorre alcuna
prescrizione, anche se l'agente abbia già compiuto il
fatto illecito. Pertanto, allorché la norma di cui
all'art. 2947 prevede che il termine di prescrizione di
cinque anni decorre dalla data del fatto, essa va intesa
nel senso che detta prescrizione decorre dalla data del
danno, per il necessario coordinamento con gli artt.
2043 e 2935 c.c. Solo in questa maniera si evita
l'assurdo per cui se tra il fatto ed il danno intercorre
un periodo superiore ai cinque anni, il danneggiato in
effetti sarebbe privo di tutela, in quanto, prima del
danno non avrebbe diritto a risarcimento, proprio per
l'assenza del danno, nonostante il fatto illecito, e
dopo l'insorgenza del danno, egli si troverebbe con il
diritto al risarcimento già estinto per prescrizione
(Cass. n. 5913 del 9.5.2000, in motivazione).
5.4. Ricollegato, quindi, il dies a
quo della decorrenza della prescrizione, anche ai sensi
dell'art. 2947, al momento in cui il diritto al
risarcimento può essere esercitato, cioè al momento in
cui si è verificato il "danno" (patrimoniale) nel senso
sopra definito, va specificato cosa si intenda per il
"verificarsi del danno". Come è stato già osservato da
questa Corte (Cass. 5.7.1989, n. 3206; Cass. 4.1.1993,
n. 13; Cass. 12.8.1995, n. n. 8845; Cass. 28.7.2000 n.
9927), la legge riconnette il sorgere di una
responsabilità extracontrattuale ad una modificazione
dannosa della realtà esteriore in rapporto di causalità
con l'azione del danneggiante e che si renda causa,
quale conseguenza immediata e diretta, di una
diminuzione della sfera patrimoniale altrui. Non è
quindi sufficiente una semplice oggettiva realizzazione
del danno, ma è necessaria una sua esteriorizzazione,
conoscibilità o percepibilità, nonché acquisto di
rilevanza giuridica, momento questo al quale
l'ordinamento ricollega la nascita del diritto al
risarcimento e quindi la facoltà di esercitare i poteri
connessi. Diverse, poi, possono essere le conseguenze
del comportamento illecito, a seconda che questo perduri
nel tempo o si esaurisca in un solo atto, con
conseguenze che possono essere temporanee o permanenti.
In ogni caso, è la manifestazione del danno che assume
rilievo, non solo la sua ontologica esistenza,
iniziandosi soltanto con essa la lesione della sfera
giuridica altrui (Cass. 1716/1979; Cass. 1442/1983;
3206/1989; 3691/1995; 12666/2003; 0493/2006; 12699/2010;
si veda anche Cass- S.U. n.576/08).
5.5. Questo principio deve essere,
comunque, coordinato con quello - posto a base della
sentenza impugnata - secondo cui la semplice ignoranza
del proprio diritto non preclude il decorso della
prescrizione né l'interrompe (Cass. n. 2406/1975;
21496/2005; 14576/2007). Pertanto, secondo detto
indirizzo, non é la semplice ignoranza del danneggiato
sull'esistenza di un danno da lui subito a precludere il
decorso della prescrizione, in quanto gli stati di
ignoranza soggettiva in cui versi il titolare del
diritto costituiscono un mero impedimento di fatto. Ma,
sulla base di quanto si è osservato nei precedenti
punti, ciò che impedisce che inizi a decorrere la
prescrizione è, in rapporto ai danni materiali,
l'oggettiva non percepibilità e riconoscibilità
all'esterno del danno e cioè l'oggettiva sua mancata
esteriorizzazione (Cass. n. 5913/2000, in motivazione,
cit.).
5.6. Della fattispecie
dell'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c. -
integrante una norma generale che pone principi non
derogati in caso di non patrimonialità delle conseguenze
pregiudizievoli patite dalla vittima (art. 2059 c.c.) -
costituisce elemento strutturale il danno, sicché il
diritto al risarcimento non è configurabile se il danno
non si sia verificato. Quando il danno di cui si chiede
il risarcimento consista - come nella specie - nella
sofferenza morale soggettiva conseguita alla lesione
della reputazione (discredito), la consapevolezza del
fatto lesivo da parte della vittima ne costituisce lo
stesso presupposto. Invero, in tanto può sussistere un
turbamento psichico da intervenuta lesione della propria
reputazione, in quanto il diffamato abbia avuto contezza
dell'atto diffamatorio.
5.7. Ne deriva che, ove il danno
morale soggettivo si verifichi - come nella specie -
solo a seguito della conoscenza della diffamazione
acquisita dalla persona offesa, prima di detto momento
il diritto al risarcimento neppure esisteva. E, non
esistendo il diritto, ovviamente, neppure poteva
iniziare a decorrere il termine di prescrizione, posto
che un diritto (al risarcimento) può essere fatto valere
solo dopo che sia sorto (e presupponendo il risarcimento
la verificazione del danno).
5.8. In ordine alla risarcibilità
del danno non patrimoniale da reato, è ormai consolidato
l'orientamento che afferma il pieno potere del Giudice
civile di accertare astrattamente la sussistenza degli
estremi del reato al solo fine di quantificare la
lesione subita (Cass. n. 17980/07; 729/05). Per quanto
concerne, in particolare, il danno non patrimoniale
consistente nella sofferenza d'animo a seguito del reato
di diffamazione, la giurisprudenza é costante nel
ritenere che "il danno non patrimoniale, quale
sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso,
si verifica nel momento in cui la parte lesa ne viene a
conoscenza (Cass. 9 agosto 2001 n. 10980; Cass. 10 marzo
1993 n. 24919). Con la conseguenza che, per
l'individuazione del momento a partire dal quale (sorga
e) possa essere fatto valere il diritto al risarcimento
del danno morale da diffamazione rileva la
percepibilità, da parte del soggetto offeso, della
lesione dell'onore e del relativo discredito della
reputazione (non essendo sufficiente la "percepibilità
oggettiva" di detta lesione).
5.9. Solo così, peraltro, può
essere correttamente instaurato un parallelismo tra
diritto a proporre querela ed esercitabilità del diritto
al risarcimento del danno, restando altrimenti non
giustificato un diverso trattamento nell'azionabilità
della medesima pretesa risarcitoria in sede civile o in
quella penale. Infatti, diversamente da quanto ha
sostenuto impropriamente la Corte territoriale, il
termine (di tre mesi) per la proposizione della querela
decorre dal giorno della "notizia" del fatto che
costituisce reato (art. 124 c.p.), e che tale momento,
rispetto al reato di diffamazione, è inteso in sede
penale da questa S.C. come "quello in cui il titolare ha
conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del
fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva,
conoscenza che può essere acquisita in modo completo
soltanto se (e nel momento in cui) il soggetto passivo
ha contezza dell'autore e possa, quindi, liberamente
determinarsi" (Cass. pen., sez. V, n. 14660 del 1999;
confermata, rispetto ad altri reati fino a Cass. pen.,
V, n. 33466 del 2008, secondo cui detto termine decorre
dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa,
sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua
dimensione oggettiva e soggettiva, conoscenza che può
essere acquisita in modo completo soltanto se e quando
il soggetto passivo abbia contezza dell'autore e possa,
quindi, liberamente determinarsi").
6.1. Pertanto, e per quello che qui
rileva, va fissato il seguente principio "l'art. 2947,
coordinato con gli artt. 2059 e 2935 c.c., va
interpretato nel senso che il termine di prescrizione
del diritto al risarcimento del danno morale da
diffamazione (commessa, nell'ipotesi, a mezzo di
corrispondenza epistolare) inizia a decorrere non dal
momento in cui l'agente compie il fatto illecito, ma dal
momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza".
6.2. Nella fattispecie la sentenza
impugnata non ha fatto corretta applicazione di questo
principio, osservando che, in caso di diffamazione, il
danno alla reputazione si verifica nel momento in cui la
comunicazione lesiva dell'altrui reputazione raggiunga
un secondo soggetto. Invece, per quanto innanzi esposto,
non rilevava in questo caso il momento consumativo del
reato, ma la conoscenza della diffamazione acquisita
dalla persona offesa, in quanto, prima di detto momento,
il diritto al risarcimento neppure esisteva e non
poteva, quindi, essere esercitato.
7. Il primo motivo va, pertanto,
accolto e tale accoglimento assorbe ogni decisione in
ordine al secondo - non essendo ulteriormente
necessario, ai fini della tempestività dell'azione
(sussistente già in base all'applicazione alla
fattispecie dell'indicato principio di diritto), l'esame
della prescrizione ai sensi dell'ultimo comma dell'art.
2947 c.c. - ed al terzo, relativo al governo delle spese
dei pregressi gradi, che dovrà comunque essere
nuovamente condotto, in rapporto all'esito globale della
controversia, una volta terminato il giudizio di rinvio.
8. Pertanto, accolto il primo
motivo ed assorbiti gli altri, la sentenza va cassata e
la causa rimessa, per nuovo esame del merito della
domanda alla medesima Corte territoriale in diversa
composizione, che provvederà in ordine alle spese anche
del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del
ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di
Appello di Milano in diversa composizione.
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