MASSIMA
1. Ai sensi della legge 24 febbraio
1992, n. 225, l’esercizio del potere di ordinanza “in
deroga” necessita sia della previa dichiarazione dello
stato di emergenza, e quindi del rispetto dei dati
territoriali e temporali ivi previsti, sia di una chiara
finalizzazione di quanto dall’ordinanza contemplato a
fronteggiare situazioni strettamente connesse alle
calamità, catastrofi o altri eventi di cui all’art. 2,
lett. c). Anche le “situazioni di pericolo” ovvero i
“maggiori danni a persone o cose”, per evitare i quali è
esercitabile il potere di ordinanza (art. 5, comma 3),
devono trovare stretta connessione con il concreto dato
emergenziale. Ed infatti, il richiamo al “pericolo” da
evitare, non può che connettere tale stato all’evento
per il quale vi è stata la dichiarazione, così come i
“maggiori danni” non possono avere, quale presupposto,
che i danni già provocati dall’evento calamitoso.
2. Le situazioni di emergenza,
prese in considerazione dall’art. 5, legge n. 225 del
1992, consentono l’esercizio di poteri derogatori della
normativa primaria solo a condizione che si tratti di
deroghe temporalmente delimitate, non anche di
abrogazione o modifica di norme vigenti, e sempre che
tali poteri siano ben definiti nel contenuto, nei tempi,
nelle modalità di esercizio, non potendo in particolare
il loro impiego realizzarsi senza che sia specificato il
nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le
norme di cui si consente la temporanea sospensione.
3. Le cd. ordinanze extra ordinem
non hanno carattere di fonti primarie dell’ordinamento
giuridico, attesa la loro efficacia meramente
derogatoria, e non innovativa, nell’ordinamento
medesimo. Parimenti, deve essere esclusa la natura di
“atto politico”, come tale non oggetto di impugnazione
innanzi al giudice amministrativo (ex art 31 R.D. 26
giugno 1924 n. 1054; ora art. 7, comma 1, Cpa), dette
ordinanze avendo natura di atto amministrativo. Ciò vale
sia per la deliberazione con la quale il Consiglio dei
Ministri dichiara lo “stato di emergenza” e per il
conseguente decreto (art. 5, co. 1, l. n. 225/1992), sia
per le ordinanze del Presidente del Consiglio dei
Ministri o del Ministro delegato (art. 5, commi 2-3),
sia per le ordinanze specificamente emanate dal
Commissario nominato proprio per fronteggiare
l’emergenza precedentemente dichiarata (art. 5, commi
4-5).
4. Le scelte dell'amministrazione
straordinaria devono essere concretamente valutate in
rapporto ad una situazione di emergenza del tutto
eccezionale e straordinaria, nella quale la ponderazione
e la comparazione dei diversi interessi in gioco non
segue pedissequamente le regole ed i criteri che
governano l'azione pubblica in situazioni ordinarie,
così che non ogni carenza, insufficienza o
contraddittorietà a livello istruttorio o di motivazione
ridonda automaticamente e necessariamente in vizio del
relativo procedimento, sotto forma di una delle figure
sintomatiche dell'eccesso di potere.
5. Il giudice amministrativo,
nell’esercizio del proprio sindacato, deve tenere conto
sia della natura di “atto di alta amministrazione” delle
ordinanze in esame – e conseguentemente della ampia
discrezionalità della quale gode l’amministrazione – sia
delle particolari circostanze (situazioni di calamità
che richiedono urgenza nell’agire) che fungono da
presupposto dell’atto adottato.
6. Ai sensi del d.l. 23 maggio 2008
n. 90 (conv. in l. 14 luglio 2008 n. 123), il “grande
evento”, una volta individuato come presupposto, funge
da preciso limite sia territoriale (in relazione ai
luoghi da esso interessati), sia in relazione ai tempi
di esercizio del potere (volti ad esaurirsi con il
cessare del grande evento). Al tempo stesso, il potere
di ordinanza in deroga (che incontra i limiti derivanti
dal rispetto dei principi generali dell’ordinamento e
delle norme costituzionali) deve essere necessariamente
limitato agli interventi ritenuti necessari per
fronteggiare le esigenze che hanno determinato la stessa
concessione del potere di ordinanza.
7. Le disposizioni di cui alla
legge n. 225 del 1992, in quanto “norme eccezionali”,
volte ad incidere (anche) sul quadro delle fonti, non
possono che essere di “stretta interpretazione” (in
quanto “eccezionali”, ex art. 14 disp. prel. cod. civ.),
non potendosene consentire (interpretazioni e quindi)
applicazioni, al di là dei casi strettamente
contemplati. Tuttavia, con riferimento alle ordinanze
commissariali in deroga, emanate in attuazione dell’art.
5 l. n. 225/1992, e, più precisamente, con riguardo alle
disposizioni di legge derogabili da esse indicate, è
legittima – sia in virtù di quanto disposto dal comma 5
del medesimo art. 5, sia in virtù dei generali canoni
interpretativi delle norme eccezionali, ex art. 14
preleggi – una interpretazione non solo letterale, ma di
tipo estensivo, tenuto per di più conto della natura
meramente indicativa (e non esaustiva) dell’elenco di
norme indicate come derogabili.
8. La operazione di ricomprensione
di uno o più articoli non espressamente indicati, tra
quelli tuttavia derogabili consegue alla verifica, in
primo luogo, della appartenenza della disposizione alla
materia (o al settore della materia) enucleabile, per
mezzo di un procedimento di astrazione, dagli articoli
espressamente indicati; in secondo luogo, dalla
attinenza e coerenza della disposizione con le finalità
che il legislatore ha ritenuto di dover perseguire per
il tramite del potere di ordinanza in deroga, e quindi
applicando un “criterio di effettività” alla
disposizione stessa (ed alla norma in essa contenuta).
9. Al Commissario delegato sono
attribuiti – in relazione alle opere occorrenti per il
grande evento - poteri di pianificazione urbanistica,
comprensivi della definizione degli interventi di
proprietà pubblica e privata necessari per
l’implementazione delle strutture sportive esistenti. Ed
è in questo ampio quadro di poteri che al Commissario
vengono altresì attribuiti poteri di agire in deroga
alla disciplina edilizia, di cui al DPR n. 380/2001 e,
più specificamente, alle norme che disciplinano gli
stessi procedimenti relativi al rilascio del permesso di
costruire e di costruire in deroga.
10. Le ordinanze hanno inteso
definire (per il tramite delle “principali” disposizioni
derogabili), quale ambito di derogabilità, da parte del
Commissario delegato e della sua attività, proprio
quello afferente alla assentibilità (e concreta
utilizzabilità) edilizia delle costruzioni. Attraverso
il richiamo alla disciplina del procedimento per il
rilascio del permesso di costruire, nonché del permesso
di costruire in deroga, nonché degli interventi
conseguenti a denuncia di inizio di attività, si copre
interamente l’ambito dell’attività edilizia assentibile
e/o comunque assoggettata a controllo della Pubblica
Amministrazione, dal momento dell’avvio del procedimento
volto a conseguire il titolo edilizio fino alla concreta
utilizzabilità dell’immobile costruito (per il tramite
della prevista deroga alle norme in tema di agibilità).
Difatti, non vi è ragione per ritenere non ricompresa
tra le disposizioni derogabili anche quella relativa
alla competenza al rilascio del titolo autorizzatorio
edilizio, disposizione che, peraltro, appare la meno
rilevante a fronte delle altre, di ben più profondo
spessore (ed incidenza sul territorio) espressamente
citate (e costituenti, appunto, le “principali”
disposizioni derogabili, in ossequio all’art. 5, co. 5,
l. n. 225/1992).
11. Il fatto che la rilevabilità di
ufficio della nullità sia dall’art. 31, co. 4, Cpa
demandata solo al giudice, esclude che la medesima
nullità possa essere rilevata ex officio dalla Pubblica
Amministrazione (se non attraverso l’esercizio, ove ne
ricorrano i presupposti, del potere di autotutela su
atto proprio). Ciò appare coerente con il disegno
complessivo del legislatore, che – pur in presenza
dell’introdotto istituto della nullità – ha inteso
conciliare quest’ultima con il più generale principio di
imperatività dell’atto amministrativo, e, quindi, con la
conseguente suscettività di produrre effetti da parte
del provvedimento invalido (ma non ancora dichiarato
tale).
12. Il giudice amministrativo può
di ufficio procedere a dichiarare la nullità di atti
amministrativi (ovviamente in un giudizio diverso da
quello ex art. 31, co. 4 Cpa), solo se tale declaratoria
risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda
introdotta in giudizio (e quindi, nel giudizio
impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità
dell’atto impugnato e quindi al suo annullamento,
ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di
annullamento).
13. Il provvedimento
amministrativo, ancorché nullo, ha, tuttavia, una
propria efficacia “interinale” (fin tanto che la nullità
non venga accertata), la quale rende possibile la stessa
definizione dell’atto come provvedimento amministrativo
dotato di imperatività (e che, pertanto, si impone
unilateralmente ai suoi destinatari). Questi ultimi non
possono sottrarsi agli effetti dell’atto, ovvero agire
come se l’atto non esistesse e/o fosse improduttivo di
effetti, ritenendo ovvero opponendo la nullità dello
stesso, ma, onde tutelare le proprie posizioni
giuridiche, hanno il potere di agire in giudizio al fine
di ottenerne la declaratoria di nullità. Ciò vale anche
per la Pubblica Amministrazione, avverso provvedimenti
emanati da altra autorità amministrativa ritenuti nulli,
ed avverso i quali la prima amministrazione non è
titolare di potere di autotutela.
14. Le azioni dichiarative
esperibili innanzi al giudice amministrativo sono
esclusivamente quelle espressamente contemplate dal
Codice del processo amministrativo. Né può ritenersi
esperibile l’azione dichiarativa nell’ambito del
processo amministrativo, in virtù del generale richiamo
alle norme del Codice di procedura civile operato
dall’art. 39 Cpa. Ed infatti l’applicazione di dette
disposizioni presuppone che le stesse siano “compatibili
o espressione di principi generali”, laddove proprio la
diversa natura della posizione giuridica soggettiva
tutelata in giudizio, esclude sia “generalità del
principio” sia compatibilità della disposizione. D’altra
parte, proprio la limitata introduzione dell’azione (e
pronuncia) dichiarativa nell’ambito del giudizio
amministrativo, porta conseguentemente ad escludere
(stante la incompatibilità) la possibilità di ampliare
l’ambito dell’azione dichiarativa medesima.
15. Se la posizione sostanziale di
interesse legittimo risulta percepibile solo nel momento
dinamico dell’esercizio del potere, appare evidente come
essa sfugga ad una operazione di “accertamento”, per
venire ad essere tutelata attraverso il sindacato
sull’esercizio, o sul mancato esercizio (provvedimento
negativo) del potere da parte dell’amministrazione cui
lo stesso è funzionalmente conferito. In definitiva,
l’azione di accertamento, lungi dal poter avere una
propria autonomia (ed anche una qualche utilità), si
confonde nella più generale azione di annullamento,
ottenendo la posizione giuridica soddisfazione per il
tramite dell’annullamento dell’atto (cui è funzionale il
previo profilo “di accertamento” della pronuncia del
giudice) e, ove necessario, per mezzo del successivo
giudizio di ottemperanza.
TESTO DELLA SENTENZA
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV -
SENTENZA 28 ottobre 2011, n.5799 - Pres. Trotta – est.
Forlenza
SENTENZA
sul ricorso numero di registro
generale 1626 del 2011, proposto da:
Salaria Sport Village Srl,
rappresentata e difesa dagli avv. Adriana Boscagli,
Federico Tedeschini, con domicilio eletto presso
Federico Tedeschini in Roma, largo Messico, 7;
contro
Comune di Roma, rappresentato e
difeso dall'avv. Rodolfo Murra, domiciliata per legge in
Roma, via Tempio di Giove 21;
nei confronti di
Presidenza del Consiglio dei
Ministri -Dipartimento della Protezione Civile,
Commissario Delegato Per Lo Svolgimento dei Mondiali di
Nuoto 'Roma 2009', rappresentati e difesi
dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per
legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Regione Lazio;
Circolo Canottieri Aniene Assl,
rappresentato e difeso dagli avv. Benedetto Giovanni
Carbone, Mario Sanino, con domicilio eletto presso
Benedetto Giovanni Carbone in Roma, via degli Scipioni
n.288;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO -
ROMA: SEZIONE I 1 febbraio 2011 n. 906, resa tra le
parti, concernente AUTORIZZAZIONE PER GLI IMPIANTI E LE
OPERE REALIZZATE PER LO SVOLGIMENTO DEI MONDIALI DI
NUOTO 'ROMA 2009'
Visti il ricorso in appello e i
relativi allegati;
Visto l’appello incidentale
proposto da Presidenza del Consiglio dei Ministri
-Dipartimento della Protezione Civile, Commissario
Delegato per lo svolgimento dei mondiali di nuoto 'Roma
2009';
Visti l’ atto di costituzione in
giudizio di Roma Capitale (già Comune di Roma) e di
Circolo Canottieri Aniene;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del
giorno 14 giugno 2011 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi
per le parti gli avvocati Federico Tedeschini, Rodolfo
Murra, Giovanni Carbone Benedetto, Mario Sanino e
Giovanni Palatiello (Avv. St.);
Ritenuto e considerato in fatto e
diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’appello in esame (n.
1626/2011 r.g.), la società Salaria Sport Village s.r.l.
impugna la sentenza 1 febbraio 2011 n. 906, con la quale
il TAR per il Lazio, sez. I, ha in parte respinto, in
parte dichiarato inammissibile il ricorso (nonché il
successivo ricorso per motivi aggiunti), proposti
avverso la nota 11 gennaio 2010 n. 1312 del Comune di
Roma, nella parte in cui quest’ultimo ha affermato la
sussistenza della propria competenza a rilasciare il
titolo autorizzatorio edilizio, ex art. 14 DPR n.
380/2001, anche in presenza dell’attribuzione in deroga
di tale competenza al Commissario delegato per lo
svolgimento dei mondiali di nuoto “Roma 2009”, nonché
avverso la nota del Comune di Roma 26 gennaio 2010 prot.
QF 1430 e la delibera della Giunta Comunale di Roma 30
giugno 2010 n. 196, nella parte in cui quest’ultima ha
ribadito l’interesse pubblico (e fatti propri i relativi
progetti) esclusivamente in riferimento agli impianti
ivi indicati, senza includere fra essi anche l’impianto
della Salaria Sport Village s.r.l.
Con il predetto ricorso era stata
altresì proposta domanda di accertamento della
equipollenza o della validità a tenere luogo del
permesso di costruire ex art. 14 DPR n. 380/2001, del
provvedimento di raggiunta intesa 18 giugno 2008 prot.
n. 3047/RM2009 e del decreto 30 giugno 2009 n.
6198/RM2009, con il quale il Commissario delegato per lo
svolgimento dei mondiali di nuoto “Roma 2000” ha
approvato il nuovo Piano delle opere, comprendente, fra
gli impianti sportivi di proprietà privata, anche quello
del Salaria Sport Village.
La presente controversia riguarda,
in sostanza, la denegata regolarizzazione, da parte del
Comune di Roma, delle opere eseguite dalla società
appellante per lo svolgimento dei mondiali di nuoto Roma
2009.
Infatti, avanzata dalla società
domanda di (eventuale) regolarizzazione, il Comune di
Roma, con la nota 11 gennaio 2010 impugnata, ha fatto
presente che quest’ultima - non essendo riconducibile ad
una richiesta di permesso di costruire in sanatoria -
era comunque subordinata alla formalizzazione di
un’apposita domanda volta a conseguire il titolo
mancante, corredata da tutta la documentazione
necessaria per l’istruttoria tecnico-amministrativa. Gli
interventi realizzati erano in tal modo considerati
illegittimi, perché privi di un titolo autorizzatorio
edilizio. E ciò a fronte di atti (provvedimenti di
raggiunta intesa del 18 giugno 2008, integrato dal
provvedimento 12 giugno 2009; decreto 30 giugno 2009),
che – nella prospettazione della ricorrente in I grado -
avrebbero già autorizzato i lavori di ampliamento e
potenziamento del centro sportivo di sua proprietà,
sussistendo il potere del Commissario delegato di
definire gli interventi, in deroga alle previsioni
urbanistiche vigenti.
La sentenza appellata ha innanzi
tutto rilevato che:
- il primo atto impugnato (nota 11
gennaio 2010 del Comune di Roma) ha carattere
provvedimentale, in quanto esso “sia pure
implicitamente, qualifica come abusivi gli interventi
edilizi realizzati dalla Salaria Sport Village per lo
svolgimento dei mondiali di nuoto Roma 2009, informando,
proprio in ragione dell’attuale assenza di titolo
abilitativo, che l’eventuale regolarizzazione delle
opere è subordinata alla presentazione di una domanda di
sanatoria”;
- non ha, invece, natura
provvedimentale il secondo atto impugnato (nota 26
gennaio 2010), posto che con esso il Comune di Roma – in
esito ad una istanza del 11 novembre 2009 con la quale
la Salaria Sport Village ha chiesto l’espressione di un
parere favorevole sul progetto definitivo “di
ampliamento e potenziamento delle strutture private già
esistenti” - ha fatto presente che in merito a tale
progetto, in sede di conferenza di servizi presso il
Commissario delegato, era stato a suo tempo espresso
parere contrario in quanto lo stesso era incompatibile
con i vincoli paesistico e ambientale e non assentito
dagli organi competenti, di modo che – nulla essendo
cambiato sotto il profilo vincolistico – ha confermato
allo stato il suddetto parere contrario. In questo caso,
dunque, si è in presenza di un atto avente “finalità
meramente consultiva”;
- è inammissibile la domanda di
accertamento poiché essa (e la relativa azione) “postula
la natura di diritto soggettivo della posizione
giuridica dedotta in giudizio che, nel caso di specie,
ha invece natura di interesse legittimo”. Precisa la
sentenza che “d’altra parte, l’interesse sostanziale
dedotto in giudizio dalla ricorrente si concreta proprio
nell’accertamento della liceità e della legittimità
dell’intervento edilizio realizzato per lo svolgimento
dei campionati del mondo di nuoto e tale bene della vita
potrebbe essere conseguito con l’eventuale accoglimento
dell’azione di annullamento dell’atto dell’11 gennaio
2010 che ha qualificato come abusivi gli interventi
realizzati”.
Tanto premesso, la sentenza
appellata, precisato che “il thema decidendum della
controversia è costituito dalla verifica della idoneità
o meno del provvedimento di raggiunta intesa del 18
giugno 2008 a fungere da titolo abilitativo, atteso che
l’esito di tale verifica è inevitabilmente destinato a
riflettersi sul giudizio di legittimità del
provvedimento impugnato che, ritenendo assente un idoneo
titolo abilitativo, ha qualificato come abusivi gli
interventi realizzati”, afferma:
- l’art. 5 l. n. 225/1992,
“nell’attribuire il potere di ordinanza in deroga alle
leggi vigenti, determina un ribaltamento nella gerarchia
delle fonti normative presenti nel nostro ordinamento,
investendo l’autorità amministrativa del potere di
derogare alla norma ordinaria, sia pure nel rispetto dei
principi generali”. Da ciò consegue che detto articolo
“deve qualificarsi come norma eccezionale, che necessita
di strettissima interpretazione e tale esigenza, se
possibile, è ancora più rafforzata nella fattispecie in
esame dal fatto che non si versa in una situazione
emergenziale, ma si è in presenza di un “grande evento”,
circostanza alla quale si applicano le norme di cui
all’art. 5 l. n. 225/1992, per effetto dell’estensione
prevista dall’art. 5bis, co. 5, d.l. n. 343/2001;
- stante il contesto normativo ora
delineato, “il potere di deroga della normativa primaria
conferito all’autorità amministrativa, pertanto, è
ammissibile subordinatamente non solo al carattere
eccezionale e temporaneo della situazione, ma anche
all’esigenza che i poteri degli organi amministrativi
siano ben definiti nel contenuto, nei tempi e nelle
modalità di esercizio”;
- nel caso di specie, “le norme che
il Commissario delegato è stato autorizzato a derogare
sono solo quelle e soltanto quelle espressamente
indicate nell’OPCM n. 3489/2005, non essendo consentito
all’interprete – in ragione del carattere di evidente
eccezionalità della norma attributiva del potere di
ordinanza, che consente ad una fonte di rango inferiore
di derogare ad una fonte normativa superiore – alcuna
operazione estensiva, quantunque quest’ultima sia basata
su plausibili argomenti ermeneutici”; in altre parole,
“l’interpretazione deve essere esclusivamente letterale,
limitata cioè alle norme espressamente ed
inequivocabilmente indicate, e non può essere di tipo
sistematico, volta cioè ad includere, sebbene in ragione
di prospettazioni plausibili, anche norme non
specificamente richiamate”;
- l’OPCM n. 3429/2005 “ha
autorizzato il Commissario delegato, ove ritenuto
indispensabile, a derogare agli artt. 7, comma 1, lett.
c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR n. 380/2001, ma non ha
indicato l’art. 13 del Testo Unico in materia edilizia,
secondo cui il permesso di costruire è rilasciato dal
dirigente o responsabile del competente ufficio comunale
nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli
strumenti urbanistici. Ne consegue che al Commissario
delegato non è stato attribuito alcun potere di
rilasciare il permesso di costruire per la realizzazione
dei singoli interventi edilizi in luogo della competente
amministrazione comunale”;
- né è possibile ritenere che le
opere realizzate dal Salaria Sport Village “non
potrebbero essere ritenute abusive fino a quando il
titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario
delegato non sia annullato dal giudice amministrativo”,
poiché, essendo nullo il provvedimento amministrativo
viziato da difetto assoluto di attribuzione, ex art.
21-septies l. n. 241/1990, “deve qualificarsi nullo e
non meramente annullabile il titolo abilitativo
rilasciato dal Commissario delegato in assenza del
relativo potere in data 18 giugno 2008, sicchè,
correttamente, l’amministrazione comunale con l’atto
impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam
non esset”;
- e ancora, “oltre alla richiamata
assenza del potere di rilasciare il permesso di
costruire ai sensi dell’art. 13 DPR 380/2001, il
Commissario delegato non avrebbe comunque avuto il
potere di assentire una variazione ai vincoli paesistici
ed idrogeologici, tanto più che l’OPCM n. 3489/2005 . .
. fa presente che in ogni caso tutti gli interventi
pubblici e privati devono essere conformi agli strumenti
urbanistici comunali risultanti con la variante
approvata con il piano delle opere e non possono essere
effettuati in deroga alle norme igieniche, sanitarie e
di sicurezza”;
- infine, il Comune di Roma, con la
delibera GC 30 giugno 2010 n. 196, “in modo senz’altro
condivisibile . . . non ha qualificato come pubblici gli
impianti di proprietà privata; qualificazione che
avrebbe tra l’altro comportato l’esenzione dal
contributo di costruzione. Infatti, appare del tutto
logico richiedere ai fini della qualificazione in
termini di pubblicità dell’impianto e di connessi
benefici la sussistenza non solo del requisito
oggettivo, ma anche del requisito soggettivo dell’area
di proprietà comunale”. In conclusione, “si rivela un
assunto indimostrato che ogni intervento compreso nel
piano delle opere per i mondiali di nuoto 2009 sarebbe
dovuto essere considerato di interesse pubblico in
quanto realizzato per un’iniziativa rispondente a tale
interesse, a prescindere dalla circostanza che sia stato
posto in essere su strutture di proprietà pubblica o
privata”.
2. Avverso tale decisione,
l’appellante società propone i seguenti motivi di
impugnazione:
a) error in procedendo, con
riguardo ai profili di inammissibilità dell’azione
proposta rilevati dal giudice di I grado; ciò sia con
riferimento alla nota 26 gennaio 2010, poiché “la
portata lesiva dell’atto è riscontrabile nella stessa
circostanza che l’amministrazione abbia ritenuto prive
di titolo le opere realizzate”, in tal modo eliminando
“quelle certezze di solidità del titolo abilitativo
rilasciato dal Commissario delegato, sulle quali la
ricorrente aveva posto legittimo affidamento”; sia con
riguardo alla domanda di accertamento dell’equipollenza
o della validità a tener luogo del permesso di costruire
del provvedimento di raggiunta intesa del 18 giugno 2008
e del decreto del 30 giugno 2009 emesso dal Commissario
delegato.
In tale secondo caso, “l’assunto
del I giudice muove da una concezione arcaica
dell’interesse legittimo”, atteso che oggi, dopo la
sentenza della Corte di Cassazione 500/1999, le leggi 15
ed 80 del 2005, ed il Codice del processo
amministrativo, “viene, di fatto, riconosciuta la
tutelabilità diretta dell’interesse legittimo, facendo
leva sul carattere sostanziale della posizione e sulla
rilevanza del bene della vita inciso negativamente per
effetto dell’illegittimità del provvedimento, sino a
delineare un sistema di tutela che, prescindendo dalla
caducazione dell’atto, giunge all’accertamento della
fondatezza sostanziale della pretesa”.
Secondo l’appellante, “l’interesse
legittimo non si atteggia più ad interesse formale alla
legittimità del provvedimento che neghi o sottragga il
bene, ma diventa una pretesa a che una determinata
utilità non venga negata o sottratta se non alle
condizioni prefissate dall’ordinamento. In questa nuova
concezione, il provvedimento amministrativo cessa di
essere l’oggetto principale del giudizio, costituendone
semmai l’occasione, in qualità di mero presupposto
processuale o di condizione dell’azione, per consentire
al giudice uno scrutinio sulla correttezza del risultato
perseguito dalla P.A. mediante l’atto gravato”. Infine,
poiché “all’ordinamento comunitario è assolutamente
estranea la distinzione tra interesse legittimo e
diritto soggettivo . . . l’operazione di
riqualificazione italiana delle posizioni giuridiche
soggettive correlate all’azione autoritativa dei
pubblici poteri in termini di interessi legittimi non
può tradursi in un abbassamento del livello di tutela al
di sotto dello standard di effettività che è preteso
dall’ordinamento europeo”;
b) error in iudicando; erronea,
illogica e contraddittoria motivazione, relativamente
all’interpretazione del potere di ordinanza di cui
all’art. 5 l. n. 225/1992, adottata dal giudice di I
grado; ciò in quanto, conferito il potere di ordinanza
ex l. n. 225/1992, l’attività di interpretazione deve
riguardare sia le norme di deroga, sia quelle derogabili
e, stante il carattere eccezionale di queste, essa “non
può essere certamente analogica e neppure estensiva, ma
che tende ad essere sistematica, cioè riferibile ad un
sistema normativo proprio perché relativa ad un
complesso di norme”. Tale assunto è confermato dal dato
letterale dell’art. 5 l. n. 225/1992, che afferma che,
quanto all’ambito della deroga, possono essere indicate
nell’ordinanza del Presidente del Consiglio anche solo
le “principali norme” oggetto di questa. Nel caso di
specie, a fronte di una specifica indicazione (come
derogabili) degli artt. 7, co. 1, lett. c), 14, 209, 22,
24 e 25 DPR n. 380/2001 (da ritenere solo come le
“principali norme” indicate), “non si vede come in tale
funzione di individuazione di aree e strutture sportive
non potesse essere incluso anche un coerente potere di
autorizzazione alla realizzazione delle opere,
ovviamente entro i limiti definiti dall’ordinanza in
deroga”. In definitiva, “il conferimento al Commissario
del potere di pianificazione e di individuazione di aree
per l’implementazione e la realizzazione di strutture
sportive non possa coerentemente che presupporre
l’attribuzione allo stesso di un potere autorizzatorio
inerente ai necessari interventi urbanistici, la cui
sussistenza emerge implicitamente, ma chiaramente dalla
deroga agli artt. 14, 20, 22, 24 e 25 del DPR n.
380/2001”;
c) error in iudicando; erronea,
illogica e/o insufficiente motivazione; inapplicabilità
al caso in esame, in assenza dei poteri derogatori,
dell’art. 13 DPR n. 380/2001, rientrando gli interventi
de quibus tra quelli di cui all’art. 14 del medesimo
DPR; ciò in quanto “nelle OPCM non è stata stabilita
espressamente la deroga all’art. 13 (DPR n. 380/2011) in
quanto la Presidenza del Consiglio ha correttamente
considerato che al caso de quo (trattandosi di
interventi di implementazione di edifici di interesse
pubblico) si sarebbe dovuta applicare la diversa
disciplina prevista dall’art. 14 DPR 380/2001,
riguardante il rilascio del permesso di costruire in
deroga agli strumenti urbanistici”. D’altra parte,
l’art. 13 DPR n. 380/2001 “disciplina unicamente quale
sia l’organo competente al rilascio del permesso di
costruire in un regime ordinario, dunque in relazione ad
una situazione priva di quei caratteri che, al
contrario, connotano il caso in esame”;
d) error in iudicando; erronea,
illogica e insufficiente motivazione, in relazione alla
presunta assenza del potere del Commissario delegato di
assentire una variazione ai vincoli paesaggistici ed
ambientali, nonché sull’assentita inapplicabilità al
caso di specie della disciplina di cui all’art. 14-ter
l. n. 241/1990; ciò in quanto la conferenza di servizi
“esterna” e “decisoria” si conclude con un provvedimento
(rispetto al quale la conferenza “rappresenta solo un
passaggio procedurale”), provvedimento “avente la veste
di un atto adottato, in via ordinaria, da un organo
monocratico dell’amministrazione procedente. Di talchè
ogni singolo nulla osta o parere – positivo o negativo
che sia – delle amministrazioni partecipanti alla
conferenza di servizi costituisce un mero atto
endoprocedimentale, che non esplica alcun tipo di
effetto nei confronti del privato interessato, il quale,
una volta ottenuto l’assenso da parte
dell’amministrazione procedente che ha indetto la
conferenza di servizi, deve ritenersi pienamente
legittimato a dare esecuzione a tale determinazione
finale, senza la possibilità che talune delle PP.AA.
partecipanti alla conferenza dia seguito al proprio
dissenso espresso in fase procedimentale”. A ciò occorre
aggiungere, secondo l’appellante, che con l’ordinanza n.
3787/2009 (di modifica dell’art. 1, comma 2, ord. n.
3489/2005), si precisa espressamente che “l’assenso del
Commissario delegato tiene altresì luogo alle
autorizzazioni di cui agli artt. 146 e 147 del d. lgs.
22 gennaio 2004 n. 42”. Inoltre, in violazione dell’art.
3 l. n. 241/1990, il Comune di Roma ha motivato il
proprio parere negativo attraverso il mero richiamo a
decisioni assunte dal giudice penale in fase cautelare,
circostanza che, per un verso, “non soddisfa di certo
l’obbligo motivazionale” e, per altro verso, “denota
l’intenzione da parte della P.A. di esimersi dal
pronunciarsi in merito ad atti di propria competenza
riportandosi pedissequamente a decisioni assunte da un
organo giurisdizionale”. Viene, dunque, ribadita la
violazione dell’art. 3, co. 3, l. n. 241/1990, poiché
una motivazione assunta ob relationem, pur astrattamente
ammissibile, avrebbe richiesto l’allegazione degli atti
cui si rinvia, o almeno l’indicazione dei loro estremi
esatti;
e) error in iudicando, in
riferimento alla asserita infondatezza dei motivi
aggiunti, in quanto tra gli “impianti di interesse
pubblico” devono essere ricomprese “anche le strutture
gestite da privati in regime di impresa, se rivestono un
interesse lato sensu pubblico, quali gli edifici e le
opere destinati ad attività economiche di interesse
generale”. Ne consegue che “ogni intervento compreso nel
piano delle opere per i mondiali di nuoto 2009 debba
essere considerato d’interesse pubblico, in quanto
realizzato per un’iniziativa rispondente a tale
interesse, a prescindere dalla circostanza che venga
posto in essere su strutture di proprietà pubblica o
privata”;
f) violazione dei principi di
legittimo affidamento e di certezza del diritto;
violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo; poichè “l’appellante ha eseguito le
opere in questione riponendo affidamento sulla
legittimità di un provvedimento amministrativo
autorizzatorio rilasciato dal Commissario delegato, ove
fosse dimostrato che quest’ultimo nell’assentire tali
opere avesse effettivamente esorbitato dai propri
poteri, il privato non potrebbe essere oggetto di alcuna
conseguenza negativa, avendo agito in buona fede sulla
base di un provvedimento adottato da una pubblica
autorità”.
3. La Presidenza del Consiglio dei
Ministri – Commissario delegato per lo svolgimento dei
mondiali di nuoto Roma 2009, ha proposto ricorso in
appello incidentale avverso la sentenza del TAR Lazio n.
906/2011, proponendo i seguenti motivi di impugnazione:
error in iudicando, in quanto
a1) non risultano “supportate sul
piano normativo” le affermazioni, contenute in sentenza,
circa un difetto di potere del Commissario delegato a
rilasciare il permesso di costruire, ovvero di assentire
una variazione ai vigenti vincoli paesistici ed
idrogeologici, posto che l’OPCM 30 giugno 2009 n. 3787
ha esplicitamente previsto (art. 1, co. 1), che il Piano
delle opere possa essere integrato anche con interventi
privati, e che si prescinde dall’intesa con l’Assessore
all’urbanistica e dal parere della Giunta Comunale di
Roma relativamente a quegli interventi in ordine ai
quali la deroga non esorbita dai limiti ordinariamente
assentibili ai sensi dell’art. 14 DPR n. 380/2011. Al
contrario, si prevede che l’intesa o il parere conforme
della Giunta – necessari nel caso in cui la deroga alle
disposizioni urbanistiche ed al regolamento edilizio,
disposta dal Commissario straordinario, ecceda i detti
limiti ex art. 14 - possono intervenire anche
successivamente all’autorizzazione da parte del
Commissario delegato, tenendo luogo, in uno all’assenso
commissariale, del permesso di costruire. Inoltre,
l’art. 1, co. 2, OPCM cit. prevede che l’assenso del
Commissario delegato tiene luogo delle autorizzazioni in
materia paesaggistica, di cui agli artt. 146 e 147 DPR
n. 42/2004;
b1) i titoli autorizzatori
rilasciati dal Commissario delegato “non possono
ritenersi nulli ai sensi dell’art. 21-septies della l.
n. 241/1990 . . . ma semmai annullabili su ricorso di
eventuali controinteressati, per cui il Comune di Roma
non può considerare le autorizzazioni alla realizzazione
degli interventi emesse dal Commissario delegato tamquam
non esset (con ciò che ne deriva riguardo alla
qualificazione abusiva delle opere) almeno fino a quando
esse non vengano annullate dal giudice amministrativo”.
Ciò in quanto, secondo l’appellante incidentale (sulla
base di una ricognizione della normativa vigente: pagg.
14 – 20 appello), “la ripartizione dei compiti tra
organi straordinari e ordinari nell’ambito del Servizio
Nazionale della Protezione Civile avviene in base ad un
criterio di competenza e non di separazione di
attribuzioni, anche se si tratta di organi appartenenti
a Enti/amministrazioni diversi (la sfera di attribuzioni
è ripartita, infatti, all’interno di un “Servizio
Nazionale”)”; dal che consegue che, laddove si ritenesse
che il Commissario delegato ha adottato un provvedimento
che rientra (o è rimasto) nella competenza di un organo
amministrativo ordinario (dirigente del Comune di Roma)
“l’atto non potrebbe considerarsi nullo per difetto
assoluto di attribuzione, ma semmai annullabile per
incompetenza relativa”;
c1) “tutte le autorizzazioni
rilasciate dal Commissario delegato sono state precedute
da conferenze di servizi, in esito alle quali il Comune
ha espresso, nei casi nei quali erano necessarie deroghe
urbanistiche, parere contrario “fatte salve le
prerogative del Commissario delegato”; tale formula è da
intendere come un nulla osta all’esercizio dei poteri
derogatori previsti dalle ordinanze, con particolare
riguardo al d. lgs. n. 380/2001 ed al d. lgs. n. 42/2004
(artt. 146 e 147 relativi all’autorizzazione
paesaggistica);
d1) “l’assenso del Commissario
delegato produce gli stessi effetti del permesso di
costruire e, pertanto, può legittimamente sostituire lo
stesso, che in regime ordinario viene rilasciato
dall’Amministrazione comunale”. Infatti, sulla base
dell’art. 1, comma 2, lett. a) ed aa) OPCM n. 3489/2005,
il Commissario delegato è stato “autorizzato ad
esercitare tutti i poteri di pianificazione urbanistica
straordinaria mediante variante, essendo ascritto allo
stesso il potere di individuare le aree dove localizzare
gli ampliamenti e i potenziamenti degli impianti
natatori”; e ciò con un potere di deroga anche più ampio
di quello già previsto dall’art. 14 DPR n. 380/2001, in
quanto la citata OPCM “ha riconosciuto al Commissario
delegato la possibilità di approvare i progetti degli
impianti sportivi derogando alle destinazioni
urbanistiche di zona, purchè tali interventi risultino
inclusi nel Piano delle opere di cui all’art. 1, comma
2, lett. a) . . . che costituisce esso, ove occorra,
variante agli strumenti urbanistici”. Peraltro, “le
richiamate disposizioni contenute nelle citate ordinanze
non sono state impugnate dal Comune di Roma e,
pertanto., non possono essere arbitrariamente
disapplicate dallo stesso”;
e1) “l’OPCM n. 3489/2005 e ss. mm.
ii.., conferisce al Commissario delegato per i mondiali
di nuoto di Roma 2009 anche il potere di autorizzare
l’esecuzione degli interventi”; infatti,
l’interpretazione “letterale e logica” delle Ordinanze
“induce inequivocabilmente a ritenere che al Commissario
è stata conferita non solo la prerogativa di approvare
l’inserimento degli interventi edilizi nell’ambito della
pianificazione urbanistica generale (il Piano delle
opere, che ha valore, ove occorra, di variante al piano
regolatore del Comune . . . ) ma anche il potere di
autorizzare l’esecuzione dei singoli interventi edilizi
mediante il rilascio di un permesso di costruire o di un
atto equipollente”. Depongono in tal senso sia
considerazioni di ordine letterale (v. pagg. 35 – 37
appello), ma anche di ordine logico (v. pagg. 38 – 44
appello). Secondo l’appellante Presidenza del Consiglio,
infatti, “il giudice penale – alla cui tesi il Comune di
Roma ha espressamente aderito nella nota dirigenziale
impugnata in I grado – ha sostenuto che il Commissario
delegato non poteva rilasciare il permesso di costruire
in quanto l’OPCM non contempla, fra le disposizioni
derogabili dal Commissario, l’art. 13 del DPR n.
380/2001” (tesi poi condivisa dal TAR Lazio). A fronte
di ciò secondo l’appellante, occorre osservare: e1.1)
che “l’art. 5 della l. n. 225/1992 esige nelle ordinanze
di protezione civile “l’indicazione delle principali
norme cui si intende derogare” e non di tutte”, di modo
che la mancanza di un esplicito riferimento all’art. 13
cit. “non è affatto sufficiente per dimostrare che il
Commissario delegato non aveva la competenza ad
autorizzare l’esecuzione degli interventi”; in sostanza,
“il riconoscimento del potere autorizzatorio del
Commissario delegato non presuppone l’estensione
analogica di norme eccezionali ma la semplice
interpretazione sistematica e logica delle norme
istitutive dei poteri commissariali” (v., in proposito,
la prevista deroga agli artt. 7 e 20 DPR n. 380/2001;
e1.2) seguendo la tesi della
sentenza appellata, “risulterebbe inspiegabile la
previsione della facoltà di deroga all’art. 14 del DPR
n. 380/2001, che concerne il rilascio del permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali,
se poi si dovesse concludere che il Commissario delegato
poteva solo prevedere gli interventi in via di
pianificazione urbanistica ma giammai autorizzarne
l’esecuzione. Al contrario, proprio la possibilità di
derogare all’art. 14 conferma che la competenza a
rilasciare il permesso di costruire doveva ritenersi
ricompresa nei compiti del Commissario sia pure con i
limiti poi circostanziati”;
e1.3) contrariamente a quanto
sostenuto nel giudizio di I grado dal Comune di Roma,
“le ordinanze di protezione civile possono derogare
anche alle norme sulla competenza (che anzi sono le
prime norme ad essere derogate) e, in generale, a
qualsiasi disposizione di legge con il solo limite dei
principi generali dell’ordinamento”;
f1) “il Commissario delegato ha
rilasciato il titolo autorizzatorio edilizio con il
provvedimento di raggiunta intesa sul quale la Giunta e
l’assessore ai lavori pubblici e alle periferie del
Comune di Roma hanno espresso la propria formale intesa
il 6 luglio 2009”. Contrariamente a quanto ritenuto dal
Comune di Roma con il provvedimento impugnato in I
grado, “il permesso di costruire o altro titolo
autorizzatorio esiste, è stato rilasciato dal
Commissario delegato e sull’intervento edilizio il
Comune ha prestato . . . la prescritta intesa ai fini
urbanistici”. Da ciò consegue che “le opere realizzate
non possono essere ritenute abusive fino a quando il
titolo autorizzatorio rilasciato dal Commissario
delegato, sul quale il Comune ha espresso la propria
intesa, non venga annullato dal giudice amministrativo
su ricorso di eventuali controinteressati” e quindi “il
tentativo del Comune di Roma di considerare i
provvedimenti del Commissario delegato tamquam non
esset, sulla scorta delle considerazioni formulate dal
giudice penale in fase di conclusione delle indagini
preliminari, appare dunque illegittimo”.
4. Si è costituita in giudizio Roma
Capitale (già Comune di Roma), che ha concluso per il
rigetto degli appelli, stante la loro infondatezza, e
per la integrale conferma della sentenza di I grado.
In particolare Roma Capitale (pur
non formulando e/o riproponendo apposita eccezione),
osserva che “se un errore il TAR ha commesso, questo è
stato proprio nell’attribuire carattere provvedimentale
ad una mera nota del Dipartimento IX, quella dell’11
gennaio 2010, con la quale l’ufficio si è limitato solo
a riscontrare l’irritualità della domanda ex art. 36
T.U. n. 380/2001 siccome presentata dalla soc. Salaria
Sport Village”. Ne consegue, secondo la difesa del
Comune, che “se per questa difesa neppure il primo dei
due atti gravati in primo grado aveva natura di
provvedimento, è scontato affermare che ha fatto bene il
TAR a negare tale carattere al secondo documento, quello
del 26 gennaio 2010, che è solo meramente ricognitivo di
una attività già svolta da tempo”.
Inoltre, Roma Capitale, replicando
ai motivi di appello (v. pagg. 8 – 12 memoria dep. 3
maggio 2011), afferma che “l’art. 13 del T.U. n.
380/2011 è quindi una norma di principio che mira ad
evitare che l’organo politico si sostituisca a quello
gestionale, prevaricandone le funzioni e le prerogative
. . . in nessuna delle quattro ordinanze presidenziali
la norma in questione è menzionata”, di modo che “se
l’art. 13 non è richiamato vuol dire che non si voleva
che il Commissario rilasciasse lui i permessi di
costruire”. Quanto alla “raggiunta intesa”, si rileva
che questa “è stata raggiunta tra il Commissario e gli
organi politici dell’amministrazione civica (Giunta
Comunale e Assessore) i quali sono proprio quelli che
l’ordinamento giuridico non vuole che si sostituiscano
agli organi dell’apparato burocratico. Se le varie OPCM
non hanno mai voluto derogare alla disposizione secondo
la quale il permesso di costruire è rilasciato dal
dirigente dell’ufficio competente, è ovvio che
quell’atto di raggiunta intesa non può in nessun caso
equivalere od essere reso equipollente al titolo
edilizio, il cui rilascio non compete né alla Giunta né
ad uno dei suoi componenti”.
Si è altresì costituito in giudizio
il “Circolo Canottieri Aniene associazione sportiva
dilettantistica”. Quest’ultimo ha precisato che “la
propria posizione è completamente diversa da quella
della ricorrente in appello avendo realizzato per conto
del Comune un impianto pubblico – per giunta da ultimo
espressamente approvato con la più recente delibera del
Comune di Roma n. 290 del 22 settembre 2010 – ma che
comunque la sentenza non si dimostra immune da vizi
contestati in ordine ai poteri del Commissario
delegato”.
In particolare, il Circolo
Canottieri Aniene – cui è stato a suo tempo notificato
il ricorso per motivi aggiunti, proposto dalla soc.
Salaria sport village avverso la delibera GC 30 giugno
2010 n. 196 – eccepisce l’inammissibilità del detto
ricorso per motivi aggiunti, posto che “la ricorrente
lamenta un preteso contenuto restrittivo di quella
determinazione senza però avere dimostrato di aver
preventivamente chiesto, e poi essersi vista denegata
implicitamente o meno, l’estensione anche alla propria
posizione dell’accertamento di conformità effettuato dal
Comune a favore degli impianti sportivi di proprietà
comunale”.
All’odierna udienza, dopo
l’intervenuto deposito di ulteriori memorie difensive,
la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
5. Gli appelli della Salaria Sport
Village e della Presidenza del Consiglio dei Ministri
sono fondati e devono essere, pertanto, accolti, nei
sensi e limiti di seguito esposti.
L’oggetto della presente
controversia è, innanzi tutto, rappresentato dalla
riconducibilità (o meno) dell’atto di assenso rilasciato
dal Commissario delegato per i mondiali di nuoto Roma
2009 al permesso di costruire, previsto dall’art. 13 DPR
n. 380/2001. In tal senso si esprime anche la sentenza
appellata, laddove afferma che “il thema decidendum
della controversia è costituito dalla verifica della
idoneità o meno del provvedimento di raggiunta intesa
del 18 giugno 2008 a fungere da titolo abilitativo,
atteso che l’esito di tale verifica è inevitabilmente
destinato a riflettersi sul giudizio di legittimità del
provvedimento impugnato che, ritenendo assente un idoneo
titolo abilitativo, ha qualificato come abusivi gli
interventi realizzati”.
La suddetta riconducibilità è
esclusa dal giudice di I grado, secondo il quale, poiché
l’art. 5 l. n. 225/1992, “nell’attribuire il potere di
ordinanza in deroga alle leggi vigenti, determina un
ribaltamento nella gerarchia delle fonti normative
presenti nel nostro ordinamento, investendo l’autorità
amministrativa del potere di derogare alla norma
ordinaria, sia pure nel rispetto dei principi generali”,
esso “deve qualificarsi come norma eccezionale, che
necessita di strettissima interpretazione e tale
esigenza, se possibile, è ancora più rafforzata nella
fattispecie in esame dal fatto che non si versa in una
situazione emergenziale, ma si è in presenza di un
“grande evento”, circostanza alla quale si applicano le
norme di cui all’art. 5 l. n. 225/1992, per effetto
dell’estensione prevista dall’art. 5bis, co. 5, d.l. n.
343/2001.
Da ciò consegue che “le norme che
il Commissario delegato è stato autorizzato a derogare
sono solo quelle e soltanto quelle espressamente
indicate nell’OPCM n. 3489/2005, non essendo consentito
all’interprete – in ragione del carattere di evidente
eccezionalità della norma attributiva del potere di
ordinanza, che consente ad una fonte di rango inferiore
di derogare ad una fonte normativa superiore – alcuna
operazione estensiva, quantunque quest’ultima sia basata
su plausibili argomenti ermeneutici”.
E poiché l’art. 13 DPR n. 380/2001
(relativo alla competenza al rilascio del permesso di
costruire) non è ricompreso tra le norme espressamente
indicate come “derogabili” dalla OPCM n 3489/2005 (che
pure ne indica altre del medesimo DPR), ne consegue che
sussiste un difetto assoluto di attribuzione del potere
di rilasciare permessi di costruire in capo al
Commissario straordinario.
Proprio il riscontrato difetto
assoluto di attribuzione comporta – secondo la sentenza
appellata – non già l’annullabilità (come conseguenza
dell’illegittimità) del permesso di costruire
(provvedimento di raggiunta intesa del 18 giugno 2008),
bensì la sua nullità ex art. 21-septies l. n. 241/1990,
di modo che “correttamente l’amministrazione comunale,
con l’atto impugnato, ha sostanzialmente ritenuto lo
stesso tamquam non esset”.
Ne è conseguito, in I grado, il
rigetto del ricorso proposto e, dunque, la sostanziale
declaratoria di legittimità della impugnata nota 11
gennaio 2010 prot. n. 1312 del Comune di Roma, con la
quale:
- si è richiamato “il contenuto del
decreto di sequestro preventivo in cui il giudice per le
indagini preliminari . . . ha ritenuto che gli
interventi realizzati in base al provvedimento di
autorizzazione rilasciata dal Commissario delegato sono
da considerare “privi di titolo” in quanto realizzati
“in mancanza del prescritto permesso di costruire”;
- si è richiamato quanto affermato
dal Tribunale del Riesame che, in sede di convalida del
predetto decreto, ha affermato che “in merito alla
“presunta equipollenza dell’atto finale della procedura
autorizzatoria, posta in essere dal Commissario
delegato, ad un valido permesso di costruire”, la
competenza per il rilascio del predetto permesso resta,
anche nel caso particolare in questione, all’ente
preposto alla gestione del territorio”;
- si è richiamato un parere
dell’Avvocatura Municipale, la quale “ha ritenuto che
gli interventi devono essere realizzati in assenza del
titolo autorizzativo”, sia pure con distinzioni “in
funzione del diverso regime giuridico della proprietà e
dei diversi rapporti pubblico/privato intercorrenti tra
le società realizzatrici e il Comune di Roma”;
- si è infine concluso per la
impossibilità di regolarizzazione delle opere, poiché
l’istanza inoltrata “non è riconducibile ad una
richiesta di permesso in sanatoria”.
La ricostruzione del I giudice è
contestata dagli appellanti, in particolare con i motivi
di appello sub b) (appello Salaria Sport Village) e sub
d1), e1) ed f1) dell’esposizione in fatto (appello
incidentale Presidenza del Consiglio dei Ministri),
motivi con i quali si nega, con una pluralità di
argomentazioni, che l’interpretazione delle norme sui
poteri di deroga del Commissario debba essere di tipo
esclusivamente letterale, ritenendosi, invece,
ampiamente ricompreso in tali poteri anche quello di
emanare permessi di costruire.
Inoltre, la Presidenza del
Consiglio dei Ministri (motivi di appello sub b1 e f1)
ha negato la possibilità di ritenere nullo ex art.
21-septies l’atto del Commissario del 18 giugno 2008,
costituente permesso di costruire, essendo lo stesso,
semmai, annullabile, di modo che il Comune di Roma non
avrebbe potuto adottare l’atto impugnato, fin tanto che
il precedente provvedimento commissariale non fosse
stato eliminato da mondo giuridico.
6. Al fine di meglio comprendere i
profili in diritto della presente controversia, e quindi
affrontare il thema decidendum della stessa, come sopra
delineato, il Collegio ritiene opportuno ricordare la
disciplina normativa delle cd. ordinanze commissariali
in deroga ed i limiti ad esse posti, sia dal legislatore
sia dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
L’art. 5 della legge 24 febbraio
1992 n. 225, concernente “stato di emergenza e potere di
ordinanza”, prevede, tra l’altro, che:
“1. Al verificarsi degli eventi di
cui all'articolo 2, comma 1, lettera c) , il Consiglio
dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio
dei Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi
dell'articolo 1, comma 2, del Ministro per il
coordinamento della protezione civile, delibera lo stato
di emergenza, determinandone durata ed estensione
territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla
natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede
alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir
meno dei relativi presupposti .
2. Per l'attuazione degli
interventi di emergenza conseguenti alla dichiarazione
di cui al comma 1, si provvede, nel quadro di quanto
previsto dagli articoli 12, 13, 14, 15 e 16, anche a
mezzo di ordinanze in deroga ad ogni disposizione
vigente, e nel rispetto dei princìpi generali
dell'ordinamento giuridico .
3. Il Presidente del Consiglio dei
ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell'articolo
1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della
protezione civile, può emanare altresì ordinanze
finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori
danni a persone o a cose. Le predette ordinanze sono
comunicate al Presidente del Consiglio dei ministri,
qualora non siano di diretta sua emanazione.
4. Il Presidente del Consiglio dei
Ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell'articolo
1, comma 2, il Ministro per il coordinamento della
protezione civile, per l'attuazione degli interventi di
cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, può avvalersi
di commissari delegati. Il relativo provvedimento di
delega deve indicare il contenuto della delega
dell'incarico, i tempi e le modalità del suo esercizio.
5. Le ordinanze emanate in deroga
alle leggi vigenti devono contenere l'indicazione delle
principali norme a cui si intende derogare e devono
essere motivate.”.
Successivamente, l’art. 4 d.l. 31
maggio 2005 n. 90 (conv. in l. 26 luglio 2005 n. 152),
ha previsto, per quel che interessa nella presente sede,
che:
(comma 1) “Al fine di garantire
l'uniforme determinazione delle politiche di protezione
civile, delle attività di coordinamento e dei relativi
poteri di ordinanza, nonché il consequenziale, unitario
ed efficace espletamento delle attribuzioni del Servizio
nazionale della protezione civile, è attribuita, ai
sensi del disposto di cui all'articolo 1, comma 2, della
legge 24 febbraio 1992, n. 225, la titolarità della
funzione in materia di protezione civile al Presidente
del Consiglio dei Ministri che può delegarne l'esercizio
ai sensi dell'articolo 9, comma 2, della legge 23 agosto
1988, n. 400, fatte salve le competenze regionali
previste dalla normativa vigente.”
Dunque, a seguito di uno degli
eventi indicati all’art. 2, comma 1, lett. c) della
medesima legge (e precisamente “calamità naturali,
catastrofi o altri eventi che, per intensità ed
estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e
poteri straordinari”), dichiarato lo stato di emergenza
dal Consiglio dei Ministri, (che deve contestualmente
determinare “durata ed estensione territoriale in
stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli
eventi”), possono essere emanate ordinanze “in deroga ad
ogni disposizione vigente, e nel rispetto dei princìpi
generali dell'ordinamento giuridico”; e ciò:
- per l’attuazione degli interventi
conseguenti alla dichiarazione dello stato di emergenza
(comma 2);
- per “evitare situazioni di
pericolo o maggiori danni a persone o a cose” (comma 3).
Né può essere ritenuto dubbio che anche queste ultime
ordinanze possono essere “in deroga”, posto che – benchè
il legislatore non abbia ripetuto al comma 3 la
previsione espressa al comma 2 – con esse si affrontano
problemi strettamente connessi all’evento calamitoso;
inoltre l’art. 5 prevede per tutte le ordinanze da esso
contemplate le medesime forme di pubblicità e di tutela
per i soggetti da esse pregiudicati, né dal tenore
letterale delle singole disposizioni si evincono
distinzioni tra le ordinanze di cui ai commi 2 e 3.
In definitiva, l’esercizio del
potere di ordinanza “in deroga” necessita sia della
previa dichiarazione dello stato di emergenza, e quindi
del rispetto dei dati territoriali e temporali ivi
previsti, sia di una chiara finalizzazione di quanto
dall’ordinanza contemplato a fronteggiare situazioni
strettamente connesse alle calamità, catastrofi o altri
eventi di cui all’art. 2, lett. c).
Anche le “situazioni di pericolo”
ovvero i “maggiori danni a persone o cose”, per evitare
i quali è esercitabile il potere di ordinanza (art. 5,
comma 3), devono trovare stretta connessione con il
concreto dato emergenziale. Ed infatti, il richiamo al
“pericolo” da evitare, non può che connettere tale stato
all’evento per il quale vi è stata la dichiarazione,
così come i “maggiori danni” non possono avere, quale
presupposto, che i danni già provocati dall’evento
calamitoso.
Al di là del dato letterale delle
disposizioni, occorre inoltre tenere presente che le
stesse, in quanto “norme eccezionali”, volte ad incidere
(anche) sul quadro delle fonti, non possono che essere
di “stretta interpretazione” (in quanto “eccezionali”,
ex art. 14 disp. prel. cod. civ.), non potendosene
consentire (interpretazioni e quindi) applicazioni, al
di là dei casi strettamente contemplati.
D’altra parte, già prima della
stessa legge n. 225/1992 la Corte Costituzionale,
nell’ammettere le cd. ordinanze “extra ordinem” o
“libere”, ha avuto modo di precisare i limiti entro i
quali è ammesso nel nostro ordinamento l’esercizio di un
siffatto potere e, quindi, l’adozione di tali ordinanze.
La Corte, chiamata a giustificare
tali ordinanze, anche con riferimento alle disposizioni
costituzionali di attribuzione della potestà
legislativa, ne ha affermato la legittimità (sentt. 28
maggio 1987 n. 201 e 30 dicembre 1987 n. 617), nel caso
in cui i provvedimenti siano emanati per motivi di
necessità ed urgenza, sulla base di una specifica
autorizzazione legislativa, la quale, anche se non
disciplina il contenuto dell’atto (che resta a contenuto
libero), deve tuttavia indicarne il presupposto, la
materia, la finalità dell’intervento e l’autorità
legittimata, nonché le dimensioni territoriali e
temporali della concreta situazione di fatto che si deve
fronteggiare.
In particolare, secondo la Corte
Costituzionale (sent. n. 201/1987), “nel nostro
ordinamento costituzionale non sono individuabili
clausole che autorizzino in via generale modifiche, o
anche soltanto deroghe, alla normativa primaria, con
disposizioni relative tanto a casi singoli quanto ad una
generalità di soggetti , . . per l’esercizio da parte di
autorità amministrative di siffatti poteri, con effetto
di deroga – ma non anche di abrogazione e modifica –
della normativa primaria, occorre una specifica
autorizzazione legislativa”. Inoltre “il contenuto delle
disposizioni derogatorie è soggetto a rispettare le
garanzie costituzionali e a non invadere la riserva
assoluta di legge” ed ancora “i poteri con esse
esercitati devono adeguarsi alle dimensioni,
territoriali e temporali, della concreta situazione di
fatto che si tratta di fronteggiare”.
Anche dopo l’entrata in vigore
della legge n. 225/1992, la Corte Costituzionale ha
ribadito come “l'emergenza consista in una condizione
anomala e grave, ma anche temporanea” sostenendo che “i
provvedimenti extra ordinem consequenziali, emanati da
autorità amministrative, debbono essere attuati in
riferimento alla concreta situazione di fatto, con
adeguamento alla dimensione spaziale e temporale di
quest'ultima”; di conseguenza, la Corte (nell’ambito di
un conflitto per attribuzione di potere) ha censurato i
casi in cui, ancorchè l’emergenza fosse cessata da
tempo, il Governo avesse continuato a tenere in vita il
DPCM e la conseguente ordinanza “una volta cessati i
presupposti che ne avrebbero legittimato l'emanazione”
(sent. 14 aprile 1995 n. 127).
Tali considerazioni in ordine ai
limiti del potere di ordinanza sono state già più volte
espresse anche da questo Consiglio di Stato (tra le
altre, sez. VI, 6 settembre 2010 n. 6464), secondo il
quale, in particolare, le situazioni di emergenza prese
in considerazione dall'art. 5, l. n. 225 del 1992
consentono l'esercizio di poteri derogatori della
normativa primaria solo a condizione che si tratti di
deroghe temporalmente delimitate, non anche di
abrogazione o modifica di norme vigenti, e sempre che
tali poteri siano ben definiti nel contenuto, nei tempi,
nelle modalità di esercizio, non potendo in particolare
il loro impiego realizzarsi senza che sia specificato il
nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le
norme di cui si consente la temporanea sospensione.
Quanto alla natura delle cd.
ordinanze extra ordinem, è stato da tempo chiarito che
le stesse non hanno carattere di fonti primarie
dell’ordinamento giuridico, attesa la loro efficacia
meramente derogatoria, e non innovativa,
nell’ordinamento medesimo. La stessa Corte
Costituzionale, con sentenza 28 maggio 1987 n. 201, ha
affermato che “allorquando in riferimento a situazioni
di urgenza e di necessità, la legge attribuisca ad una
autorità – diversa da quelle investite, secondo la
Costituzione di poteri propri e delegati di normazione
primaria – il potere eccezionale di derogare alle stesse
norme primarie con disposizioni relative tanto a casi
singoli quanto ad una generalità di soggetti o a una
serie di casi possibili, tali disposizioni sono
sottoposte al regime degli atti amministrativi”.
Alla stessa conclusione si giunge
sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 9
novembre 1992 n. 418, secondo la quale l’organizzazione
delle funzioni di protezione civile “risulta
indispensabile, ove si considerino l'estrema gravità che
possono assumere gli eventi calamitosi, l'intrinseca
difficoltà delle operazioni di soccorso e l'immediatezza
con cui le stesse devono essere poste in atto. . .
Tenuto conto della rilevanza nazionale delle attività di
tutela nel loro complesso, e dell'ampio coinvolgimento
in esse dell'amministrazione statale, i poteri di
promozione e coordinamento non possono che essere
conferiti al Governo.”
La Corte Costituzionale, dunque,
nell’affermare, nel quadro dei rapporti Stato – Regioni,
la legittimità costituzionale dell’attribuzione allo
Stato dei “poteri di promozione e coordinamento” in
materia, non attribuisce affatto agli atti emanati
nell’esercizio dei poteri suddetti natura di “atto
politico”, come tale non oggetto di impugnazione innanzi
al giudice amministrativo (art 31 R.D. 26 giugno 1924 n.
1054; ora art. 7, comma 1, Cpa), ma riconosce agli
stessi (sent. n. 201/1987), natura di atto
amministrativo.
E ciò vale sia per la deliberazione
con la quale il Consiglio dei Ministri dichiara lo
“stato di emergenza” e per il conseguente decreto (art.
5, co. 1, l. n. 225/1992), sia per le ordinanze del
Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro
delegato (art. 5, commi 2-3), sia per le ordinanze
specificamente emanate dal Commissario nominato proprio
per fronteggiare l’emergenza precedentemente dichiarata
(art. 5, commi 4-5).
Né l’eventuale attribuzione a tali
ordinanze “extra ordinem” o “libere” della qualifica di
“atti di alta amministrazione” le sottrae al sindacato
giurisdizionale, dato che tali atti sono pacificamente
sindacabili dal giudice amministrativo (Cass., Sez. Un.,
7 marzo 2006 n. 4813).
Quanto alla motivazione che deve
sorreggere l’ordinanza extra ordinem, si è affermato
(Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2795), che le
scelte dell'amministrazione straordinaria devono essere
concretamente valutate in rapporto ad una situazione di
emergenza del tutto eccezionale e straordinaria, nella
quale la ponderazione e la comparazione dei diversi
interessi in gioco non segue pedissequamente le regole
ed i criteri che governano l'azione pubblica in
situazioni ordinarie, così che non ogni carenza,
insufficienza o contraddittorietà a livello istruttorio
o di motivazione ridonda automaticamente e
necessariamente in vizio del relativo procedimento,
sotto forma di una delle figure sintomatiche
dell'eccesso di potere.
In definitiva, il giudice
amministrativo, nell’esercizio del proprio sindacato,
deve tenere conto sia della natura di “atto di alta
amministrazione” delle ordinanze in esame – e
conseguentemente della ampia discrezionalità della quale
gode l’amministrazione – sia delle particolari
circostanze (situazioni di calamità che richiedono
urgenza nell’agire) che fungono da presupposto dell’atto
adottato.
Ciò, tuttavia, significa anche che,
a fronte dei limiti del sindacato del giudice, relativi
al modo in cui in concreto il potere è stato esercitato
(e quindi alle scelte in concreto operate
dall’amministrazione con l’atto emanato), il medesimo
sindacato giurisdizionale deve essere invece rigoroso ed
attento nel verificare la sussistenza dei presupposti
per l’esercizio del potere di ordinanza, e quindi la
sussistenza delle ragioni di urgenza e la evidenza della
connessione tra disposizioni adottate e dichiarazione
dello stato di emergenza, oltre a verificare, come è
ovvio, il rispetto dei limiti temporali e territoriali
indicati dalla già citata dichiarazione dello stato di
emergenza; e ciò secondo quanto affermato dalla Corte
Costituzionale.
In caso contrario, il potere in
deroga (ed il “prodotto” del suo esercizio,
rappresentato dalle ordinanze extra ordinem)
rimarrebbero senza alcuna possibilità di controllo in
ordine alla sussistenza dei presupposti per l’esercizio
legittimo, di modo che si verterebbe in una situazione
che, oltre a violare l’art. 113 Cost., risulterebbe
intollerabile per l’ordinamento giuridico nel suo
complesso.
7. Il quadro sinora disegnato – e
che si fonda sull’art. 5 l. n. 225/1992 e sulla
giurisprudenza costituzionale, anche anteriore
all’entrata in vigore di tale disposizione – si è
ulteriormente ampliato, per effetto dell’art. 5-bis,
comma 5, d.l. 7 settembre 2001 n. 343, conv. in l. 9
novembre 2001 n. 401, in base al quale “le disposizioni
di cui all'articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n.
225, si applicano anche con riferimento alla
dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella
competenza del Dipartimento della protezione civile e
diversi da quelli per i quali si rende necessaria la
delibera dello stato di emergenza”.
In base al successivo art. 14 del
d.l. 23 maggio 2008 n. 90 (conv. in l. 14 luglio 2008 n.
123), i provvedimenti adottati sia ai sensi dell’art. 5
l. n. 225/1992, sia ai sensi dell’art. 5-bis d.l. n.
343/2001, non sono soggetti al controllo preventivo di
legittimità previsto dall’art. 3 l. n. 20/1994.
Infine, l’art. 4 d.l. 31 maggio
2005 n. 90 (conv. in l. 26 luglio 2005 n. 152), prevede
(comma 2), per quel che qui interessa, che “ferme le
competenze in materia di cooperazione del Ministero
degli affari esteri, l'articolo 5 della legge 24
febbraio 1992, n. 225, e l'articolo 5-bis, comma 5, del
decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con
modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, si
applicano anche agli interventi all'estero del
Dipartimento della protezione civile, per quanto di
competenza in coordinamento con il Ministero degli
affari esteri.”.
In sostanza, per effetto dell’art.
5-bis, d.l. n. 343/2001, il potere di ordinanza in
deroga, previsto dall’art. 5 l. n. 225/1992,
espressamente richiamato, si estende al di là delle
ipotesi di cui all’art. 2, comma 1, lett. c) della
medesima legge (e precisamente “calamità naturali,
catastrofi o altri eventi che, per intensità ed
estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e
poteri straordinari”), per essere quindi applicabile
anche “alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti
nella competenza del Dipartimento della protezione
civile e diversi da quelli per i quali si rende
necessaria la delibera dello stato di emergenza”.
Tali “eventi” devono essere
individuati in quelli espressamente indicati dal
medesimo art.. 5, co. 1, d.l. n. 343/2001 (“altri grandi
eventi, che determinano situazioni di grave rischio”),
ma che non sono riconducibili a quelli previsti
dall’art. 2, comma 1, lett. c) della l. n. 225/1992,
dato che in relazione agli stessi è prevista la delibera
dello stato di emergenza.
In definitiva, il legislatore ha in
tal modo definito due categorie di eventi cui possono
conseguire, tra l’altro, poteri di ordinanza in deroga:
- eventi naturali o comunque
imprevedibili (quali, appunto, calamità naturali,
catastrofi e simili);
- eventi determinati dalla
decisione dell’uomo, e quindi non imprevedibili, ma che,
per la loro ampiezza ed importanza, ed i rischi che essi
comportano, vengono ritenuti tali da poter essere
ragionevolmente affrontati solo con poteri
straordinari..
La nuova categoria di eventi (cd.
“grandi eventi”), che funge da presupposto per il
conferimento ed esercizio del potere di ordinanza in
deroga, comporta la necessità di applicazione di quelli
che sono i limiti all’esercizio del potere in deroga,
previsti dalla legge e dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale.
In tal senso, la giurisprudenza
della Corte dei Conti (sez. contr., 18 marzo 2010 n. 5),
ha ritenuto, argomentando dal più volte citato art.
5-bis d.l. n. 343/2001, che nella definizione non
rientra qualsiasi 'grande evento', ma solo quegli eventi
che, pur se diversi da calamità naturali e catastrofi,
determinano situazioni di grave rischio per l'integrità
della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente
dai danni o dal pericolo di danni.
In definitiva, occorre affermare
che il “grande evento”, una volta individuato come
presupposto, funge da preciso limite sia territoriale
(in relazione ai luoghi da esso interessati), sia in
relazione ai tempi di esercizio del potere (volti ad
esaurirsi con il cessare del grande evento). Al tempo
stesso, il potere di ordinanza in deroga (che incontra i
limiti derivanti dal rispetto dei principi generali
dell’ordinamento e delle norme costituzionali) deve
essere necessariamente limitato agli interventi ritenuti
necessari per fronteggiare le esigenze che hanno
determinato la stessa concessione del potere di
ordinanza.
Ovviamente, stante la natura di
atti di alta amministrazione riconosciuta alle
ordinanze, le stesse sono sindacabili dal giudice
amministrativo, nei sensi già in precedenza esposti.
8. Il contesto entro il quale si
inquadrano le vicende della controversia è rappresentato
da un “grande evento” (i Mondiali di nuoto Roma 2009),
in ordine al quale sono stati, in particolare, emanati i
seguenti atti:
- il DPCM 14 ottobre 2005, con il
quale “i mondiali di nuoto che si terranno nel
territorio della provincia di Roma nel corso del 2009,
sono dichiarati “grande evento” ai sensi e per gli
effetti dell’art. 5-bis, comma 5, del d.l. 7 settembre
2001 n. 343. . .”;
- l’OPCM 29 dicembre 2005 n. 3489,
con la quale, individuato il commissario straordinario,
allo stesso vengono attribuiti i compiti (tra i quali
quello di “approvare, nel quadro della pianificazione
urbanistica decisa dal Comune di Roma e d’intesa con il
medesimo, il piano delle opere e degli interventi
occorrenti, funzionali allo svolgimento del grande
evento . . .”) e si definiscono (art. 5) le
“disposizioni normative” derogabili “per il compimento
delle iniziative previste dalla presente ordinanza”, tra
le quali gli articoli 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22, 24
e 25 DPR 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni in materia edilizia);
- l’OPCM 6 aprile 2006 n. 3508, la
quale, modificando la precedente ordinanza n. 3489/2005,
prevede, tra l’altro, l’ulteriore compito commissariale
(art. 1, co. 2, lett. aa) di “definire, nell’ambito del
piano di cui alla precedente lett. a), gli interventi
occorrenti per l’adeguata implementazione delle
strutture sportive esistenti, di proprietà pubblica e
privata, funzionali alla celebrazione del grande evento.
. . ed anche in deroga alle vigenti previsioni
urbanistiche d’intesa con l’assessore all’urbanistica
del Comune di Roma”;
- l’OPCM 15 giugno 2007 n. 3597, la
quale, ulteriormente modificando la precedente ord. n.
3489/2005, prevede che l’approvazione del piano delle
opere (art.1, co. 2, lett. a), avvenga “informato
l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma”, anziché
d’intesa con lo stesso, Inoltre, essa prevede che gli
interventi occorrenti per la “adeguata implementazione
delle strutture sportive esistenti” avvengano non solo
in deroga “alle vigenti previsioni urbanistiche” ma
anche in deroga “al vigente regolamento edilizio”,
purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con l’Assessore
l’urbanistica del Comune di Roma “su conforme parere
della Giunta Comunale”;
- l’OPCM 30 giugno 2009 n. 3787, la
quale, nuovamente modificando l’ord n. 3489/2005,
prevede, all'art. 1, comma 2, lettera a), che dopo le
parole “piano delle opere e degli interventi”, sono
inserite le seguenti: “pubblici e privati”.
Essa prevede inoltre, che, all’art.
1, co. 2, lett. aa, sono aggiunti i seguenti periodi:
«Si prescinde dall'intesa con l'assessore
all'urbanistica e dal parere della Giunta comunale di
Roma relativamente agli interventi per i quali la deroga
alle previgenti previsioni urbanistiche e al previgente
regolamento edilizio e' contenuta entro i limiti
consentiti dall'art. 14, comma 3, del decreto del
Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380.
In ogni caso tutti gli interventi pubblici e privati
realizzati devono essere conformi agli strumenti
urbanistici comunali risultanti dalla variante approvata
ai sensi della precedente lettera a) e non possono
essere effettuati in deroga alle norme igieniche,
sanitarie e di sicurezza. L'intesa con l'assessore
all'urbanistica del Comune di Roma o il parere conforme
della Giunta comunale, ove necessari, possono
intervenire in qualsiasi momento, a prescindere dallo
stato di avanzamento degli interventi assentiti dal
Commissario delegato o anche dall'avvenuta realizzazione
degli stessi. L'assenso del Commissario delegato e, ove
necessari, l'intesa con l'assessore all'urbanistica o il
conforme parere della Giunta comunale di Roma, tengono
luogo del permesso di costruire, con gli effetti di cui
all'art. 45, comma 3, del citato decreto del Presidente
della Repubblica n. 380/2001.L’assenso del Commissario
delegato tiene altresì luogo delle autorizzazioni di cui
agli articoli 146 e 147 del decreto legislativo 22
gennaio 2004, n. 42».
Alla luce delle ordinanze sopra
riportate, occorre osservare che, sia pure con atti ed
in tempi diversi, al Commissario delegato sono stati
attribuiti:
- poteri di ordinanza in deroga –
tra l’altro - agli artt. 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22,
24 e 25 DPR 6 giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni in materia edilizia), e ciò fin dalla OPCM
29 dicembre 2005 n. 3489;
- il potere di approvare il piano
delle opere e degli interventi funzionali allo
svolgimento del grande evento (OPCM n. 3489/2005),
“pubblici e privati” (OPCM 3787/2009)
- il potere di definire,
nell’ambito del piano, gli interventi occorrenti per
l’adeguata implementazione delle strutture sportive
esistenti, di proprietà pubblica e privata, funzionali
alla celebrazione del grande evento”, anche in deroga
alle vigenti previsioni urbanistiche d’intesa con
l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma (OPCM n.
3508/2006), poi in deroga anche “al vigente regolamento
edilizio”, purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con
l’assessore l’urbanistica del Comune di Roma “su
conforme parere della giunta Comunale” (OPCM n.
3597/2007); ancora dopo, anche senza intesa e parere, se
la deroga alla disciplina urbanistica ed al regolamento
edilizio è contenuta nei limiti dell’art. 14, co. 3, DPR
n. 380/2001 (OPCM n. 3787/2009);
- il potere di “assenso” (degli
interventi occorrenti per l’adeguata implementazione
delle strutture sportive esistenti, di proprietà
pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del
grande evento) – unitamente, ove necessari, all'intesa
con l'assessore all'urbanistica o al conforme parere
della Giunta comunale di Roma, che tiene luogo “del
permesso di costruire”, con gli effetti di cui all'art.
45, comma 3, DPR n. 380/2001, nonché delle
“autorizzazioni di cui agli articoli 146 e 147 del
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42” (ord. n.
3787/2009).
A fronte di tali atti generali, per
ciò che riguarda la presente controversia (e gli
interventi realizzati e ritenuti dal Comune di Roma
privi di titolo autorizzatorio ed in contrasto con i
vincoli ambientali e paesaggistici), il Commissario
delegato con “provvedimento di raggiunta intesa 18
giugno 2008 n. 3047/RM 2009”:
- “acquisiti i necessari pareri di
competenza da parte delle amministrazioni competenti”
(ma sul parere “non favorevole” del Comune di Roma,
espresso con nota 15 aprile 2008 n. 1966);
- dispone di autorizzare “in deroga
alle prescrizioni del PTP ed alle previsioni degli
strumenti urbanistici vigenti, . . . i lavori di
implementazione dell’impianto sportivo salaria Sport
Village” (art. 1);
- precisa, per quanto attiene alla
deroga alle previsioni del PP Valle del Tevere ed alle
previsioni degli strumenti urbanistici vigenti che
“vengono applicate le prerogative del commissario
delegato previste dall’art. 5 dell’OPCM 3489/2005” (art.
2);
- stante la conformità del decreto
alla determinazione conclusiva della conferenza di
servizi, ed ai sensi dell’art. 14-ter l. n. 241/1990, si
afferma che “il presente decreto . . . sostituisce a
tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione,
nulla osta o atto di assenso, comunque denominato, di
competenza delle amministrazioni ed enti partecipanti
ovvero invitati a partecipare alla conferenza, sempre in
relazione alla conformità urbanistica delle opere”.
Tanto premesso, il Collegio ritiene
opportuno innanzi tutto precisare che le Ordinanze del
Presidente del Consiglio dei Ministri, via via
susseguitesi in relazione al grande evento rappresentato
dai “Mondiali di nuoto Roma 2009” (e la loro
legittimità, anche sotto il profilo della violazione
delle norme sulla competenza) esulano dall’oggetto del
presente giudizio, poiché le stesse non hanno formato
oggetto di impugnazione in I grado, né sono state
considerate dalla sentenza appellata, se non al fine di
verificare se le stesse consentissero (o meno) al
Commissario delegato di derogare all’art. 13 DPR n.
380/2001 e di procedere, quindi, come è avvenuto, al
rilascio del titolo autorizzatorio edilizio.
Non rientra, dunque, nel concreto
ambito del sindacato giurisdizionale di questo Giudice
la verifica di legittimità delle predette Ordinanze,
secondo i criteri di valutazione innanzi evidenziati
(ante, par. 6). Né, tanto meno, questo Giudice – atteso
l’ambito del presente giudizio – può porsi la questione
della eventuale non manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis
(in particolare, comma 5) d. l. n. 343/2001, nella parte
in cui esso estende anche ai cd. “grandi eventi” il
potere di ordinanza in deroga, posto che – non essendo
oggetto del giudizio le Ordinanze commissariali – la
questione non supera il vaglio della sua rilevanza ai
fini del giudizio in corso.
9. Alla luce del thema decidendum
come sopra precisato (sub par. 5), occorre esaminare, in
particolare, l’esatto ambito dei poteri conferiti al
Commissario delegato onde agire in deroga al DPR n.
380/2001 e se, in particolare, tra questi rientri il
potere di rilasciare permessi di costruire, in deroga
all’art. 13 Testo Unico cit., e quindi alla competenza
normalmente attribuita agli organi comunali; e ciò anche
se il citato art. 13 non sia espressamente indicato
nell’ordinanza tra le disposizioni del Testo Unico
Edilizia derogabili.
La sentenza appellata – qualificate
le disposizioni di cui all’art. 5 l. n. 225/1992 come di
“strettissima interpretazione”, poiché “il potere di
ordinanza . . . determina un ribaltamento nella
gerarchia delle fonti” – ha ritenuto che delle medesime
“l’interpretazione deve essere esclusivamente letterale,
limitata cioè alle norme espressamente ed
inequivocabilmente indicate”, negando al contempo che
essa interpretazione possa “essere di tipo sistematico,
cioè volta ad includere, sebbene in ragione di
prospettazioni plausibili, anche norme non
specificamente richiamate”.
Questo Consiglio di Stato ritiene
che, con riferimento alla natura ed ai limiti della
interpretazione delle ordinanze commissariali in deroga,
debba pervenirsi, innanzi tutto sul piano generale, ad
un risultato diverso da quello cui è pervenuta la
sentenza appellata.
Le ordinanze commissariali in
deroga non rientrano nella categoria delle fonti
primarie (attesa la loro efficacia meramente
derogatoria, e non innovativa, nell’ordinamento
giuridico), ma costituisco atti di alta amministrazione,
autorizzati dalla legge, in presenza dei presupposti
(sostanziali e formali) dalla medesima indicati, a
derogare, per ambiti territoriali e temporali
previamente determinati, e fin tanto che vi è
persistenza dei citati presupposti, anche a norme di
rango primario.
Proprio perché l’ordinanza è
autorizzata da norma primaria “eccezionale”, ed è
eccezionale essa stessa, il suo contenuto prescrittivo è
di “stretta interpretazione” (ex art. 14 disp. prel.
cod. civ.), non potendosene consentire (interpretazioni
e quindi) applicazioni, al di là dei casi strettamente
contemplati.
Ma ciò non comporta - come invece
(non condivisibilmente) ritenuto dalla sentenza
appellata - l’obbligo di “interpretazione letterale” (a
ciò riducendo la nozione di “stretta interpretazione”).
E ciò a maggior ragione in presenza – come dalla stessa
sentenza si afferma – di “prospettazioni plausibili”
ovvero di “plausibili argomenti ermeneutici” di segno
contrario, cui il giudice, è da ritenere, sarebbe
impedito di accedere proprio per non poter egli varcare
i confini dell’interpretazione letterale, essendo egli,
dunque, costretto a rinunciare ad una interpretazione
“estensiva” ovvero ad una “di tipo sistematico”.
Un primo, e fondamentale, argomento
contrario alle conclusioni cui è pervenuto il I giudice
è offerto dalla stessa legge n. 225/1992, il cui art. 5
– che costituisce la disposizione di riferimento nel
caso di specie, per effetto del rinvio ad essa operato
dall’art. 5-bis d.l. n. 403/2001 – nel prevedere il
conferimento del potere di ordinanza in deroga, dispone
che oggetto di quest’ultima possa essere “ogni
disposizione vigente”, fermo il rispetto “dei principi
generali dell’ordinamento giuridico” (comma 2), e solo
dovendo le ordinanze “contenere l'indicazione delle
principali norme a cui si intende derogare” (comma 5).
La legge, nell’autorizzare il
potere in deroga alla normativa primaria, proprio per la
non preventivabile definizione dei presupposti che
potranno rendere necessario il potere di ordinanza in
deroga (non a caso la stessa Corte Costituzionale ha
parlato di atti “a contenuto libero”: sent. n.
201/1987), non pone, dunque, alcuna limitazione, per
materia o contenuto, alle disposizioni derogabili,
limitandosi ad affermare il rispetto “dei principi
dell’ordinamento giuridico”, cui occorre senz’altro
aggiungere, sulla scorta della giurisprudenza della
Corte Costituzionale, il limite del rispetto delle
garanzie costituzionali e della riserva assoluta di
legge (Corte cost. n. 201/1987).
Proprio in considerazione della
eccezionalità del potere di ordinanza in deroga (nonché
dell’esperienza di ordinanze commissariali emanate in
assenza di una norma generale presupposta - ante l. n.
225/1992 - e delle indicazioni della giurisprudenza
costituzionale), il legislatore, nel disciplinare la
materia, ha inteso evitare che l’ambito di esercizio del
potere di deroga restasse senza alcuna preventiva
indicazione e delimitazione, prescrivendo quanto meno la
doverosa indicazione delle “principali norme a cui si
intende derogare”.
Mediante tale opportuna previsione,
il legislatore:
- per un verso, ha verosimilmente
inteso evitare di lasciare ex post all’interprete il
sindacato, di volta in volta, sulla legittimità della
concreta deroga operata dall’amministrazione
straordinaria in rapporto all’ambito del suo esercizio
(con un inevitabile abbassamento delle garanzie per il
cittadino);
- per altro verso, non ha ritenuto
sufficiente la mera e generale indicazione di “settori
normativi” (che avrebbe potuto risolversi in una
delimitazione solo apparente dell’ambito delle
disposizioni oggetto di possibile deroga), richiedendo
l’indicazione almeno delle “principali norme a cui si
intende derogare”.
Tale essendo la previsione di
legge, appare evidente – già sulla base di una
interpretazione letterale o di tipo “dichiarativo” della
medesima – come ben difficilmente l’indicazione di norme
derogabili effettuata da una ordinanza commissariale può
risolversi in una indicazione “tassativa” delle
medesime, avendo il legislatore espressamente richiesto
l’indicazione delle “principali” (e quindi non di tutte
le) norme derogabili. Di modo che appare difficilmente
condivisibile, in presenza di una espressa indicazione
di legge riferita alle norme “principali”, una lettura,
come quella offerta dalla sentenza appellata, che
ritiene invece per norme derogabili solo quelle
“espressamente ed inequivocabilmente indicate”.
D’altra parte, la richiesta di
indicare le “principali”, e non “tutte” le norme
derogabili (e quindi di redigere un elenco non esaustivo
delle medesime), desumibile ictu oculi dalla lettera
della legge, risponde in tutta coerenza anche alla
natura ed alle finalità dell’atto oggetto di disciplina,
cioè dell’ordinanza commissariale.
Ed infatti, posto che quest’ultima
è un atto “a contenuto libero”, non essendo tale
contenuto predefinibile proprio in ragione delle
emergenze che con le ordinanze stesse dovranno essere
affrontate e dei problemi che dovranno essere
concretamente risolti, se è del tutto ragionevole una
delimitazione della “libertà di contenuto”
dell’ordinanza, è altrettanto evidente che questo non
può essere convertito nel suo opposto, e cioè in un
contenuto rigidamente predefinito, la cui previsione
sarebbe irragionevole proprio in relazione gli stessi
presupposti che sorreggono l’eccezionalità
dell’intervento.
In definitiva, il legislatore ha
inteso conciliare le due esigenze – la prima, di
effettività ed efficacia dell’azione amministrativa
emergenziale e derogatoria, la seconda di garanzia del
rispetto dell’ordinamento giuridico – attuando tra le
stesse un idoneo bilanciamento. Di modo che occorre,
dunque, escludere che la norma primaria imponga
all’ordinanza commissariale una indicazione tassativa
delle norme da essa derogabili, quasi costituenti queste
ultime un numerus clausus intangibile sia
dall’amministrazione, sia successivamente (in sede di
sindacato giurisdizionale) dall’interprete.
L’argomento desumibile dall’art. 5
(commi 2 e 5) della legge n. 225/1992 è già, di per sé,
sufficiente ad escludere che la previsione
dell’ordinanza con la quale si definisce l’ambito delle
norme primarie derogabili, pur di “stretta
interpretazione”, sia non assoggettabile, nei sensi di
seguito esposti, ad operazioni interpretative che –
lungi dall’ampliare l’ambito della deroga al di là del
consentito – consentano di individuare l’ attinenza
della norma primaria concretamente derogata all’ambito
(alla materia) individuabile sulla base delle
“principali norme” indicate.
Non vi è, dunque, un impedimento
alla interpretazione (nei modi che si preciseranno)
della previsione dell’ordinanza contemplante le
(principali) norme derogabili, ma l’esigenza di
verificare – proprio attraverso gli strumenti ed i
limiti di una “stretta interpretazione” - la rispondenza
della norma derogata (e non espressamente citata)
all’ambito normativo indicato dall’ordinanza ed
individuato per il tramite delle “principali norme”
indicate.
E’ proprio questa l’attività
interpretativa che il giudice di I grado ha non
esattamente ritenuto essergli preclusa, non essendosi
compiutamente considerato, nel precedente grado di
giudizio, né quanto espressamente disposto dall’art. 5
l. n. 225/1992, né gli effettivi limiti
dell’interpretazione della norma eccezionale, ai sensi
dell’art. 14 disp. att. cod. civ., riducendo
quest’ultima, non condivisibilmente, a mera
“interpretazione letterale”.
Ed infatti, oltre agli argomenti
desumibili dallo stesso art. 5 l. n. 225/1992, occorre
osservare che lo stesso art. 14 delle cd. preleggi (il
quale prevede che “le leggi penali e quelle che fanno
eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”)
non comporta l’obbligo di una interpretazione ridotta
alla mera “interpretazione letterale”.
Deve intendersi per “eccezionale”
ogni norma che non sia riconducibile ai principi
generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma
che anzi faccia eccezione ai detti principi o sia in
contrasto con essi. In ragione di ciò, l’art. 5 l. n.
225/1992 è senza dubbio definibile come “norma
eccezionale”, posto che, con lo stesso, si deroga al
principio di gerarchia delle fonti e, in aggiunta, con
l’attribuire efficacia derogatoria non già ad un
atto-fonte, ma ad un atto amministrativo, sia pure di
“alta amministrazione”. Allo stesso modo, devono essere
definite “eccezionali” le concrete previsioni di deroga
a norme di legge contenute nelle ordinanze.
Orbene, con riguardo alle norme
eccezionali, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto
che delle stesse non sia consentita una “interpretazione
analogica” (da ultimo, Cass., sez. lav., 24 maggio 2011
n. 11359; Cass. Civ., sez. III, 29 settembre 2009 n.
20744), mentre ammette che le medesime disposizioni
possano essere interpretate estensivamente (da ultimo,
Cass. Civ., sez. III, 16 luglio 2010 n. 16647; sez. II,
13 aprile 2010 n. 8778; sez. I, 5 marzo 2009 n. 5297).
Anche con riguardo alle norme
penali, la giurisprudenza opera la medesima distinzione,
ritenendo non consentita l’applicazione analogica,
risolvendosi essa in una interpretazione “in malam
partem” (e, ragionevolmente, in una violazione dell’art.
25 Cost.), mentre ammette l’interpretazione estensiva
(Cass. Pen., sez. un., 25 giugno 2009 n. 38691; sez.
III, 22 ottobre 2009 n. 43385 e 13 luglio 2009 n.
39078).
Tale distinzione, tradizionalmente
operata dalla giurisprudenza, appare condivisibile (nei
limiti in cui è possibile affrontare nella presente sede
un problema plurisecolare di teoria dell’interpretazione
giuridica), posto che l’interpretazione analogica
attiene ai metodi di integrazione del diritto (ed è
quindi, secondo talune ricostruzioni, un atto di
costruzione normativa), mentre l’interpretazione
estensiva rientra nei metodi interpretativi propriamente
detti.
Infatti, nel caso della cd.
interpretazione analogica (art. 12, comma 2 preleggi),
in realtà si applica una norma ad un caso che si
riconosce come escluso dal suo campo di applicazione, ma
che tuttavia abbisogna di una disciplina che
l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico.
Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si
estende il significato di un termine o di una locuzione
oltre il suo significato letterale più immediato, al
fine di ricavare dalla disposizione il contenuto
normativo genuino che è in essa presente.
Appare, dunque, del tutto
ragionevole che la locuzione “norma di stretta
interpretazione”, tipicamente utilizzata per le norme
eccezionali, debba essere intesa come escludente la
interpretazione analogica (poiché l’applicazione di una
norma a casi ad essa certamente estranei ne estende
l’ambito di applicazione e quindi infrange la barriera
della “eccezionalità”), ma, al tempo stesso, essa non è
tale da impedire che l’interprete (e comunque chi di
essa debba fare applicazione) ricerchi il più genuino e
congruo significato normativo scaturente dalla
disposizione, anche attraverso il “significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse” e
“l’intenzione del legislatore”.
Diversamente opinando, si perviene
ad affermare che, a fronte di norme eccezionali,
l’interprete debba fermarsi ad una interpretazione
letterale, intendendo quest’ultima, per di più, in una
accezione che la lega meramente ed esclusivamente al
primo, più immediato significato scaturente dalle
parole, precludendosi in tal modo ogni possibilità di
comprensione del dettato normativo per come esso
effettivamente risulta dalla disposizione, dal
coordinamento della stessa con il (più ampio) testo
normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.
Paradossalmente, accedendo ad una
tale “lettura” della “stretta interpretazione” delle
norme eccezionali, occorrerebbe affermare
l’impossibilità della stessa interpretazione secondo
Costituzione (o costituzionalmente orientata) della
norma, non rientrando certamente quest’ultima
nell’ambito della interpretazione letterale.
E’ del tutto evidente, in accordo
con la costante giurisprudenza, che la interpretazione
delle norme eccezionali non può essere di tipo
strettamente letterale, potendo quest’ultima pervenire a
risultati insoddisfacenti, se non paradossali, al punto
da porre l’interprete, come nel caso di specie, innanzi
alla possibilità di altre, anche più plausibili
interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene
tuttavia essergli precluse dal limite di stretta
interpretazione, inteso come interpretazione puramente
letterale.
Proprio in virtù di tale non idonea
conclusione, la sentenza appellata, pur prendendo atto
dell’esistenza di altre “prospettazioni plausibili”, ha
non condivisibilmente concluso negando ogni possibilità
di interpretazione estensiva “quantunque quest’ultima
sia basata (nel caso di specie) su plausibili argomenti
ermeneutici”.
Alla luce di quanto sin qui
esposto, occorre affermare che, con riferimento alle
ordinanze commissariali in deroga, emanate in attuazione
dell’art. 5 l. n. 225/1192, e, più precisamente, con
riguardo alle disposizioni di legge derogabili da esse
indicate, è legittima – sia in virtù d quanto disposto
dal comma 5 del medesimo art. 5, sia in virtù dei
generali canoni interpretativi delle norme eccezionali,
ex art. 14 preleggi – una interpretazione non solo
letterale, ma di tipo estensivo, tenuto per di più conto
della natura meramente indicativa (e non esaustiva)
dell’elenco di norme indicate come derogabili.
10. La operazione di ricomprensione
di uno o più articoli non espressamente indicati, tra
quelli tuttavia derogabili consegue alla verifica, in
primo luogo, della appartenenza della disposizione alla
materia (o al settore della materia) enucleabile, per
mezzo di un procedimento di astrazione, dagli articoli
espressamente indicati; in secondo luogo, dalla
attinenza e coerenza della disposizione con le finalità
che il legislatore ha ritenuto di dover perseguire per
il tramite del potere di ordinanza in deroga, e quindi
applicando un “criterio di effettività” alla
disposizione stessa (ed alla norma in essa contenuta).
Ciò rende necessario verificare –
sulla base della calamità o altro evento eccezionale e
delle finalità di emergenza che si intendono perseguire
– per un verso, la coerenza della deroga da estendere
anche alla disposizione non citata con il potere
derogatorio espressamente conferito e, per altro verso,
la funzionalità anche della ulteriore deroga al
complessivo disegno emergenziale.
Tale operazione interpretativa non
differisce a seconda che si tratti di ordinanze emanate
per fronteggiare calamità e simili (art. 2, co. 1, lett.
c) l. n. 225/1992), ovvero per le ipotesi di “grandi
eventi” (art. 5-bis d.l. n. 343/2001), come invece
adombrato dalla sentenza appellata, laddove afferma che
l’esigenza di “strettissima interpretazione” dell’art. 5
l. n. 225/1992 “è ancora più rafforzata nella
fattispecie in esame dal fatto che non si versa in una
situazione emergenziale, ma si è in presenza di un
grande evento rientrante nella competenza del
Dipartimento della Protezione Civile”.
Fermo quanto già ricordato in
ordine alle norme eccezionali e quindi di stretta
interpretazione, occorre sottolineare che, mentre non è
configurabile una distinzione “ontologica” tra poteri di
ordinanza in deroga afferenti a calamità naturali ovvero
all’organizzazione di grandi eventi (peraltro, in
assenza di indicazioni normative che ciò consentono), al
contrario ogni differenza tra le due specie di ordinanza
(distinte in relazione al presupposto ed alla finalità
perseguita) risalta in concreto, dovendosi, come si è
detto, verificare l’attinenza e la coerenza della
disposizione con le finalità che il legislatore ha
ritenuto di dover perseguire per il tramite del potere
di ordinanza in deroga, e quindi applicando un concreto
“criterio di effettività”.
Nel caso di specie, come si è già
avuto modo di riportare (supra, sub 8), l’ordinanza 29
dicembre 2005 n. 3489 ha previsto, tra le “disposizioni
normative” derogabili “per il compimento delle
iniziative previste dalla presente ordinanza”, gli
articoli 7, co. 1, lett. c), 14, 20, 22, 24 e 25 DPR 6
giugno 2001 n. 380 (Testo Unico delle disposizioni in
materia edilizia).
Per effetto di tale indicazione, si
consente che il Commissario delegato possa derogare:
- alla inapplicabilità delle
disposizioni del Testo Unico alle sole “opere pubbliche
dei Comuni deliberate dal Consiglio Comunale, ovvero
dalla Giunta Comunale, assistite dalla validazione del
progetto” (art. 7, co. 1, lett. c);
- alle ipotesi di “permesso di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici” (art.
14);
- alla disciplina del procedimento
per il rilascio del permesso di costruire (art. 20);
- alla disciplina degli interventi
subordinati a denuncia di inizio di attività (art. 22);
- alla disciplina del certificato
di agibilità (art. 24) ed a quella del procedimento per
il suo rilascio (art. 25).
Tali poteri in deroga sono
conferiti al Commissario, nell’ambito del più ampio
potere attribuitogli
a) di approvare il piano delle
opere e degli interventi funzionali allo svolgimento del
grande evento (OPCM n. 3489/2005), “pubblici e privati”
(OPCM 3787/2009), piano che costituisce “variante agli
strumenti urbanistici”;
b) di definire, nell’ambito di
detto piano, “gli interventi occorrenti per l’adeguata
implementazione delle strutture sportive esistenti, di
proprietà pubblica e privata, funzionali alla
celebrazione del grande evento”, anche in deroga alle
vigenti previsioni urbanistiche d’intesa con l’assessore
all’urbanistica del comune di Roma (OPCM n. 3508/2006),
poi in deroga anche “al vigente regolamento edilizio”,
purchè, in ambedue le ipotesi, d’intesa con l’assessore
l’urbanistica del Comune di Roma “su conforme parere
della giunta Comunale” (OPCM n. 3597/2007); ancora dopo,
anche senza intesa e parere, se la deroga alla
disciplina urbanistica ed al regolamento edilizio è
contenuta nei limiti dell’art. 14, co. 3, DPR n.
380/2001 (OPCM n. 3787/2009).
Orbene, pur escludendo i poteri e
la loro ulteriore definizione, come offerti dalla OPCM
n. 3787/2009 (in quanto ordinanza adottata
successivamente al provvedimento di raggiunta intesa
della cui legittimità quale permesso di costruire si
controverte nella presente sede), appare evidente come
al Commissario delegato siano attribuiti – in relazione
alle opere occorrenti per il grande evento - poteri di
pianificazione urbanistica, comprensivi della
definizione degli interventi di proprietà pubblica e
privata necessari per l’implementazione delle strutture
sportive esistenti.
Ed è in questo ampio quadro di
poteri che al Commissario vengono altresì attribuiti
poteri di agire in deroga alla disciplina edilizia, di
cui al DPR n. 380/2001 e, più specificamente, alle norme
che disciplinano gli stessi procedimenti relativi al
rilascio del permesso di costruire e di costruire in
deroga.
A ben osservare, le ordinanze hanno
inteso definire (per il tramite delle “principali”
disposizioni derogabili), quale ambito di derogabilità,
da parte del Commissario delegato e della sua attività,
proprio quello afferente alla assentibilità (e concreta
utilizzabilità) edilizia delle costruzioni, poiché è
agevole osservare come, attraverso il richiamo alla
disciplina del procedimento per il rilascio del permesso
di costruire, nonché del permesso di costruire in
deroga, nonché degli interventi conseguenti a denuncia
di inizio di attività, si copra interamente l’ambito
dell’attività edilizia assentibile e/o comunque
assoggettata a controllo della Pubblica Amministrazione,
dal momento dell’avvio del procedimento volto a
conseguire il titolo edilizio fino alla concreta
utilizzabilità dell’immobile costruito (per il tramite
della prevista deroga alle norme in tema di agibilità)..
Ne consegue che non vi è ragione,
sulla base delle argomentazioni sin qui svolte, per
ritenere non ricompresa tra le disposizioni derogabili
anche quella relativa alla competenza al rilascio del
titolo autorizzatorio edilizio, disposizione che,
peraltro, appare la meno rilevante a fronte delle altre,
di ben più profondo spessore (ed incidenza sul
territorio) espressamente citate (e costituenti,
appunto, le “principali” disposizioni derogabili, in
ossequio all’art. 5, co. 5, l. n. 225/1992).
D’altra parte, diversamente
opinando, appare del tutto irragionevole che si sia
attribuito al Commissario il potere di derogare alla
(ben più pregnante) disciplina del procedimento di
rilascio del permesso di costruire (art. 20) o degli
interventi subordinati a denuncia di inizio attività
(art. 22), per confermare invece in capo al Comune il
potere di formale rilascio del titolo autorizzatorio
Appare, inoltre, altrettanto
irragionevole negare l’attribuzione al Commissario del
potere di rilascio del permesso di costruire, laddove
gli è stato invece attribuito il (ben più ampio) potere
di derogare alla disciplina del permesso di costruire in
deroga agli strumenti urbanistici che, ai sensi
dell’art. 14, comma 1, riguarda non solo “edifici ed
impianti pubblici”, ma anche di “interesse pubblico”.
Né può essere dimenticato come il
permesso di costruire costituisca atto emanato in
esercizio di potere vincolato. Ed allora - a fronte di
un potere conferito al Commissario delegato di incidere
su ogni aspetto del contesto urbanistico ed edilizio,
ivi comprese la disciplina e la concreta gestione del
procedimento volto al rilascio del medesimo titolo
edilizio – occorrerebbe ritenere, con dubbia
ragionevolezza, che l’unico potere non conferitogli
sarebbe quello di derogare alla competenza al rilascio
di un permesso di costruire, del quale ogni presupposto
contenutistico è stato (da esso Commissario)
anteriormente definito per il tramite dell’esercizio del
potere in deroga.
In definitiva, l’unico potere non
conferito sarebbe quello (meramente formale e totalmente
vincolato) di rilascio del permesso di costruire, con
ciò pervenendosi ad un risultato interpretativo in
evidente difetto di ragionevolezza.
Che di tale natura sia l’approdo
interpretativo non è sfuggito al I giudice, il quale ha
non a caso richiamato l’esistenza di altri “plausibili
argomenti ermeneutici”, di altre “prospettazioni
plausibili”.
E poiché l’unico argomento
utilizzato dalla sentenza appellata per non
ricomprendere, tra le norme derogabili, l’art. 13 DPR n.
380/2001 è, in definitiva, riferito all’impedimento
offerto dai limiti della “stretta interpretazione”, una
volta acclarata l’inesistenza di impedimenti derivanti
dalla natura “eccezionale” della norma, non v’è alcuna
ragione per non accedere ad una interpretazione
ragionevole.
11. Sulla base di quanto sin qui
esposto, devono essere accolti i motivi di appello
proposti dalla Salaria Sport Village (sub b)
dell’esposizione in fatto) e dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri (sub d1), e1), f1)
dell’esposizione in fatto), posto che il Commissario
delegato per i mondiali di nuoto Roma 2010 è titolare
(anche) del potere di incidere sulla competenza al
rilascio del permesso di costruire ex art. 13 DPR n.
380/2001 e, pertanto, il provvedimento di raggiunta
intesa del 18 giugno 2008 costituisce permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 13 cit., così come nel
medesimo affermato (laddove il Commissario dispone di
autorizzare in deroga “alle previsioni degli strumenti
urbanistici vigenti, . . . i lavori di implementazione
dell’impianto sportivo Salaria Sport Village”).
Ovviamente, la riconosciuta
competenza del Commissario delegato a rilasciare il
permesso di costruire rende quest’ultimo legittimato –
contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza
appellata – ad indire la conferenza di servizi ex art.
14 ss. l. n. 241/1990.
Deve, quindi, trovare accoglimento,
per questa parte, il motivo di appello (sub d)
dell’esposizione in fatto), proposto dalla Salaria Sport
Village.
Alle presenti conclusioni, non
ostano, infine, le considerazioni svolte da Roma
Capitale con la propria memoria depositata in data 3
maggio 2011.
Ribadito quanto sin qui affermato
in ordine alla ricomprensione dell’art. 13 DPR n.
380/2001, occorre osservare che l’ordine delle
competenze, come distribuito dalla legge tra enti ed
organi, non si sottrae di per sé alla derogabilità da
parte delle ordinanze commissariali, dovendosi anzi
osservare che tale ordinario assetto di competenze è
inevitabilmente inciso proprio dalla presenza stessa del
Commissario, per effetto dell’esistenza del presupposto
emergenziale.
Come ha avuto modo di osservare la
Corte Costituzionale (sent. n. 418/1992)
l’organizzazione delle funzioni di protezione civile
“risulta indispensabile, ove si considerino l'estrema
gravità che possono assumere gli eventi calamitosi,
l'intrinseca difficoltà delle operazioni di soccorso e
l'immediatezza con cui le stesse devono essere poste in
atto. . . Tenuto conto della rilevanza nazionale delle
attività di tutela nel loro complesso, e dell'ampio
coinvolgimento in esse dell'amministrazione statale, i
poteri di promozione e coordinamento non possono che
essere conferiti al Governo.”.
Né può trovare accoglimento quanto
rappresentato da Roma Capitale, laddove afferma che la
“raggiunta intesa” è stata conseguita “tra il
Commissario e gli organi politici dell’amministrazione
civica (Giunta Comunale e Assessore), i quali sono
proprio quelli che l’ordinamento giuridico non vuole che
si sostituiscano agli organi dell’apparato burocratico.
Se le varie OPCM non hanno mai voluto derogare alla
disposizione secondo la quale il permesso di costruire è
rilasciato dal dirigente dell’ufficio competente, è
ovvio che quell’atto di raggiunta intesa non può in
nessun caso equivalere od essere reso equipollente al
titolo edilizio, il cui rilascio non compete né alla
Giunta né ad uno dei suoi componenti”.
Al contrario, e fermo quanto già
detto in relazione all’art. 13 DPR n. 380/2001, proprio
per effetto dell’eccezionale (e temporaneo)
trasferimento delle competenze, risulta del tutto
ragionevole che il coinvolgimento degli enti, cui è
temporaneamente sottratto l’esercizio di taluni poteri,
avvenga non già a livello di organi dell’attività
gestionale, bensì coinvolgendo gli organi di indirizzo
politico-amministrativo, in quanto legittimati a
tutelare gli interessi della comunità locale
rappresentata.
12. Questo Consiglio di Stato
ritiene, altresì, fondati i motivi di appello proposti
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (sub b1 ed
f1) dell’esposizione in fatto), con i quali
quest’ultima, nel censurare il relativo capo della
sentenza impugnata, ha sostenuto l’impossibilità di
ritenere nullo ex art. 21-septies l’atto del Commissario
del 18 giugno 2008, costituente permesso di costruire,
essendo, semmai, possibile ritenere lo stesso solo
annullabile, di modo che il Comune di Roma non avrebbe
potuto adottare l’atto impugnato, fin tanto che il
precedente provvedimento commissariale non fosse stato
eliminato dal mondo giuridico.
E’, innanzi tutto, evidente che,
per effetto della ritenuta competenza del Commissario
delegato al rilascio di permessi di costruire, il
provvedimento di raggiunta intesa non possa essere
ritenuto “nullo”, ovvero “tamquam non esset”.
Occorre, tuttavia, evidenziare che
la sentenza appellata (in un suo capo avverso il quale
vengono proposti i motivi di appello sopra indicati) ha
escluso che le opere realizzate dal Salaria Sport
Village “non potrebbero essere ritenute abusive fino a
quando il titolo autorizzatorio rilasciato dal
Commissario delegato non sia annullato dal giudice
amministrativo”, poiché, essendo nullo il provvedimento
amministrativo viziato da difetto assoluto di
attribuzione, ex art. 21-septies l. n. 241/1990, “deve
qualificarsi nullo e non meramente annullabile il titolo
abilitativo rilasciato dal Commissario delegato in
assenza del relativo potere in data 18 giugno 2008,
sicchè, correttamente, l’amministrazione comunale con
l’atto impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso
tamquam non esset”.
Orbene, senza voler entrare nella
verifica della identità o diversità intercorrente tra i
concetti di “nullità” del provvedimento amministrativo
ed “inesistenza” del medesimo (che sembrano essere
reputati equivalenti dalla sentenza appellata), il
Collegio rileva che il I giudice ha affermato la
legittimità dell’atto adottato dal Comune di Roma (nota
11 gennaio 2010 prot. n. 1312), posto che rettamente
quest’ultimo avrebbe considerato nullo (o “tamquam non
esset”), il provvedimento del Commissario delegato 18
giugno 2008.
Così pronunciando, tuttavia, il
Tribunale ha:
- per un verso, rilevato di ufficio
la nullità di un atto diverso da quello impugnato,
ritenendo evidentemente ciò necessario ai fini della
verifica della legittimità di quest’ultimo;
- per altro verso, ha ritenuto che
un soggetto dell’ordinamento giuridico (nel caso di
specie, il Comune di Roma), possa legittimamente
ritenere un provvedimento come “nullo” (o “tamquam non
esset”), e quindi agire di conseguenza.
Entrambi gli aspetti - e
precisamente quello relativo al potere del giudice (ed
ai suoi limiti) di rilevare d’ufficio la nullità di un
atto amministrativo (profilo che, peraltro, non ha
formato oggetto di specifico motivo di impugnazione), e
quello relativo alla rilevabilità in sede non
giurisdizionale della nullità dell’atto – meritano
attento approfondimento, posto che i medesimi, anche in
virtù della recente introduzione della invalidità
dell’atto amministrativo sub specie di nullità (sia sul
piano sostanziale, sia su quello, di ancor più recente
disciplina, della tutela processuale), non hanno ancora
ottenuto considerazioni acquisite da parte della
giurisprudenza.
E’ noto che il tema della nullità
(ante l. n. 15/2005, di modifica della l. n. 241/1990),
non era sconosciuto alla giurisprudenza amministrativa.
In particolare, il Consiglio di
Stato (Ad. Plen. n. 2/1992), ha a suo tempo individuato
una serie di norme, la cui violazione ha ritenuto
comportasse una forma di illegittimità “diversa”
dell’atto amministrativo, definita come “illegittimità
forte”. Secondo la citata decisione, se è vero che
“l’illegittimità è la qualificazione tradizionale del
provvedimento non conforme a legge idoneo a ledere anche
interessi particolari”, tuttavia “quando la situazione è
ribaltata perchè il provvedimento non conforme a legge
favorisce il singolo, attribuendogli utilità che non gli
spettano e lede, con effetti continuativi,
principalmente interessi pubblici, la qualificazione di
illegittimità, vuoi per la presumibile mancanza di
soggetti legittimati all’impugnazione, vuoi per le non
improbabili remore dell’autorità emanante ad esercitare
i poteri di autotutela prima della convalescenza
dell’atto per decorso del tempo, non è idonea allo
scopo”.
In tale ultima ipotesi, secondo la
sentenza, “non sorprende, allora, che lo spostamento del
fulcro della garanzia dal polo privatistico a quello
pubblicistico dell’esercizio del potere dia luogo a
quella qualificazione giuridica di “illegittimità
forte”, che è la nullità in senso tecnico”. Ciò in
quanto “per il provvedimento amministrativo, per il
quale il principio generale è che la non conformità a
legge ne determina l’illegittimità, strutturata come
annullabilità, la nullità si produce nei casi
tassativamente stabiliti dalla legge”; in tal senso
“illegittimità e nullità del provvedimento
amministrativo appaiono come il risultato di tecniche
normative fondate su piani di interessi differenti e
ispirate a logiche diverse”.
Anche il giudice penale ha
elaborato (al fine di definire i limiti del proprio
potere di disapplicazione) una sua nozione di
nullità/inesistenza dell’atto amministrativo. Già le
Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione (sent. n.
3/1987), nel restringere notevolmente l’ambito di
esercizio del potere di disapplicazione da parte del
giudice penale, tuttavia lo hanno ammesso nelle ipotesi
di provvedimento rilasciato da organo assolutamente
privo del potere di provvedere ovvero nel caso di atto
giuridicamente inesistente o illecito. Successivamente,
si è sostenuta la possibilità di sindacato incidentale
da parte del giudice penale di fronte ad illegittimità
dell’atto amministrativo “macroscopiche” (Cass. pen.,
sez. III, n. 4421/1996) ovvero “eclatanti” (Sez. III, n.
11988/1997).
Attualmente, l’art. 21-septies l. 7
agosto 1990 n. 241 (introdotto dalla l. n. 15/2005),
prevede che “è nullo il provvedimento amministrativo che
manca degli elementi essenziali, che è viziato da
difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato
in violazione o elusione del giudicato, nonché negli
altri casi espressamente previsti dalla legge.” (comma
1).
A sua volta, l’art. 31, comma 4,
Cpa, prevede che “la domanda volta all'accertamento
delle nullità previste dalla legge si propone entro il
termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità
dell'atto può sempre essere opposta dalla parte
resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice.. .
.”.
Occorre, innanzi tutto, osservare
che, per effetto del citato art. 21-septies, l. n.
241/1990, che enuclea le cause di nullità dell’atto
amministrativo (cause che la giurisprudenza ha
considerato numerus clausus: Cons. Stato, sez. VI, 31
marzo 2011 n. 1983), il “difetto assoluto di
attribuzione” – in passato considerato quale indicatore
di “inesistenza” dell’atto amministrativo – è ora
positivamente indicato quale causa di nullità del
medesimo.
Con riguardo al tema generale della
nullità, si è affermato (Cons. Stato, sez. VI, n.
3173/2007 e n. 891/2006) che “nel diritto amministrativo
la nullità costituisce una forma speciale di invalidità,
che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal
legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla
legge, mentre l’annullabilità del provvedimento
costituisce la regola generale di invalidità del
provvedimento, a differenza di quanto avviene nel
diritto civile dove la regola generale in caso di
violazione di norme imperative è quella della nullità”.
Occorre, inoltre, osservare che,
per il tramite della norma processuale, il legislatore:
- per un verso, ha assoggettato la
declaratoria di nullità dell’atto amministrativo alla
proposizione della relativa domanda al giudice da parte
di chi vi abbia interesse, entro il termine di
centottanta giorni, da intendersi come decorrente dalla
piena conoscenza dell’atto medesimo;
- per altro verso, ha affermato,
anche per la nullità dell’atto amministrativo, sia la
opponibilità “in perpetuum” della nullità ad opera della
parte resistente, sia la rilevabilità di ufficio della
medesima, da parte del giudice.
Come è dato rilevare, la
complessiva disciplina positiva della nullità dell’atto
amministrativo ha recepito solo in parte gli aspetti
salienti di tale forma di invalidità.
Ed infatti, il legislatore, a
fronte di un aspetto tipico della nullità, rappresentato
dalla previsione di un’azione imprescrittibile volta ad
ottenerne la declaratoria da parte di chiunque vi abbia
interesse, ha invece previsto che la detta azione venga
proposta entro il termine decadenziale di 180 giorni (e
ciò sebbene parte della giurisprudenza avesse ritenuto
l’imprescrittibilità dell’azione di nullità: Cons.
Stato., sez. V, n. 4136/2007).
Il legislatore ha invece
positivamente recepito altri aspetti tipici di
disciplina della nullità, quali sono quelli della sua
perpetua opponibilità in giudizio e della rilevabilità
di ufficio da parte del giudice.
Orbene, il fatto che la
rilevabilità di ufficio della nullità sia dall’art. 31,
co. 4, Cpa demandata solo al giudice, esclude che la
medesima nullità possa essere rilevata ex officio dalla
Pubblica Amministrazione (se non attraverso l’esercizio,
ove ne ricorrano i presupposti, del potere di autotutela
su atto proprio).
Ciò appare coerente con il disegno
complessivo del legislatore, che – pur in presenza
dell’introdotto istituto della nullità – ha inteso
conciliare quest’ultima con il più generale principio di
imperatività dell’atto amministrativo, e, quindi, con la
conseguente suscettività di produrre effetti da parte
del provvedimento invalido (ma non ancora dichiarato
tale). E ciò il legislatore ha perseguito sia con il
prevedere un termine di decadenza (onde ottenere la
stabilizzazione delle situazioni giuridiche sorte per
effetto del provvedimento invalido), sia con il limitare
al solo giudice (escludendo tutti gli altri soggetti
dell’ordinamento, e quindi non solo i soggetti privati,
ma anche la stessa Pubblica Amministrazione), il potere
di dichiarare ex officio la nullità, salvo la
possibilità per la P.A., ove ne ricorrano i presupposti,
dell’esercizio del potere di autotutela sull’atto nullo
da essa stessa emanato.
La stessa declaratoria di ufficio
della nullità da parte del giudice, deve essere
correlata al rispetto del principio di corrispondenza
tra chiesto e pronunciato, ex artt. 112 c.p.c. e 39
Cpa., in modo non dissimile da quanto già elaborato
dalla giurisprudenza con riferimento alla possibilità ed
ai limiti della declaratoria di ufficio della nullità
del contratto, ex art. 1421 c.c. (da ultimo, Cass. Civ.,
sez. I, 14 aprile 2011 n. 8539; Cass. Civ. sez. III, 7
febbraio 2011 n. 1956).
Ne consegue che il giudice
amministrativo può di ufficio procedere a dichiarare la
nullità di atti amministrativi (ovviamente in un
giudizio diverso da quello ex art. 31, co. 4 Cpa), solo
se tale declaratoria risulta funzionale alla pronuncia
sulla domanda introdotta in giudizio (e quindi, nel
giudizio impugnatorio, alla declaratoria di
illegittimità dell’atto impugnato e quindi al suo
annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della
domanda di annullamento).
In definitiva, occorre affermare
che il provvedimento amministrativo, ancorchè nullo, ha,
tuttavia, una propria efficacia “interinale” (fin tanto
che la nullità non venga accertata), la quale rende
possibile la stessa definizione dell’atto come
provvedimento amministrativo dotato di imperatività (e
che, pertanto, si impone unilateralmente ai suoi
destinatari).
Questi ultimi non possono sottrarsi
agli effetti dell’atto, ovvero agire come se l’atto non
esistesse e/o fosse improduttivo di effetti, ritenendo
ovvero opponendo la nullità dello stesso, ma, onde
tutelare le proprie posizioni giuridiche, hanno il
potere di agire in giudizio al fine di ottenerne la
declaratoria di nullità. Ciò vale anche per la Pubblica
Amministrazione, avverso provvedimenti emanati da altra
autorità amministrativa ritenuti nulli, ed avverso i
quali la prima amministrazione non è titolare di potere
di autotutela.
Da quanto esposto, consegue che,
nel caso di specie, il Comune di Roma non poteva, sul
piano della concreta attività amministrativa,
“semplicemente” considerare nullo, e quindi “tamquam non
esset” il provvedimento emanato dal Commissario
delegato, così adottando la nota 11 gennaio 2010 (e
motivando la stessa su tale presupposto), non essendo
esso titolare, al pari di ogni altro soggetto
dell’ordinamento diverso dal giudice amministrativo, di
un potere dichiarativo della sussistenza della nullità
dell’atto amministrativo.
Laddove avesse ritenuto l’atto
nullo, il Comune di Roma avrebbe dovuto adire il giudice
per la declaratoria di nullità del medesimo.
Né la suddetta determinazione
poteva essere unilateralmente assunta dal Comune di Roma
sulla base di pronunce del giudice penale, attesa
l’autonomia di valutazione di quest’ultimo (sulla scorta
della citata giurisprudenza in tema di disapplicazione
dell’atto amministrativo) ed i poteri ben differenti del
giudice rispetto all’autorità amministrativa. Ed a
maggior ragione ciò non era possibile nel caso di
specie, e cioè nei confronti di atto emanato da altra
Autorità, a seguito di procedimento che ha coinvolto lo
stesso Comune di Roma.
Non può essere, dunque, condivisa
la sentenza appellata, laddove essa afferma che
“correttamente, l’amministrazione comunale con l’atto
impugnato ha sostanzialmente ritenuto lo stesso tamquam
non esset”, così affermando la legittimità della nota 11
gennaio 2010.
Per le ragioni esposte, sono
fondati, e devono essere pertanto, accolti i motivi (sub
b1) ed f1) dell’esposizione in fatto), proposti dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, posto che i
titoli autorizzatori rilasciati dal Commissario “non
possono ritenersi nulli ai sensi dell’art. 21-septies
della l. n. 241/1990)”.
13. Anche il motivo di appello
proposto dalla Salaria Sport Village sub e)
dell’esposizione in fatto è fondato e deve essere,
pertanto, accolto.
Secondo la sentenza appellata, il
Comune di Roma, con la delibera GC 30 giugno 2010 n.
196, “in modo senz’altro condivisibile . . . non ha
qualificato come pubblici gli impianti di proprietà
privata; qualificazione che avrebbe tra l’altro
comportato l’esenzione dal contributo di costruzione.
Infatti, appare del tutto logico richiedere ai fini
della qualificazione in termini di pubblicità
dell’impianto e di connessi benefici la sussistenza non
solo del requisito oggettivo, ma anche del requisito
soggettivo dell’area di proprietà comunale”. In
conclusione, “si rivela un assunto indimostrato che ogni
intervento compreso nel piano delle opere per i mondiali
di nuoto 2009 sarebbe dovuto essere considerato di
interesse pubblico in quanto realizzato per
un’iniziativa rispondente a tale interesse, a
prescindere dalla circostanza che sia stato posto in
essere su strutture di proprietà pubblica o privata”.
Secondo l’appellante Salaria Sport
Village, tra gli “impianti di interesse pubblico” devono
essere al contrario ricomprese “anche le strutture
gestite da privati in regime di impresa, se rivestono un
interesse lato sensu pubblico, quali gli edifici e le
opere destinati ad attività economiche di interesse
generale”. Ne consegue che “ogni intervento compreso nel
piano delle opere per i mondiali di nuoto 2009 debba
essere considerato d’interesse pubblico, in quanto
realizzato per un’iniziativa rispondente a tale
interesse, a prescindere dalla circostanza che venga
posto in essere su strutture di proprietà pubblica o
privata”.
Orbene, ritiene questo Consiglio di
Stato che, perché un intervento possa essere qualificato
come “di interesse pubblico” – a prescindere dai fini
per i quali tale qualifica è attribuita – ed in assenza
di una espressa previsione normativa, ciò che rileva è
la finalità pubblica che, per il tramite di detto
intervento, si intende perseguire.
Ciò comporta che non è
indispensabile la sussistenza del cd. requisito
soggettivo “pubblico” (l’essere il soggetto autore
dell’intervento una persona giuridica pubblica), né
tanto meno rilevando che l’intervento si attui su
immobili di proprietà pubblica.
Proprio sulla base di tali
considerazioni, la giurisprudenza ritiene di interesse
pubblico:
- gli interventi attuati da privati
su suoli previamente assoggettati a procedimento di
espropriazione per pubblica utilità (ponendosi, in caso
contrario, un conseguente, evidente dubbio circa la
compatibilità della normativa con l’art. 42 Cost.);
- gli interventi di privati per i
quali è stato ritenuto ammissibile il rilascio di
concessione edilizia in deroga (Cons. Stato, sez. V, 11
gennaio 2006 n. 46; sez. IV, 12 gennaio 2005 n. 7031),
- ovvero ancora, gli interventi
effettuati da privati, per i quali è stata riconosciuta
la possibilità di concessione gratuita (Cons. Stato,
sez. IV, 29 maggio 2009 n. 3359).
Con particolare riguardo a tale
ultima ipotesi, questo Consiglio di Stato, con
considerazioni utilizzabili anche nella presente sede,
ha già avuto modo di affermare:
“La giurisprudenza di questo
Consiglio ha ampiamente sottolineato che, ai sensi
dell'art. 9, comma 1, lettera f) della legge 28 gennaio
1977 n. 10, debbono concorrere due requisiti per fondare
lo speciale regime di gratuità della concessione
edilizia e precisamente: un requisito di carattere
oggettivo, attinente al carattere pubblico o comunque di
interesse generale delle opere da realizzare; un
requisito di carattere soggettivo, in quanto le opere
debbono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente, ovvero da soggetti anche privati che non
agiscano per scopo di lucro ovvero abbiano un legame
istituzionale con l'azione dell'Amministrazione volta
alla cura di interessi pubblici (cfr. tra le tante:
Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2008, n. 4761; 6 dicembre
2007, n. 6237; 11 gennaio 2006, 51; Sez. VI, 9 settembre
2008, n. 4296)”.
Nel caso di specie, l’interesse
pubblico delle opere realizzate dal Salaria Sport
Village è testualmente affermato dalle Ordinanze del
Presidente del Consiglio dei Ministri, relative al
“grande evento” dei Mondiali di nuoto Roma 2009, che
hanno sempre considerato tali interventi strettamente
connessi all’evento medesimo e, proprio perché tali,
destinatari del potere di ordinanza in deroga.
In particolare, l’OPCM 6 aprile
2006 n. 3508, modificando la precedente ordinanza n.
3489/2005, prevede, tra l’altro, l’ulteriore compito
commissariale (art. 1, co. 2, lett. aa) di “definire,
nell’ambito del piano di cui alla precedente lett. a),
gli interventi occorrenti per l’adeguata implementazione
delle strutture sportive esistenti, di proprietà
pubblica e privata, funzionali alla celebrazione del
grande evento. . . ed anche in deroga alle vigenti
previsioni urbanistiche d’intesa con l’assessore
all’urbanistica del Comune di Roma”.
L’interesse pubblico connesso agli
interventi, anche privati, è, dunque, testualmente
individuato nella “implementazione delle strutture
sportive esistenti . . . funzionali alla celebrazione
del grande evento”.
Per le ragioni esposte, il motivo
di appello (sub e) dell’esposizione in fatto) proposto
dalla Salaria Sport Village deve essere accolto, con
conseguente annullamento, della sentenza impugnata, per
la parte della stessa relativa al rigetto del ricorso
per motivi aggiunti proposto in I grado, con conseguente
annullamento (per la parte relativa alla Salaria Sport
Village) della delibera GC 30 giugno 2010 n. 196.
Ovviamente, resta fermo il potere
dell’amministrazione di verificare, sulla scorta di
quanto ora affermato, le conseguenze a fini determinati
della sussistenza della finalità di “interesse pubblico”
degli interventi considerati nella presente sede e di
accertare la sussistenza di ogni altro presupposto a
tali fini occorrente.
14. Deve essere, invece, rigettato,
perché infondato, il primo motivo di appello proposto
dalla Salaria Sport Village.
Con tale motivo, l’appellante
lamenta un “error in procedendo” del giudice di I grado,
con riguardo alla inammissibilità dell’azione proposta:
- sia con riferimento
all’annullamento della nota 26 gennaio 2010, poiché “la
portata lesiva dell’atto è riscontrabile nella stessa
circostanza che l’amministrazione abbia ritenuto prive
di titolo le opere realizzate”, in tal modo eliminando
“quelle certezze di solidità del titolo abilitativo
rilasciato dal Commissario delegato, sulle quali la
ricorrente aveva posto legittimo affidamento”;
- sia con riguardo alla domanda di
accertamento dell’equipollenza o della validità a tener
luogo del permesso di costruire del provvedimento di
raggiunta intesa del 18 giugno 2008 e del decreto del 30
giugno 2009 emesso dal Commissario delegato.
Quanto al primo aspetto, la
sentenza appellata ha ritenuto che la nota 26 gennaio
2010, prot. n. QF 1430, non ha natura provvedimentale,
posto che con essa il Comune di Roma – in esito ad una
istanza del 11 novembre 2009 con la quale la Salaria
Sport Village ha chiesto l’espressione di un parere
favorevole sul progetto definitivo “di ampliamento e
potenziamento delle strutture private già esistenti” -
ha fatto presente che in merito a tale progetto, in sede
di conferenza di servizi presso il Commissario delegato,
era stato a suo tempo espresso parere contrario in
quanto lo stesso era incompatibile con i vincoli
paesistico e ambientale e non assentito dagli organi
competenti. Da ciò consegue che – nulla essendo cambiato
sotto il profilo vincolistico – non può che essere
confermato allo stato il suddetto parere contrario. In
questo caso, dunque, si è in presenza di un atto avente
“finalità meramente consultiva”.
Il Collegio condivide le
conclusioni cui è pervenuto, sul punto, il I giudice
Infatti, l’atto adottato dal Comune
di Roma non costituisce un provvedimento di diniego, e,
quindi atto esplicitante talune delle ragioni per le
quali non può procedersi, secondo il Comune di Roma,
alla regolarizzazione delle opere della medesima. Tale
atto, infatti, si limita a .ribadire la posizione in
argomento del Comune di Roma,
Mentre la nota del 10 gennaio 2010
esplicita le ragioni (mancanza di titolo autorizzatorio
edilizio) per le quali non può procedersi ad assentire
la richiesta regolarizzazione, di modo che le è stato
riconosciuto dal I giudice natura provvedimentale, al
contrario la nota 26 gennaio 2010 ha natura meramente
consultiva ed è confermativa di un atto, anch’esso di
natura consultiva, in precedenza assunto; di modo che
non può che affermarsi, in ciò concordando con la
sentenza appellata, che la stessa “non ha portata
direttamente lesiva”.
Quanto al secondo aspetto, la
sentenza appellata ha ritenuto inammissibile la domanda
di accertamento poiché essa (e la relativa azione)
“postula la natura di diritto soggettivo della posizione
giuridica dedotta in giudizio che, nel caso di specie,
ha invece natura di interesse legittimo”.
In disparte ogni preliminare
considerazione in merito alla persistenza dell’interesse
ad agire connesso ad una azione di mero accertamento, in
presenza del conseguito esito positivo dell’azione di
annullamento, le conclusioni alle quali perviene il I
giudice devono essere confermate nella presente sede,
ritenendosi infondate le ragioni prospettate
dall’appellante.
Come è noto, il legislatore
delegato non ha inteso dare (se non parziale) attuazione
al criterio di delega (art. 44, co. 2, lett. b) alinea e
n. 4) della l. n. 69/2009, concernente la previsione di
azioni e pronunce dichiarative nell’ambito del processo
amministrativo. Dal che può affermarsi che le azioni
dichiarative esperibili innanzi al giudice
amministrativo sono esclusivamente quelle espressamente
contemplate dal Codice del processo amministrativo.
Né può ritenersi esperibile
l’azione dichiarativa nell’ambito del processo
amministrativo, in virtù del generale richiamo alle
norme del Codice di procedura civile operato dall’art.
39 Cpa. Ed infatti l’applicazione di dette disposizioni
presuppone che le stesse siano “compatibili o
espressione di principi generali”, laddove proprio la
diversa natura della posizione giuridica soggettiva
tutelata in giudizio, esclude sia “generalità del
principio” sia compatibilità della disposizione.
D’altra parte, proprio la limitata
introduzione dell’azione (e pronuncia) dichiarativa
nell’ambito del giudizio amministrativo, porta
conseguentemente ad escludere (stante la
incompatibilità) la possibilità di ampliare l’ambito
dell’azione dichiarativa medesima.
Tali considerazioni, ora
succintamente espresse, non possono essere superate
dalla diversa ricostruzione dell’interesse legittimo,
offerta dall’appellante Salaria, laddove afferma che
“l’assunto del I giudice muove da una concezione arcaica
dell’interesse legittimo”, atteso che oggi, dopo la
sentenza della Corte di Cassazione 500/1999, le leggi 15
ed 80 del 2005, ed il Codice del processo
amministrativo, “viene, di fatto, riconosciuta la
tutelabilità diretta dell’interesse legittimo, facendo
leva sul carattere sostanziale della posizione e sulla
rilevanza del bene della vita inciso negativamente per
effetto dell’illegittimità del provvedimento, sino a
delineare un sistema di tutela che, prescindendo dalla
caducazione dell’atto, giunge all’accertamento della
fondatezza sostanziale della pretesa”.
Secondo l’appellante, quindi,
“l’interesse legittimo non si atteggia più ad interesse
formale alla legittimità del provvedimento che neghi o
sottragga il bene, ma diventa una pretesa a che una
determinata utilità non venga negata o sottratta se non
alle condizioni prefissate dall’ordinamento. In questa
nuova concezione, il provvedimento amministrativo cessa
di essere l’oggetto principale del giudizio,
costituendone semmai l’occasione, in qualità di mero
presupposto processuale o di condizione dell’azione, per
consentire al giudice uno scrutinio sulla correttezza
del risultato perseguito dalla P.A. mediante l’atto
gravato”.
Orbene, come questo Consiglio di
Stato ha già avuto modo di affermare (sez. IV, 3 agosto
2011 n. 4644), ricostruendo la posizione di interesse
legittimo:
“nell’ambito della situazione
dinamica in cui si pone l’esercizio del potere
amministrativo, dunque, l’interesse è “personale” in
quanto esso si appunta solo in capo al soggetto che si
rappresenta come titolare, non è trasferibile né è
consentito al soggetto ampliarne o comunque modificarne
l’ambito di titolarità (inter vivos o mortis causa); ed
è altresì (inscindibilmente con la prima
caratteristica), anche “diretto”, in quanto il suo
titolare è posto in una relazione di immediata inerenza
con l’esercizio del potere amministrativo (per essere
destinatario dell’atto e/o per avere nei confronti
dell’atto una posizione opposta (speculare) a quella del
destinatario diretto).
Da ciò consegue che non possono
esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti
della Pubblica amministrazione in esercizio del potere
amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non
siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto
dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito
del rapporto giuridico di diritto pubblico,
(pre)configurato normativamente . . . Laddove, dunque,
gli attributi di “personale” e “diretto” attengono
all’interesse legittimo in quanto posizione sostanziale,
e consentono di circoscriverne la titolarità,
l’ulteriore attributo di “attuale”, attiene alla
proiezione processuale della posizione sostanziale, alla
emersione della esigenza di tutela per effetto di un
atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio
di potere, che renda dunque necessaria l’azione in
giudizio, onde ottenere tutela, e quindi “utile”, a tali
fini, la pronuncia del giudice.”.
Alla luce di tale ricostruzione
dell’interesse legittimo, dalla quale il Collegio non ha
ragione di discostarsi, consegue a tutta evidenza la
impossibilità di configurare una azione dichiarativa
della sussistenza dell’interesse legittimo.
Ed infatti, se tale posizione
sostanziale risulta percepibile solo nel momento
dinamico dell’esercizio del potere, appare evidente come
essa sfugga ad una operazione di “accertamento”, per
venire ad essere tutelata attraverso il sindacato
sull’esercizio, o sul mancato esercizio (provvedimento
negativo) del potere da parte dell’amministrazione cui
lo stesso è funzionalmente conferito.
In definitiva, l’azione di
accertamento, lungi dal poter avere una propria
autonomia (ed anche una qualche utilità), si confonde
nella più generale azione di annullamento, ottenendo la
posizione giuridica soddisfazione per il tramite
dell’annullamento dell’atto (cui è funzionale il previo
profilo “di accertamento” della pronuncia del giudice)
e, ove necessario, per mezzo del successivo giudizio di
ottemperanza.
Per tutte le ragioni esposte, il
primo motivo di appello proposto dalla Salaria Sport
Village è infondato e deve essere, pertanto, rigettato,
con conseguente conferma, sul punto, della sentenza
appellata.
15. Per tutte le ragioni sin qui
esposte (e ritenuto assorbito ogni ulteriore motivo di
impugnazione), gli appelli proposti dalla Salaria Sport
Village e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri
(in via incidentale) devono essere accolti, nei modi e
limiti sopra precisati, e pertanto, in riforma della
sentenza appellata, ed in accoglimento del ricorso
proposto dalla Salaria Sport Village in I grado, deve
essere annullato l’atto del Comune di Roma 11 gennaio
2010 prot. n. 1312.
Resta fermo che l’annullamento di
tale atto è disposto in relazione alla illegittima
affermazione della insussistenza di titolo
autorizzatorio edilizio per gli interventi realizzati
dalla Salaria Sport Village, a seguito del provvedimento
di raggiunta intesa emesso dal Commissario delegato per
i campionati mondiali di nuoto Roma 2009, restando
impregiudicato ogni accertamento e valutazione della
conformità degli interventi concretamente realizzati con
detto titolo autorizzatorio.
Sempre in riforma della sentenza
appellata, ed in accoglimento del ricorso per motivi
aggiunti proposto in I grado dalla Salaria Sport
Village, deve essere annullata, nei sensi e limiti
innanzi precisati (supra, sub par. 13), la delibera
della Giunta Comunale di Roma 30 giugno 2010 n. 196.
Infine, deve essere rigettato
l’appello, in quanto proposto avverso la declaratoria di
inammissibilità del ricorso proposto in I grado, con
riferimento al richiesto annullamento della nota del
Comune di Roma 26 gennaio 2010 e con riferimento alla
avanzata domanda di accertamento.
Stante la natura e complessità
delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per
compensare tra le parti spese, diritti ed onorari del
doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando
sull’appello proposto da Salaria Sport Village (n.
1626/2011 r.g.), nonché sull’appello incidentale
proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri:
a) accoglie in parte l’appello,
nonchè l’appello incidentale, nei sensi e limiti
precisati in motivazione, e, per l’effetto, in riforma
della sentenza appellata, ed in accoglimento del ricorso
e del ricorso per motivi aggiunti proposti in I grado
dalla soc. Salaria Sport Village; annulla la nota 11
gennaio 2010 n. 1312 del Comune di Roma e la delibera
della Giunta Comunale di Roma 30 giugno 2010 n. 196;
b) rigetta, per il resto, l’appello
proposto dalla Salaria Sport Village, confermando per la
restante parte l’impugnata sentenza;
c) compensa tra le parti spese,
diritti ed onorari del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia
eseguita dall'autorità amministrativa.
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