di Pietro Zarattini
Il c.c.n.l. per l'industria tessile
prevede, come tutti i contratti nazionali di lavoro, un
meccanismo di recesso che viene generalmente attivato
dai sindacati dei lavoratori. Una recente sentenza della
Corte di cassazione ha escluso che tale facolta' possa
essere esercitata anche dal singolo datore di lavoro, il
quale deve percorrere altre strade se intende sottrarsi
legittimamente all'obbligo di applicare il contratto
collettivo. Vediamo quali.
I contratti collettivi di categoria
hanno validità limitata nel tempo e recano in genere una
clausola di rinnovo automatico per periodi annuali,
salvo recesso delle parti da comunicare con congruo
preavviso.
Così, ad esempio, il c.c.n.l. per
le aziende industriali del comparto tessile recita al
terzo comma dell’art. 8, con una formulazione che viene
riprodotta senza variazioni dal 1995: “il contratto,
nella sua globalità, si intenderà successivamente
rinnovato di anno in anno qualora non venga data
disdetta tre mesi prima della scadenza con lettera
raccomandata”.
Anche l’ultimo rinnovo, intervenuto
in data 21 maggio 2010, ha confermato la formulazione
appena riportata, tranne l’ampliamento a sei mesi del
periodo di preavviso in conformità al nuovo modello per
la contrattazione di categoria introdotto dall’accordo
quadro del 2009.
Dal tenore letterale della
disposizione non si ricava l’identità dei soggetti
titolari del potere di intimare la disdetta e ciò può
aprire uno spiraglio ad interpretazioni di segno
diverso.
Proprio basandosi sul presupposto
che il recesso non compete solo alle parti stipulanti ma
anche al singolo datore di lavoro, un’impresa tessile ha
invocato la ricordata clausola contrattuale e comunicato
la disdetta del c.c.n.l. motivandola con l’eccessiva
onerosità sopravvenuta. Va precisato che l’impresa aveva
applicato fino a quel momento il contratto di categoria
e riteneva di sottrarsi legittimamente con l’atto di
recesso, in considerazione della “rovinosa situazione
economico-produttiva” in cui versava, all’obbligo di
erogare ai propri dipendenti i previsti incrementi della
retribuzione tabellare.
Il fondamento giuridico della
decisione aziendale è stato peraltro contestato da una
dipendente che ha fatto ricorso al giudice, lamentando
l’intervenuta riduzione del suo trattamento rispetto
alla dinamica dei minimi tabellari nel settore e
chiedendo pertanto la condanna del datore di lavoro al
pagamento delle differenze retributive che si erano
generate.
Dopo i primi due gradi di giudizio,
conclusi con pronunce non univoche, la questione viene
ora definitivamente risolta dai giudici di legittimità
che hanno rigettato le argomentazioni prospettate
dall’azienda a sostegno della propria impostazione.
La Corte di cassazione (sentenza n.
8994 del 19 aprile 2011) ha infatti affermato, senza
margini di ambiguità, che la titolarità del potere di
disdetta del contratto collettivo nazionale di lavoro,
attribuito dal ricordato art. 8, compete esclusivamente
alle parti stipulanti ossia alle organizzazioni
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
A conferma del proprio pensiero la
Corte ha aggiunto che il singolo datore di lavoro può
essere eventualmente legittimato a disdire un accordo
aziendale, ma ciò per l’appunto nella sua qualità di
parte stipulante.
Soluzioni operative
Alla luce di questa sentenza, al
datore di lavoro che applica un determinato contratto
collettivo di categoria e che intende liberarsi da tale
obbligo, senza rendersi inadempiente nei confronti dei
lavoratori, si offrono due strade alternative:
- se l’impresa è iscritta
all’associazione imprenditoriale stipulante, è
necessario risolvere in primo luogo, nei modi e nei
tempi previsti, il rapporto associativo da cui discende
l’efficacia vincolante del c.c.n.l.;
- se l’impresa non è iscritta e
l’obbligo di applicazione del contratto di categoria
deriva, ad esempio, dal richiamo al trattamento
economico e normativo del c.c.n.l. contenuto nella
lettera di assunzione dei singoli dipendenti, occorre
agire sul piano del rapporto individuale di lavoro per
ottenere una modifica del patto a suo tempo stipulato.
Non sembra invece utilizzabile, per
conseguire l’obiettivo indicato, il ricorso alla
risoluzione del contratto per eccessiva onerosità
sopravvenuta prospettata, come sopra accennato, nella
comunicazione di recesso stilata dall’impresa tessile.
Secondo l’art. 1467 cod. civ. per
determinare la risoluzione di un contratto con
prestazioni corrispettive, come è il contratto di lavoro
subordinato, l’eccessiva onerosità sopravvenuta deve
essere causata dal verificarsi di avvenimenti
straordinari e imprevedibili, non rientranti nell’alea
normale del contratto.
La mera difficoltà del datore di
lavoro di adempiere al suo obbligo retributivo, causata
da fatti contingenti di carattere economico e
organizzativo, non consente quindi il recesso
unilaterale mentre può giustificare l’attivazione di
altri rimedi predisposti dall’ordinamento, come
l’intervento della cassa integrazione.
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