L’art.
30, c. 3 del codice del processo amministrativo, pur non
evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227,
comma 2, c.c., sancisce la regola secondo cui la tenuta,
da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od
omissiva, contraria al principio di buona fede ed al
parametro della diligenza, che consenta la produzione di
danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il
canone della causalità civile imperniato sulla
probabilità relativa, recide, in tutto o in parte, il
nesso causale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve
legare la condotta antigiuridica alle conseguenze
dannose risarcibili (cfr cfr. Tar Sicilia, Catania, IV,
16.12.2010, n. 4735, Cass., S.U.11.1. 2008, n. 577;
Cass. Civ., sez. III, 12.3. 2010, n. 6045). Ne discende,
dunque, la rilevanza, sul versante causale, dell’omessa
attivazione di tutti i rimedi potenzialmente idonei ad
evitare il danno, come fatto che preclude la
risarcibilità di pregiudizi che sarebbero stati
presumibilmente evitati, così come la necessità di
valutare anche l’omissione di ogni altro comportamento
esigibile in quanto non eccedente la soglia del
sacrificio significativo sopportabile anche dalla
vittima di una condotta illecita alla stregua del canone
di buona fede di cui all’art. 1175 c.c.. Pres. De Zotti,
Est. Perrelli - M.A. s.r.l. (avv.ti Tassetto e Zambelli)
c. Regione Veneto (n.c.) -
TAR
VENETO, Sez. II - 7 aprile 2011, n. 582
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Seconda)
ha
pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 3536 del 2000,
proposto dalla società Meneghini Attilio a r.l., in
persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dagli avvocati Annamaria Tassetto
e Franco Zambelli, con domicilio eletto presso
quest’ultimo in Venezia-Mestre, via Cavallotti, 22;
contro
Regione
Veneto, in persona del Presidente pro tempore, non
costituita in giudizio;
per
l'annullamento
del
provvedimento del 19.10.2000 prot. n. 10317/31211, a
firma del Dirigente Regionale, avente ad oggetto
“Domanda in data 14.7.1998, prevenuta in Regione il
17.7.1998 prot. n. 6323/31211, per l’ampliamento della
cava di ghiaia denominata “ALTA PROSDOMICIMI”, sita nei
Comuni di Grantorto e Carmignano di Brenta, Provincia di
Padova”, nonché per la condanna della Regione Veneto al
risarcimento dei danni patiti e patiendi.
Visti
il ricorso e i relativi allegati;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio
2011 il referendario Marina Perrelli e udito l’avvocato
Avino, in sostituzione dell’avvocato Zambelli, per la
parte ricorrente;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
A. Il
14.7.1998 la società ricorrente, titolare della cava
denominata “Alta Prosdocimi”, ubicata a cavallo dei
territori dei Comuni di Carmignano di Brenta e di
Grantorto, chiedeva l’ampliamento del bacino estrattivo.
B. La
Commissione Tecnica Regionale per l’Attività Estrattiva
esprimeva parere favorevole nella seduta del 31.1.2000.
C. La
delibera relativa all’istanza della ditta ricorrente
veniva, quindi, portata più volte in Giunta Regionale,
ma non veniva mai approvata.
D. Il
19.4.2000, con il provvedimento impugnato, il Dirigente
della Segreteria Ambiente comunicava alla società
ricorrente « la necessità che la domanda in oggetto sia
assoggettata alle procedure di cui alla L.R. n.
26.3.1999 n. 10», considerandosi prevalente quanto
segnalato dalla Commissione U.E. – parere motivato del
3.8.2000 prot. s.g. (2000)D/105810 – rispetto a quanto
previsto dall’art. 27, comma 4, della citata legge
regionale.
E. La
società ricorrente deduce l’illegittimità del predetto
provvedimento:
1) per
incompetenza, violazione dell’art. 18 della L.R. n.
44/82, difetto di motivazione in quanto il provvedimento
del Dirigente viola la procedura che assegna la
competenza in materia alla Giunta, né può qualificarsi
come una sospensione della procedura giacché, una volta
completato l’iter istruttorio e trasmessa la pratica
alla Giunta, solo quest’ultima avrebbe dovuto procedere
alle valutazioni in ordine al rilascio o meno
dell’autorizzazione, eventualmente subordinando
l’ampliamento del bacino estrattivo al giudizio di
compatibilità ambientale;
2) per
violazione degli artt. 4 e ss. della legge 241/1990,
violazione della procedura, carenza di istruttoria e
difetto di motivazione poiché la P.A. procedente, prima
di interrompere l’iter relativo alla richiesta di
ampliamento, avrebbe dovuto accertare la necessità di
sottoporre il detto progetto alla procedura di VIA;
3) per
violazione dell’art. 27, comma 4, della L.R. n. 10/1999,
violazione della procedura, sviamento di potere,
erroneità del presupposto in quanto le disposizioni
della detta legge regionale si applicano a decorrere
dalla data di pubblicazione nel B.U.R. delle direttive
di cui all’art. 4 e, segnatamente, la procedura di VIA
non si applica ai progetti per i quali alla data di
entrata in vigore siano state già presentate le istanze
per l’ottenimento delle autorizzazioni o approvazioni;
4) per
eccesso di potere per erroneità di presupposto, carenza
di istruttoria e difetto di motivazione giacché, seppure
la Regione avesse potuto autonomamente disattendere la
propria normativa a fronte di quella comunitaria
contrastante, non era comunque necessaria la
sottoposizione dell’autorizzazione all’ampliamento alla
V.I.A.;
5) per
eccesso di potere per illogicità e carenza di
motivazione in quanto la pratica relativa all’istanza
della ricorrente era completata alla data del 3.4.2000
e, quindi ,la Regione avrebbe dovuto motivare la
riapertura della relativa istruttoria;
6) per
eccesso di potere per disparità di trattamento poiché
l’amministrazione ha approvato molteplici progetti
estrattivi e non è dato comprendere per quale ragione
alcune domande sono state privilegiate a scapito di
altre.
F. Alla
luce delle predette circostanze la società ricorrente
ha, altresì, chiesto il risarcimento dei danni subiti a
causa dell’illegittimo arresto procedimentale e della
conseguente impossibilità di procedere all’ampliamento
del bacino estrattivo, quantificando il pregiudizio in
dieci milioni di euro.
G. La
Regione Veneto non si è costituita in giudizio.
H. Alla
pubblica udienza del 23.2.2011 la causa è stata
trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Il
ricorso è meritevole di accoglimento per le seguenti
ragioni.
2. Il
Collegio ritiene fondati e assorbenti il terzo e il
quarto motivo con i quali la società ricorrente lamenta
l’erronea applicazione della normativa nazionale e
comunitaria in materia di cave, nonché l’erronea
interpretazione del parere motivato della Commissione
Europea del 3.8.2000 e evidenzia, segnatamente,
l’insussistenza dei presupposti prescritti dalla legge
per sottoporre l’istanza di ampliamento del bacino
estrattivo, presentata prima del 14.3.1999, alla V.I.A..
3. E’
pacifico e documentalmente provato che il 14.7.1998 la
società ricorrente chiedeva alla Giunta Regionale
l’autorizzazione all’ampliamento della cava denominata
“Alta prosdocimi”, allegando la planimetria indicante
l’area in ampliamento.
3.1. Il
successivo 3.4.2000 la ditta ricorrente riceveva la
bozza di deliberazione di accoglimento dell’istanza di
ampliamento, predisposta dalla Giunta regionale.
3.2.
Quindi il 19.10.2000 la società ricorrente riceveva il
provvedimento impugnato con il quale il Dirigente della
Segreteria regionale dell’Ambiente le comunicava che la
Regione riteneva necessario assoggettare la domanda di
ampliamento del bacino estrattivo alle procedure di cui
alla L.R. n. 10/1999, a seguito del parere motivato
espresso dalla Commissione Europea il 3.8.2000.
4.
Tanto premesso, occorre evidenziare che nel caso di
specie non sussiste la violazione della direttiva
97/11/CE, recante a sua volta modifiche alla direttiva
85/337/CEE, in materia di valutazione di impatto
ambientale (V.I.A.). La disciplina comunitaria,
all'allegato I, n. 19, assoggetta in termini precettivi
a V.I.A. le "cave e attività minerarie a cielo aperto,
con superficie del sito superiore a 25 ettari", nel
mentre lascia libera la discrezionalità degli Stati
membri circa la possibilità di assoggettare a V.I.A.
tutte le altre "cave" e "attività minerarie a cielo
aperto". A sua volta la L.R. 26 marzo 1999 n. 10, nel
recepire la disciplina testè descritta, assoggetta a
V.I.A., all'all. A1, le "cave e torbiere con più di
500.000 mc. /anno di materiale estratto o di un'area
interessata superiore a 20 ha", e all'all. C1 - peraltro
abrogato ai sensi dell'art. 1 della L.R. 27 dicembre
2000 n. 24 - le "cave e torbiere con materiale estratto
tra 350.000 e 500.000 mc/anno o un'area interessata
compresa tra 15 e 20 ha".
4.1.
Orbene, con norma di interpretazione autentica – art. 24
della legge n. 422/2000 - il legislatore nazionale ha
espressamente previsto che « le domande di
autorizzazione alle quali continuano ad applicarsi le
disposizioni della direttiva 85/337/CEE del Consiglio,
del 27 giugno 1985, nel testo vigente prima della data
di entrata in vigore della direttiva 97/11/CE del
Consiglio, del 3 marzo 1997, sono unicamente quelle per
le quali sia formalmente iniziata l'istruttoria, con la
protocollazione della domanda presso il servizio
competente dell'autorità che deve rilasciare
l'autorizzazione, prima del 14 marzo 1999».
Ne
discende, pertanto, che essendo stata presentata
l’istanza di ampliamento del bacino estrattivo prima del
14.3.1999, alla stessa andavano applicate le
disposizioni di cui alla direttiva 85/337/CEE con
conseguente illegittimità del provvedimento impugnato.
4.2.
Per tali considerazioni il ricorso deve essere accolto
e, per l’effetto, deve essere annullato il provvedimento
impugnato.
5.
Occorre ora passare a esaminare la domanda di
risarcimento dei danni subiti a causa del predetto
provvedimento, proposta dalla società ricorrente.
6. La
domanda non è fondata e va rigetta non essendo stata
fornita, ai sensi dell’art. 2697 c.c., la prova del
danno asseritamente patito.
6.1. La
società ricorrente afferma che l’illegittima e
ingiustificata interruzione della procedura di rilascio
del titolo autorizzativo, determinata dal provvedimento
impugnato, le avrebbe cagionato un ingente danno,
consistente nell’impossibilità di ritrarre un ingente
profitto economico. La società Meneghini quantifica il
pregiudizio patito in euro 10.329.137,98, tenendo conto
della bozza di autorizzazione, trasmessale nell’aprile
2000, che contemplava l’estrazione di un quantitativo di
materiale di circa 1.300.000 mc. e del prezzo netto di
vendita della ghiaia negli anni 2000/2001, oscillante
tra un minimo di 18.000 lire e un massimo di 26.000
lire.
6.2.
Occorre, tuttavia, rilevare che dalla sola lettura della
bozza di autorizzazione predisposta dalla regione si
evince che il progetto di ampliamento presentato il
14.7.1998 comprendeva anche le aree già assentite.
Emerge, inoltre, dalla rammentata bozza che, seppure la
ditta Meneghini, avesse ottenuto il predetto titolo
senza subire l’arresto procedurale determinato dal
provvedimento impugnato, comunque avrebbe dovuto
affrontare una serie di spese, rappresentate dal
versamento della cauzione (pari a un miliardo di vecchie
lire), da quelle per la recinzione dell’area e per la
realizzazione della viabilità interna, nonché per la
presentazione di un programma di ricomposizione
ambientale.
6.3.
Tanto premesso in punto di fatto, la ditta ricorrente
asserisce apoditticamente che il prezzo di
commercializzazione della ghiaia nel 2000/2001 oscillava
da un minimo di 18.000 lire a un massimo di 26.000 lire,
ma non produce alcuna documentazione atta a comprovare
una simile affermazione. Né tanto meno la società
Meneghini produce documentazione contabile (libri
contabili, registri di carico e scarico) idonei a
dimostrare quale fosse all’epoca dell’emissione del
provvedimento impugnato il suo volume di affari, negando
in tal modo al Collegio anche solo la possibilità di
verificare, anche in via ipotetica, se fosse in grado di
immettere sul mercato e di vendere tutta la quantità di
ghiaia estratta in virtù del richiesto ampliamento.
6.4.
Merita, infine di essere rilevato che, ai sensi
dell’art. 30, comma 3, del c.p.a., nel determinare il
risarcimento, "il giudice valuta tutte le circostanze di
fatto e il comportamento complessivo delle parti e,
comunque, esclude il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela
previsti".
6.5.
Come affermato dalla giurisprudenza, formatasi dopo
l’entrata in vigore del c.p.a., l’art. 30 citato, pur
non evocando in modo esplicito il disposto dell’art.
1227, comma 2, c.c., afferma che l'omessa attivazione
degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel
quadro del comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del
principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o
della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria
diligenza (cfr. Tar Sicilia, Catania, IV, 16.12.2010, n.
4735). Il codice del processo amministrativo sancisce,
quindi, la regola secondo cui la tenuta, da parte del
danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva,
contraria al principio di buona fede ed al parametro
della diligenza, che consenta la produzione di danni che
altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone
della causalità civile imperniato sulla probabilità
relativa, recide, in tutto o in parte, il nesso causale
che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la
condotta antigiuridica alle conseguenze dannose
risarcibili (cfr Cass., S.U.11.1. 2008, n. 577; Cass.
Civ., sez. III, 12.3. 2010, n. 6045)..Ne discende,
dunque, la rilevanza, sul versante causale, dell’omessa
attivazione di tutti i rimedi potenzialmente idonei ad
evitare il danno, come fatto che preclude la
risarcibilità di pregiudizi che sarebbero stati
presumibilmente evitati, così come la necessità di
valutare anche l’omissione di ogni altro comportamento
esigibile in quanto non eccedente la soglia del
sacrificio significativo sopportabile anche dalla
vittima di una condotta illecita alla stregua del canone
di buona fede di cui all’art. 1175 c.c...
6.6.
Alla luce dei predetti principi, ritenuti condivisibili
dal Collegio, va evidenziato che nel caso di specie la
società ricorrente, dopo avere impugnato la nota oggetto
del presente ricorso senza peraltro proporre alcuna
domanda cautelare, non risulta essersi attivata presso
l’amministrazione resistente per sollecitarla ad avviare
l’eventuale procedura di V.I.A., se necessaria, ovvero a
emanare gli atti di competenza per concludere l’iter
istruttorio. Né, infine, emerge dalla documentazione
allegata che la società ricorrente abbia sollecitato la
Regione a riesaminare le proprie determinazioni, in sede
di autotutela, anche alla luce della successiva
interpretazione delle disposizioni normative nazionali e
comunitarie poste a fondamento del provvedimento
gravato, risultanti dalla nota prot. 9949/13233
dell’11.10.2000 e prot. 10636/31.211 del 30.10.2000,
prodotte proprio da parte ricorrente.
7. Per
tali ragioni la domanda risarcitoria proposta dalla
società ricorrente va rigettata..
8. Le
spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate
come da dispositivo.
P.Q.M.
Il
Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul
ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per
l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.
Rigetta
la domanda di risarcimento dei danni.
Condanna la Regione alla rifusione delle spese di lite
in favore della società ricorrente che liquida in
complessivi euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre
IVA e CPA come per legge.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.
Così
deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno
23 febbraio 2011 con l'intervento dei magistrati:
Angelo
De Zotti, Presidente
Angelo
Gabbricci, Consigliere
Marina
Perrelli, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE
IL
PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il
07/04/2011
IL
SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.) |