Con sentenza n. 15986 del 7 luglio
2010 la Terza Sezione civile della Corte di Cassazione
ha stabilito che “nel comodato precario avente ad
oggetto un bene immobile, la determinazione del termine
di efficacia del vinculum iuris è rimessa in via
potestativa alla sola volontà del comodante, che ha
facoltà di manifestarla ad nutum con la semplice
richiesta di restituzione del bene, senza che assuma
rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato
adibito ad uso familiare ed assegnato, in sede di
separazione dei coniugi, all’affidatario dei figli”.
Com’è noto, il comodato (o prestito
d’uso) è il contratto con cui, secondo quanto dispone
l’art. 1803, comma 1, Codice Civile, una parte (c.d.
comodante) consegna all’altra parte (c.d. comodatario)
una cosa, mobile o immobile, “affinché se ne serva per
un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di
restituire la stessa cosa ricevuta”. Aggiunge il comma 2
del citato articolo che esso è “essenzialmente
gratuito”.
Il contratto di comodato cessa alla
scadenza del termine pattuito ovvero, in mancanza di un
termine, quando il comodatario si è servito della cosa
per l’uso convenuto (art. 1809, comma 1, c.c.);
tuttavia, il comodante, senza dover attendere lo spirare
del termine di scadenza o che il comodatario abbia
terminato di servirsi della cosa che ha concesso
gratuitamente in prestito, può esigerne la sua immediata
restituzione qualora sopravvenga un urgente ed
impreveduto bisogno (cfr. art. 1809, comma 2, c.c.). E’
altresì prevista la restituzione immediata della cosa
qualora il contratto non preveda un termine né questo
possa essere stabilito dall’uso cui la cosa è destinata
(c.d. comodato precario, art. 1810 c.c.), nonché in caso
di morte del comodatario (art. 1811 c.c.), a
sottolineare il carattere fiduciario del rapporto, e,
infine, ai sensi dell’art. 1804, comma 3, c.c., nel caso
di inadempimento alle obbligazioni del comodatario
medesimo previste dall’anzidetto articolo ai commi 1 e
2.
Particolari questioni di disciplina
sorgono nell’ipotesi, come quella sottoposta all’esame
della Corte di Cassazione nella sentenza che qui si
commenta, in cui un terzo abbia concesso in comodato a
termine indeterminato un bene immobile di sua proprietà
affinché sia destinato a casa familiare e
successivamente i coniugi si separino con assegnazione
in sede giudiziale dell’immobile in favore
dell’affidatario dei figli. In questi casi, infatti, è
essenziale operare un bilanciamento tra l’interesse
della comunità familiare, e specificamente della prole,
alla conservazione dell’ambiente domestico, e quello del
proprietario del bene, che è estraneo alle vicende del
nucleo ed al giudizio tra i coniugi, a recuperarne la
disponibilità.
In materia di separazione personale
dei coniugi, l’art. 155 quater c.c., inserito dall’art.
1, comma 2, della l. 8 febbraio 2006, n. 54, stabilisce
che “il godimento della casa familiare è attribuito
tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei
figli”, specificando, poi, che di tale assegnazione si
debba tener conto nella regolazione dei rapporti
economici tra i genitori.
La disposizione menzionata sembra
abbia recepito quanto pacificamente sostenuto in
giurisprudenza fino all’entrata in vigore della legge
sull’affido condiviso, ovvero che “l’assegnazione della
casa familiare in caso di separazione personale o
divorzio risponda all’esigenza di garantire l’interesse
dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico,
inteso come centro degli affetti, degli interessi e
delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita
familiare” (cfr. Cass. civ., sez. I, 27 novembre 1996,
n. 10538; Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 1998, n. 565;
Cass. civ., sez. I, 8 maggio 1998, n. 4679; Cass. civ.,
sez. I, 23 maggio 2000, n. 6706; Cass. civ., sez. I, 9
settembre 2002, n. 13065; Cass. civ., sez. I, 2 febbraio
2006, n. 2338).
Ora, come anticipato in precedenza,
problemi sorgono nel caso in cui un immobile,
inizialmente concesso a termine indeterminato in
comodato per essere adibito a casa familiare, venga
assegnato, in seguito alla separazione personale dei
coniugi, al coniuge affidatario dei figli.
In proposito, nel secolo scorso, il
principio consolidato espresso dalla giurisprudenza di
legittimità è stato sempre nel senso di ravvisare una
successione ex lege del coniuge assegnatario
nell’originario rapporto di comodato, con conseguente
applicabilità della disciplina propria di tale
contratto, compreso, tra l’altro, il diritto del
comodante di recedere ad nutum dallo stesso (in questo
senso si vedano: Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 1995,
n. 929, che ha peraltro precisato che il provvedimento
di assegnazione, non opponibile ai terzi, è attributivo
non di un diritto reale, ma di un diritto personale di
godimento, variamente segnato da tratti di atipicità,
precisazione confermata successivamente da Cass. civ.,
Sez. Un., 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ., sez.
III, 4 marzo 1998, n. 2407).
Isolata appariva, invece, la
sentenza del 10 dicembre 1996, n. 10977, in cui la
Suprema Corte affermava che, quando il provvedimento di
assegnazione della casa familiare, in seno alla
separazione personale dei coniugi, si renda opponibile
al terzo proprietario e quando l’alloggio sia utilizzato
dai coniugi stessi in virtù di un contratto di comodato
senza predeterminazione di un termine finale, la durata
dell’utilizzazione dell’immobile è governata dalla
disciplina fissata nel provvedimento giudiziale di
assegnazione e non da quella propria del rapporto
originario di comodato.
Sul punto, di poi, intervenivano le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n.
13603 del 21 luglio 2004, le quali, richiamandosi alla
precedente giurisprudenza di legittimità in materia,
avevano aderito all’orientamento allora consolidato che
ravvisava una successione ex lege del coniuge
assegnatario nell’originario rapporto di comodato,
facendo perno sul fatto che “l’ordinamento non
stabilisce una ‹‹funzionalizzazione assoluta›› del
diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che
hanno radice nella solidarietà coniugale o
postconiugale” e, quindi, “il provvedimento giudiziale
di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei
coniugi dalla utilizzazione in atto e a ‹‹concentrare››
il godimento del bene in favore della persona
dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del
comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento
da parte della comunità domestica nella fase fisiologica
della vita matrimoniale”.
Di conseguenza, precisavano le
Sezioni Unite, “ove il comodato sia stato
convenzionalmente stabilito a termine indeterminato
(diversamente da quello nel quale sia stato
espressamente ed univocamente stabilito un termine
finale), il comodante è tenuto a consentire la
continuazione del godimento per l’uso previsto nel
contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un
urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809,
co. 2, c.c.”.
La suddetta sentenza non è andata
esente da critiche da parte della dottrina; in
particolare, autorevole Autore ha definito “un’evidente
forzatura, in nome non già del diritto, ma dell’equità”,
l’interpretazione della Cassazione “perché”, a dire
dell’Autore, “è assurdo entificare la comunità
domestica, quasi fosse una società civile” (Francesco
Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 395).
Nonostante le critiche dottrinali,
l’evoluzione giurisprudenziale successiva, sia di merito
che di legittimità, si è prevalentemente adeguata
all’orientamento suddetto delle Sezioni Unite (si veda,
in particolare, Cass. 18 luglio 2008, n. 19939; tra le
pronunce di merito, in senso analogo si esprimono Trib.
Padova 18 novembre 2008; Trib. Bari-Modugno 29 gennaio
2008), anche se non del tutto (si veda: Cass. civ., 4
maggio 2005, n. 9253; Cass. civ., sez. I, 13 febbraio
2007, n. 3179, in cui si afferma nuovamente che
l’assegnazione dell’immobile in sede di separazione
determina la successione del coniuge assegnatario nel
rapporto di comodato, senza modificarne l’originaria
fonte contrattuale, con la conseguenza che il comodante
può legittimamente esercitare il recesso nei confronti
dell’assegnatario; tra le pronunce di merito, in senso
analogo si esprimono Trib. Genova 29 ottobre 2007; Trib.
Novara 22 giugno 2009).
In particolare, la sentenza che si
commenta, richiamando semplicemente, anzi, in maniera
sbrigativa un suo precedente, che, per quanto si è
appena detto, sembrava essere ormai superato in
giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 1997,
n. 10258) rimette nuovamente in discussione l’anzidetto
orientamento prevalente in seno alla corte di
legittimità: anteponendo l’interesse del proprietario
del bene a recuperarne la disponibilità a quello della
famiglia alla conservazione dell’ambiente domestico, la
Suprema Corte afferma che, nel c.d. comodato precario,
nessuna rilevanza assume la circostanza che l’immobile
fosse stato adibito ad uso familiare ed assegnato, in
sede di separazione dei coniugi, all’affidatario dei
figli e, pertanto, il comodante può recedere ad nutum
dal contratto medesimo.
Sulla sentenza in questione giova
articolare alcune osservazioni.
La decisione della Cassazione,
seppur in contrasto con l’orientamento prevalente nella
materia in esame, è in sintonia con l’altro consolidato
e condivisibile orientamento secondo cui non può
desumersi la determinazione della durata del comodato
dalla destinazione abitativa cui per sua natura è
adibito l’immobile, in difetto di espressa convenzione
sul punto, derivando da tale destinazione soltanto la
indicazione di un uso indeterminato e continuativo,
inidoneo a sorreggere un termine finale (cfr., ex
plurimis, Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 1984 n. 491;
Cass. civ., sez. III, 18 gennaio 1985 n. 133; Cass.
civ., sez. I, 22 marzo 1994, n. 2750; Cass. civ., sez.
III, 8 marzo 1995, n. 2719; Cass. civ., sez. I, 8
ottobre 1997, n. 9775).
Pertanto, ove le parti abbiano
concordato che il contratto di comodato abbia durata
indeterminata, senza determinarne esplicitamente l’uso
familiare cui la cosa doveva essere destinata, ai sensi
dell’art. 1810 c.c., il comodante può chiederne
l’immediata restituzione, senza che assuma rilevanza il
fatto che l’immobile fosse stato adibito ad uso
familiare ed assegnato, in sede di separazione dei
coniugi, all’affidatario dei figli, come sostiene
giustamente la Cassazione.
Diverso, invece, è il caso della
concessione del bene in comodato nella specifica
prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare
senza determinazione di durata, la quale concessione
assume rilevanza, soprattutto in merito alla
ravvisabilità di un termine di durata del rapporto
stesso, collegato alla destinazione della cosa.
Come emerge dalla lettura dei
citati articoli 1803, comma 1, 1809 e 1810 c.c., la
durata del comodato può essere espressamente ancorata
dalle parti alla scadenza di un termine oppure può
implicitamente dipendere dall’uso per il quale la cosa
viene consegnata. Qualora ricorrano tali ipotesi, il
comodante non può chiedere la restituzione della cosa
prima della scadenza del termine o prima che il
comodatario si sia servito della cosa per l’uso
convenuto, salvo sopravvenga un urgente ed imprevisto
bisogno, nel qual caso, come previsto dall’art. 1809,
comma 2, c.c., è ammessa la facoltà di esigerne
l’immediata restituzione.
Ora, se per effetto della concorde
volontà delle parti viene a configurarsi un vincolo di
destinazione dell’immobile alle esigenze abitative
familiari, questo vincolo è idoneo a conferire all’uso
cui la cosa doveva essere destinata il carattere di
termine implicito della durata del rapporto, la cui
scadenza è strettamente correlata alla destinazione
impressa ed alle finalità cui essa tende, e non può
considerarsi caducato per il sopravvenire della crisi
coniugale, prescindendo detta destinazione dalla
effettiva composizione, al momento della concessione in
comodato, della comunità domestica, con la conseguenza
che il comodante può chiedere l’immediata restituzione
dell’immobile solo nel caso dimostri un urgente ed
imprevisto bisogno, come previsto dall’art. 1809, comma
2, c.c..
In proposito, e a sostegno di
quanto si è appena riferito, si deve ricordare quanto
affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza
n. 454 del 27 luglio 1989, secondo cui, in materia di
separazione personale, effetto precipuo del
provvedimento di assegnazione è quello di stabilizzare,
a tutela della prole, la preesistente organizzazione che
trova nella casa familiare il suo momento di
aggregazione ed unificazione, escludendo uno dei coniugi
da tale contesto e concentrando la detenzione in favore,
oltre che della prole, del coniuge, che, pur potendo non
essere stato parte formale del negozio attributivo del
godimento, era comunque componente del nucleo in favore
del quale il godimento stesso era stato concesso.
Pertanto, pur condividendo l’ultimo
orientamento della Cassazione, occorre, a mio avviso,
valutare le peculiarità di ciascun caso concreto.
In altri termini, considerato che,
come si è detto sopra, secondo consolidata
giurisprudenza della Suprema Corte, l’effettività della
destinazione a casa familiare da parte del comodante non
può essere desunta dalla mera natura immobiliare del
bene concesso, occorre verificare la comune intenzione
delle parti attraverso una valutazione globale
dell’intero contesto nel quale il contratto si è
perfezionato, la natura dei rapporti tra le medesime,
gli interessi perseguiti e ogni altro elemento che possa
far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere
il bene allo specifico fine della sua destinazione a
casa familiare oppure no. Soltanto dopo aver compiuto
questo accertamento in fatto, si può stabilire quale
norma applicare al caso sottoposto a giudizio, ovvero o
l’art. 1809, comma 2, o l’art. 1810 c.c..
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