(Giulio Spina)
Per la sussistenza dell’animus
possidendi richiesto per usucapire un bene è necessaria
la “manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da
parte dell’interessato attraverso una attività
apertamente contrastante ed inoppugnabilmente
incompatibile con il possesso altrui”. Per la relativa
prova non è sufficiente aver svolto sul fondo che si
asserisce usucapito l’attività di coltivazione, in
quanto detta attività “non comporta di per sé una
situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà
altrui”.
È questo, in estrema sintesi,
quanto affermato dalla Cassazione con la pronuncia in
commento.
Un soggetto agiva in giudizio
domandando che venisse dichiarata in suo favore
l’intervenuta usucapione (speciale decennale, ovvero
ordinaria ventennale), del diritto di proprietà (o
quanto meno del diritto di superficie) di un fondo,
esponendo di aver esercitato su di esso, per oltre venti
anni, atti di possesso perfettamente corrispondenti al
diritto di proprietà, essendosi comportato, a suo dire,
come solo ed unico proprietario, in modo indisturbato,
pubblico e notorio, avendo peraltro esercitato tale
signoria con segni visibili, quali la messa a dimora di
piante, di serrature e/o catene e di ogni altra opera
necessaria al miglioramento del bene immobile, nonché di
avere provveduto al pagamento dei tributi.
Il Tribunale adito, in accoglimento
di tale domanda, dichiarava l’attore proprietario del
terreno in contestazione per intervenuta usucapione.
Tuttavia, in sede di gravame, la
Corte d’appello accertava che le descritte attività sul
terreno in questione erano iniziate esclusivamente a
seguito del consenso del coniuge della proprietaria, e
che, dopo la morte di questa, la detenzione si era
protratta attraverso consenso tacito con la nuova
proprietaria (la figlia) anche allorché era divenuta
proprietaria la figlia.
Non di possesso, dunque, si
trattava, ma di detenzione, in quanto l’originario
attore, possessore nomine alieno, avrebbe posseduto in
nome di altri e non per conto e in nome proprio; in
particolare, aveva ricevuto l’incarico di coltivare il
terreno in questione dalla proprietaria e aveva dovuto
chiedere le chiavi per accedervi.
L’originario attore ricorreva in
Cassazione.
I Giudici supremi, investiti della
questione, hanno rigettato il ricorso affermando che i
lavori eseguiti sul terreno in questione non comportano,
di per sé, una situazione oggettivamente incompatibile
con la proprietà altrui.
La Suprema Corte illustra come, al
fine di usucapire un bene, sia necessaria la sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie
acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus,
ma anche dell’animus.
Il primo consiste nello svolgimento
di attività corrispondente all’esercizio del diritto
dominicale, il secondo nell’intento di possedere la cosa
per conto e in nome proprio.
Ciò considerato, i Giudici
affermano che al fine della sussistenza di un’attività
apertamente contrastante ed inoppugnabilmente
incompatibile con il possesso altrui necessaria per
usucapire un bene non risultano sufficienti atti
soltanto di gestione consentiti dal proprietario, o
anche atti tollerati dallo stesso titolare del diritto
dominicale.
Detti atti, invero, comportano solo
il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese
per il miglior godimento della cosa[1], risultando
dunque incompatibili con il “comportamento continuo e
non interrotto inteso inequivocabilmente ad esercitare
sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge,
l’esercizio di un potere corrispondente a quello del
proprietario”[2].
Con riferimento al caso di specie,
prosegue la Corte, l’attività di coltivazione configura
un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di
proprietà (coltivare un terreno, con la messa a dimora
di piante, significa, infatti, disporre materialmente di
esso), ma non se non è svolta grazie a mera tolleranza
del proprietario, con la conseguenza che lo svolgimento
di detta attività non può consentire, di per sé, di
desumere in via presuntiva l’animus possidendi, in
quanto non indicativa dell’intento, in colui che la
compie, di avere la cosa come propria.
Dal punto di vista processuale, la
Cassazione ricorda i seguenti principi.
Chi agisce in giudizio[3] per
ottenere di essere dichiarato proprietario di un bene,
affermando di averlo usucapito, “deve dare la prova di
tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie
acquisitiva e quindi, tra l’altro, non solo del corpus,
ma anche dell’animus”[4] (ovvero dell’intento di avere
la cosa come propria).
Peritato, grava su colui che invoca
l’avvenuta usucapione del bene l’onere di provare in
giudizio la necessaria manifestazione del proprio
dominio esclusivo sulla res attraverso una attività
apertamente contrastante ed inoppugnabilmente
incompatibile con il possesso altrui[5].
L’animus possidendi, inoltre, può
eventualmente essere desunto in via presuntiva qualora
lo svolgimento di attività corrispondente all’esercizio
del diritto dominicale sia già di per sé indicativa
dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa
come propria.
In tal caso, sarà il convenuto a
dover dimostrare il contrario, “provando che la
disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore
mediante un titolo che gli conferiva un diritto di
carattere soltanto personale”[6].
(Altalex, 19 maggio 2011. Nota di
Giulio Spina)
__________________
[1] Cass. n. 16841/2005.
[2] Cass. n. 15446/2007.
[3] Sull’introduzione della causa
ordinaria e sull’atto di citazione si rimanda a G.
SPINA, L’introduzione (Cap. V, artt. 163 ss.), in L.
Viola (a cura di), Codice di procedura civile, Cedam,
Padova, 2011.
[4] Cass. n.
975/2000.
[5] Cass. n.
1367/1999; Cass. n. 8152/2001; Cass. n. 19478/2007;
Cass. n. 17462/2009; Cass. n. 4863/2010.
[6] Cass. n. 6944/1999.
| usucapione | terreno | Giulio
Spina |
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 15 febbraio – 26 aprile
2011, n. 9325
(Presidente Elefante – Relatore
falaschi)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il
13.1.1997 T.G. evocava, dinanzi al Pretore di Viterbo,
A..P. esponendo di avere esercitato per oltre venti
anni, comportandosi come solo ed unico proprietario, in
modo indisturbato, pubblico e notorio, atti di possesso
perfettamente corrispondenti al diritto di proprietà
sulla porzione immobiliare sita in Comune di …,
costituita da appezzamento di terreno con retrostante
fabbricato rurale in località …, della superficie
complessiva di aree 88,80, distinta in Catasto Terreni
alla partita 1603, foglio 36, particene 147, 296, 358 e
359; aggiungeva di avere esercitato tale signoria con
segni visibili, quali la messa a dimora di piante, di
serrature e/o catene e di ogni altra opera necessaria al
miglioramento del bene immobile, nonché di avere
provveduto al pagamento dei tributi. Tanto premesso,
chiedeva dichiararsi l'intervenuta usucapione speciale
decennale ovvero quella ordinaria ventennale, in suo
favore del diritto di proprietà di detta porzione
immobiliare o quanto meno del diritto di superficie
della stessa.
Instauratosi il contraddittorio,
nella resistenza della convenuta, la quale affermava di
avere consentito all'attore solo di deporre utensili sul
suo fondo (precisando che notificato ricorso dal T., il
17.3.1997, per la reintegra nel possesso del bene, il
Pretore di Viterbo aveva rigettato la domanda con
sentenza del 6.10.1997), il Tribunale (già Pretore)
adito, espletata istruttoria, in accoglimento della
domanda attorea, dichiarava l'attore proprietario del
terreno in contestazione per intervenuta usucapione.
In virtù di rituale appello
interposto dalla P., con il quale lamentava l'erroneità
della sentenza del giudice di prime cure che aveva
errato a ritenere intervenuta l'usucapione del fondo, la
Corte di appello di Roma, nella resistenza
dell'appellato, accoglieva il gravame e rigettava la
domanda attorea.
A sostegno dell'adottata sentenza,
la Corte territoriale evidenziava che dalle prove
testimoniali, in particolare dalle affermazioni di
Gi.To. (figlio dell'attore) emergeva che il T. aveva
iniziato la sua attività sul terreno esclusivamente a
seguito del consenso del coniuge della proprietaria,
E..C. , madre dell'appellante, e la detenzione si era
protratta anche allorché era divenuta proprietaria del
fondo la P., per successione alla madre, attraverso
consenso tacito.
Aggiungeva che la semplice qualità
di detentore del T. andava ribadita per il fatto che lo
stesso aveva dovuto chiedere le chiavi alla P. per
accedere al terreno, per cui non poteva ritenersi essere
intervenuta interversio possessionis almeno sino al
1996, ossia di un fatto esterno da cui desumere che il
possessore nomine alieno avesse cessato di possedere in
nome di altri ed iniziato un possesso per conto e in
nome proprio.
Avverso l'indicata sentenza della
Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per
cassazione il T., che risulta articolato su un unico
motivo, al quale ha resistito con controricorso la P..
Motivi della decisione
Con l'unico motivo, sviluppato
sotto molteplici profili, il ricorrente deduce la
violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. in
riferimento agli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c., ovvero
l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in
ordine a detti punti decisivi della controversia in
relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..
In particolare, il giudice del
gravame avrebbe omesso di presumere il possesso in colui
che esercita il potere di fatto sulla cosa, per cui
sarebbe gravato sulla P. l'onere di dimostrare la sola
detenzione da parte del ricorrente. Peraltro le
dichiarazioni del teste Gi..To. sarebbero state rese
solo nella fase cautelare del procedimento possessorio.
Precisa, altresì, che gli atti di
tolleranza che ad avviso della controparte avrebbero
consentito al T. di possedere il terreno, per essere
tali avrebbero dovuto avere il carattere della
saltuarietà e una durata limitata nel tempo. La corte di
merito non avrebbe valutato correttamente le risultanze
testimoniali, omettendo di esaminare quella del M. , il
quale presente all'incontro T. - P., alla comunicazione
dell'iniziativa della seconda di vendere il terreno, il
primo avrebbe affermato la proprietà esclusiva del
fondo. Di converso non andrebbe dovuto attribuire alcun
valore all'affermazione secondo cui il T. avrebbe
mostrato interesse all'acquisto del bene, evidenziando
la circostanza il solo riconoscimento di non essere
formalmente proprietario del fondo.
Le censure vengono esaminate
congiuntamente in quanto attengono tutte alla
valutazione delle risultanze probatorie, o meglio
vengono evidenziati vizi relativi alla deficienza del
ragionamento logico-giuridico della sentenza impugnata.
Tali censure sono infondate, con
riferimento ai rilievi che seguono.
Chi agisce in giudizio per ottenere
di essere dichiarato proprietario di un bene, affermando
di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli
elementi costitutivi della dedotta fattispecie
acquisitiva e quindi, tra l'altro, non solo del corpus,
ma anche dell'animus (Cass. 28 gennaio 2000 n. 975); il
secondo, tuttavia, può eventualmente essere desunto in
via presuntiva dal primo, se lo svolgimento di attività
corrispondente all'esercizio del diritto dominicale è
già di per sé indicativo dell'intento, in colui che la
compie, di avere la cosa come propria, sicché allora è
il convenuto che deve dimostrare il contrario, provando
che la disponibilità del bene è stata conseguita
dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un
diritto di carattere soltanto personale (Cass. 5 luglio
1999 n. 6944).
Solo la sussistenza di un corpus,
accompagnata dall'animus possidendi, corrispondente
all'esercizio del diritto di proprietà, che si protrae
per il tempo previsto per il maturarsi dell'usucapione,
raffigura il fatto cui la legge riconduce l'acquisto del
diritto di proprietà.
Da questi principi non si discosta
la sentenza impugnata. Nel valutare le risultanze
processuali, infatti, la Corte di appello, mediante
apprezzamenti eminentemente di merito sorretti da
adeguata motivazione e quindi insindacabili in questa
sede, ha ritenuto che la prova fornita dal T. aveva
riguardato il solo corpus.
Infatti dalle prove testimoniali
dedotte da entrambe le parti, in particolare dalle
dichiarazioni dei testi O. e B. emergevano molteplici
dati, precisi e concordanti, da cui poteva senz'altro
ricavarsi l'esistenza del corpus, ma non dell'animus, in
quanto avvaloravano la tesi della appellante -
resistente secondo cui l'originario attore era stato
immesso nel godimento del terreno in questione a seguito
del consenso del coniuge della proprietaria C.E. , madre
della P. , attuale proprietaria, la cui volontà era
stata poi rispettata dall'erede, dopo la sua morte.
Per la verità, la coltivazione del
terreno con la messa a dimora di piante configura una
attività, specifica ed importante, senza dubbio
corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà
vantato dal ricorrente; coltivare il terreno, infatti,
significa disporre materialmente di esso. Se la
coltivazione configura un comportamento pubblico,
pacifico, continuo e non interrotto inequivocabilmente
esso deve ritenersi inteso ad esercitare sul predio un
potere di fatto corrispondente a quello del
proprietario.
Nella specie, però, lo stesso
figlio del ricorrente, To.Gi. , della cui attendibilità
non è dato dubitare, non avendo peraltro il T. dedotto
che l'assunzione delle sue dichiarazioni in sede
possessoria sia avvenuta senza avere prestato
giuramento, ha dichiarato testualmente "il padre della
P. che era ingegnere aveva dato a mio padre l'incarico
di coltivare il terreno. Poi è subentrata la P. che non
ho mai visto sul terreno. Non so se la P. abbia
autorizzato mio padre a proseguire nella coltivazione
del terreno: suppongo che fosse intervenuto un tacito
consenso anche perché molti anni fa mio padre mi ha
riferito che la P. gli aveva chiesto di aprire con la
chiave per entrare nel fondo". Posto che per la
sussistenza del possesso utile per usucapire occorre
oltre al riscontro di un comportamento continuo e non
interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare
sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge,
l'esercizio di un potere corrispondente a quello del
proprietario, non riconducibile però alla mera
tolleranza del proprietario (v. Cass. del 10.7.2007 n.
15446), incombeva sul ricorrente - attore la
dimostrazione della c.d. interversio possessionis, che
gli avrebbe consentito di mutare il titolo originario di
questo rapporto con la cosa, ai sensi dell'art. 1141,
comma 2, c.c. Ai fini dell'usucapione è, infatti,
necessario la manifestazione del dominio esclusivo sulla
"res" da parte dell'interessato attraverso una attività
apertamente contrastante ed inoppugnabilmente
incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere
della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta
usucapione del bene (vedi "ex multis" Cass. 18.2.1999 n.
1367; Cass. 15.6.2001 n. 8152; Cass. 20.9.2007 n. 19478;
Cass. 27.7.2009 n. 17462; Cass. 1.3.2010 n. 4863), non
essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di
gestione consentiti dal proprietario o anche atti
tollerati dallo stesso titolare del diritto dominicale
perché comportanti solo il soddisfacimento di obblighi o
l'erogazione di spese per il miglior godimento della
cosa (Cass. 11.8.2005 n. 16841).
Alla luce di tale orientamento è
evidente l'irrilevanza delle circostanze addotte a
sostegno della propria tesi da parte del ricorrente,
posto che il godimento del terreno in questione o i
lavori da questo asseritamente eseguiti su tale immobile
non comportano di per sé una situazione oggettivamente
incompatibile con la proprietà altrui.
Per tutte le considerazioni sopra
svolte, il ricorso deve, dunque, essere respinto.
Al rigetto consegue, come per
legge, la condanna del ricorrente al pagamento in favore
della resistente delle spese del giudizio di Cassazione,
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del
giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro.
1.700,00, di cui Euro. 200,00 per esborsi, oltre
accessori come per legge. |