di Paolo Pittaro
Il corretto esercizio del diritto di
ritenzione esclude il delitto di appropriazione
indebita, non comportando l'intenzione di convertire il
possesso in proprieta'.
Un’officina meccanica,
dopo aver effettuato alcune riparazioni su una
autovettura che le era stata affidata, presenta il conto
al proprietario della stessa, il quale si rifiuta di
pagare, adducendo che il consuntivo risulta maggiore di
quanto preventivato: inevitabile, pertanto, che il
contenzioso venga posto dinanzi al giudice civile. Nel
frattempo, tuttavia, i titolari dell’officina rifiutano
di restituire il bene mobile, manifestando l’intenzione
di trattenerlo fino al dovuto pagamento.
Ne deriva una querela
nei loro confronti per appropriazione indebita, ai sensi
dell’art. 646 c.p., a seguito della quale il GIP dispone
il sequestro dell’autovettura con decreto poi confermato
con l’ordinanza del Tribunale della Libertà competente.
Ed è questo provvedimento che viene impugnato per
cassazione dai proprietari dell’officina, adducendo che
essi si erano limitati ad esercitare il diritto di
ritenzione, previsto dall’art. 2756 del codice civile.
La pronuncia della
Suprema Corte permette di evidenziare, anche alla luce
di consolidata giurisprudenza, i rapporti fra le due
citate disposizioni: quella penale e quella civile.
L’art. 2756 c.c., rubricato Crediti per prestazioni e
spese di conservazione e miglioramento, dopo aver
disposto nei primi due commi che i crediti per le
prestazioni e le spese relative alla conservazione o al
miglioramento di beni mobili hanno privilegio sui beni
stessi, purché questi si trovino ancora presso chi ha
fatto le prestazioni o le spese e che il privilegio ha
effetto anche in pregiudizio dei terzi che hanno diritti
sulla cosa, qualora chi ha fatto le prestazioni o le
spese sia stato in buona fede, prevede infine, al terzo
comma, il c.d. diritto di ritenzione, stabilendo che “il
creditore può ritenere la cosa soggetta al privilegio
finché non è soddisfatto del suo credito e può anche
venderla secondo le norme stabilite per la vendita del
pegno”.
A sua volta l’art. 646
c.p. prevede il delitto di Appropriazione indebita, in
forza del quale “chiunque, per procurare a sé o ad altri
un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa
mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il
possesso, è punito, a querela della persona offesa, con
la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a
1.032 euro”. Sul punto la Cassazione conferma tre
princìpi. Primo: il reato di appropriazione indebita
avviene con l'interversione oggettiva del possesso
(cfr., da ultimo ed ex plurimis, Cass. pen., sez. II, 9
aprile 2010, M., n. 26774), ossia allorché il soggetto
agente, mero possessore, esercita la signoria sul bene
"uti dominus" (Id., sez. II, 10 giugno 2009, N. M., n
37498).
In altri termini, il
reato di appropriazione indebita si consuma nel momento
in cui l'agente tiene consapevolmente un comportamento
oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà
ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile
con il diritto del titolare, in quanto significativo
dell'immutazione del mero possesso in dominio, senza che
sia necessario che la parte offesa formuli un'esplicita
e formale richiesta di restituzione dello specifico bene
oggetto della interversione del possesso (Id., sez. II,
10 giugno 2009, N., in Foro it., 2010, 1, II, 6; Id.,
sez. II, 2 dicembre 2008, C., n. 4440).
In definitiva, Il reato
di cui all'art. 646 c.p. si consuma nel momento
dell'interversione del titolo del possesso, che non
coincide necessariamente con quello della scadenza del
termine stabilito per la restituzione, né con quello
dell'alienazione della cosa da parte del possessore.
Invero, il rifiuto
ingiustificato della restituzione della cosa dopo la
scadenza del termine che ne legittima il possesso rende
manifesta l'esistenza sia dell'elemento oggettivo, per
il venir meno della legittimità del possesso, sia di
quello soggettivo, evidenziando la volontà del
possessore di invertire il titolo del possesso per
trarre dalla cosa stessa un ingiusto profitto, cosicché
in tale momento il reato deve ritenersi integrato in
tutti i suoi elementi (Id, sez. II, 15 giugno 1986,
Pallone, in Cass. pen., 1988, 248).
Secondo: il corretto
esercizio del diritto di ritenzione, di cui all’art.
2756 c.c., che consiste nell’omessa restituzione della
cosa e nella sua ritenzione a titolo precario, a
garanzia di un preteso diritto di credito, non integra
il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art.
646 c.p., in quanto non modifica il rapporto tra il
detentore ed il bene attraverso un comportamento
oggettivo di disposizione uti dominus e l'intenzione
soggettiva di interversione del possesso (Cass. pen.,
sez. II, 25 gennaio 2002, Vollero, in Cass. pen., 2003,
876; Id., sez. II, 27 maggio 1981, Giampaoli, in Cass.
pen., 1982, 1735; Id., sez. II, 10 marzo 1980, Salzano,
ivi, 1981, 1767).
Terzo: in tema di
appropriazione indebita, il diritto di ritenzione
esercitato sul bene altrui ha efficacia scriminante solo
se il credito che si intende tutelare sia certo, liquido
ed esigibile (Cass. pen., sez. II, 24 febbraio 2009, W.
e altro, in Guida dir., 2009, 31, 88; Id, sez. II, 9
gennaio 2009, O., n. 6080; Id., sez. II, 7 novembre
2007, C., in Cass. pen., 2009, 575; Id., sez. II, 7
novembre 2007, C., in Cass. pen., 2009, 575), ossia
determinato nel suo ammontare e non controverso nel
titolo (Id., sez. II, 22 novembre 1985, Vasiola, in
Cass. pen.,1987, 885).
Nella fattispecie
concreta in oggetto gli ermellini hanno rilevato come i
ricorrenti avessero agito in virtù della detenzione
qualificata che li legava alla vettura, a loro affidata
per le riparazioni in officina, sicché il loro
comportamento non risulta affatto illecito né sul piano
oggettivo, avendo trattenuto la cosa in attesa del
pagamento, né su quello soggettivo, non avendo mai
inteso invertire il possesso della vettura che, in
effetti, è sempre restata a disposizione del
proprietario, il cui diritto di proprietà non è mai
stato posto in discussione.
Tenuto conto, pertanto,
che l’omessa restituzione della cosa non realizza il
reato di cui all’art. 646 c.p. se non quando si
ricollega oggettivamente ad un atto di disposizione uti
dominus e soggettivamente all’intenzione di convertire
il possesso in proprietà, ne deriva che la semplice
detenzione precaria, attuata a garanzia di un preteso
diritto di credito conservando la cosa a disposizione
del proprietario e condizionando la restituzione
all’adempimento della prestazione cui lo si ritiene
obbligato, non costituisce appropriazione indebita
perché non modifica il rapporto giuridico fra il bene e
la cosa.
Di conseguenza, mancando
l’elemento soggettivo dell’appropriazione indebita,
consistente nella volontà di fare propria la cosa,
privandone definitivamente il proprietario, viene pure
meno il fumus del reato contestato, con conseguente
annullamento senza rinvio sia dell’ordinanza impugnata
sia del correlato decreto di sequestro. |