Pur in difetto di una consacrazione normativa in una
disposizione generale, deve ritenersi che la congerie di
disposizioni presenti nel codice civile e nella
legislazione statale, nel senso di introdurre limiti
interni all’esercizio del diritto soggettivo, siano
espressione di un principio più generale che vieta
l’esercizio di un diritto in contrasto con lo scopo per
il quale esso è riconosciuto. Il divieto di abusare di
un proprio diritto deve applicarsi anche al cospetto
della pretesa del proprietario di ottenere la riduzione
in pristino dello stato dei luoghi mediante la
demolizione del fabbricato del convenuto che abbia
invaso in parte il suo fondo, dove questa situazione sia
stata tollerata per un notevole e significativo lasso di
tempo (nel caso di specie 13 anni). In casi del genere,
facendo applicazione dei principi da ultimo affermati
dalla Cassazione in materia di abuso del diritto
processuale, la domanda di riduzione in pristino deve
essere dichiarata improponibile, anche in considerazione
del fatto che l’attore può trovare adeguata tutela delle
proprie ragioni utilizzando il meno invasivo rimedio
risarcitorio per equivalente.
(*) Riferimenti normativi: artt. 1175, 1375 c.c.
(Fonte: Massimario.it - 18/2011)
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buona fede | abuso del diritto | venire contra factum
proprium | tolleranza dell’altrui invasione del proprio
fondo | richiesta di demolizione | improponibilità |
TECNICHE DI REDAZIONE ATTI E GESTIONE ISTRUTTORIA
Torino 22 giugno - Roma 6 luglio
Cons. Marco Rossetti - Accreditato 7 ore CNF
Tribunale di Sassari
Sezione Civile
sentenza 23 aprile 2010
(giudice L. Buffoni)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato,
XXXXXXXXXXX premesso di essere proprietario del tratto
di terreno posto in agro del Comune di Sorso distinto in
catasto al F. 1, mapp. 81, ex 12 C, confinante con
quello di YYYYYYYYYY (distinto in catasto al F. 1, mapp.
80), conveniva quest’ultimo in giudizio esponendo che
tra le parte erano intercorse trattative, mai andate a
buon fine, in ordine alla delimitazione dei confini tra
i due fondi, e che nonostante la pendenza della
controversia il convenuto aveva realizzato un fabbricato
di civile abitazione insistente in parte sul terreno di
proprietà dell’attore, aprendo altresì delle servitù di
veduta e stillicidio a carico del fondo di XXXXXXXXXXX.
Per le ragione esposte parte attrice chiedeva
all’intestato Tribunale di determinarsi e delimitarsi
mediante l’apposizione di segni fissi a spese comuni tra
i rispettivi proprietari i confini tra i due fondi, con
condanna del convenuto alla riduzione in pristino stato
dei luoghi, mediante demolizione della parte di
fabbricato realizzato in violazione delle distanze delle
costruzioni previste dal Regolamento del Comune di
Sorso, nonché con condanna, nell’ipotesi in cui non
venga disposta la riduzione in pristino stato dei
luoghi, all’eliminazione delle servitù di veduta e
stillicidio abusivamente realizzate a carico del fondo
del convenuto, oltre al risarcimento del danno.
Radicatosi il contraddittorio si costituiva in giudizio
YYYYYYYYYY, contestano quanto ex adverso dedotto ed
eccependo che i confini indicati nel frazionamento
allegato agli atti di compravendita non sono mai
esistiti, e che in realtà già al momento dell’acquisto
da parte del YYYYYYYYYY e del XXXXXXXXXXX, i confini dei
due lotti erano quelli apposti dall’originario
proprietario C. A. e rilevati dal geom. L. F., come
risultanti dal frazionamento in data 16.7.1985,
sottoscritto dall’attore XXXXXXXXXXX.
Esponeva altresì il convenuto che nel tempo si erano
susseguiti diversi tentativi volti a definire l’esatto
posizionamento del confine tra i fondi dell’attore,
quello del convenuto e quelli dei proprietari frontisti
M. e G. (posto che la divisione dei quattro lotti aveva
avuto origine da un’unica proprietà), che peraltro non
erano andati a buon fine a causa delle resistenze del
YYYYYYYYYY in ordine alla costituzione di una servitù di
passaggio a favore del fondo dell’attore per il
raggiungimento del rio Pedra e Fogu e della spiaggia.
Per le ragioni esposte, previa richiesta di integrazione
del contraddittorio nei confronti di M. I. e G. S., il
convenuto concludeva per il rigetto della domanda
attorea.
La causa istruita mediante prove per testi e ctu,
all’udienza del 12.11.2009 veniva infine riservata a
sentenza da questo giudice (al quale il fascicolo è
pervenuto nel settembre 2009), conc concessione dei
termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse
conclusionali e memorie di replica.
Motivi della decisione
In primo luogo deve prendersi in esame la richiesta del
convenuto di estendere il contraddittorio nei confronti
di tutti i proprietari dei lotti originati dal
frazionamento dell’unica proprietà originariamente
appartenuta a C. A. (e dunque oltre all’attore e al
convenuto ai sig. ri M. I. e G. S.).
Detta richiesta non può essere accolta.
Ed, infatti, essendo stata proposta un’azione di
regolamento di confini ex art. 950 c.c., legittimati ad
agire e a resistere sono esclusivamente i titolari dei
fondi confinanti rispetto ai quali si pretende stabilire
l’esatta demarcazione del confine, giacché nessun altro
soggetto al di fuori dei titolari dei fondi il cui
confine deve essere regolato , rimane o può rimanere
coinvolto nel giudicato che regola tra costoro il
confine (cfr., ex plurimis, Cass. 6333/79).
Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza
di legittimità “nel giudizio di regolamento di confini
la sostanziale eguaglianza delle posizioni dell'attore e
del convenuto, in ragione del comune interesse
all'individuazione dell'esatta linea di confine tra i
fondi, quando questa sia obiettivamente e/o
soggettivamente incerta, comporta l'onere di entrambe le
parti di allegare e fornire i mezzi prova idonei a tale
fine necessari ed il Giudice, oltre a non trovare alcun
limite al suo discrezionale potere di scelta e di
valutazione del materiale acquisito, può anche integrare
o disattendere gli elementi raccolti con il sussidiario
ricorso alle descrizioni catastali in caso di loro
insufficienza od inidoneità alla determinazione del
confine” (Cass. 3082/06).
Ciò posto, ai fini della definizione della controversia
occorre fare primario riferimento ai frazionamenti
allegati ai contratti di acquisto dei rispettivi fondi
(“In materia di regolamento di confini l'elemento
primario di prova per l'individuazione del confine è
rappresentato dal tipo di frazionamento allegato ai
contratti, che, quale elemento interpretativo della
volontà negoziale, non lascia margini di incertezza
nella determinazione della linea di confine tra i fondi”
- Cass. 15386/00 - ed ancora “La determinazione del
confine fra due fondi limitrofi può fondarsi sul
frazionamento allegato al contratto con cui è stato
originariamente suddiviso l'appezzamento di terreno in
precedenza unico soltanto se nei successivi atti di
trasferimento tale frazionamento venga allegato e
richiamato con valore negoziale vincolante” - Cass.
26951/08), mentre valore soltanto residuale potrà
attribuirsi alle risultanze della prova testimoniale
(“In tema di azione di regolamento di confini, ai sensi
dell'articolo 950 cod. civ., in ossequio al principio
della forma scritta per la costituzione, il
trasferimento e la modifica di diritti reali, previsto
dall'articolo 1350 cod. civ., che rende di norma
inammissibili per irrilevanza, ai fini della
determinazione dell'oggetto degli inerenti titoli, la
prova per testimoni, di questa può tenersi conto solo in
via residuale, qualora sulla base degli oggettivi
elementi forniti dai titoli e dal frazionamento in essi
richiamato, sia risultato comunque incerto il confine”;
Cass. 23500/07).
Individuate in tal modo in punto di diritto le
coordinate in base alle quali definire la controversia,
in punto di fatto merita osservare che: a) i fondi di
proprietà dell’attore e del convenuto erano
originariamente appartenuti a tale C. A., che con atto
notar Soldani del 26.11.1973 (doc. 1 fascicolo parte
attrice) alienò a YYYYYYYYYY il terreno censito in
catasto terreni al F. 1 mapp. 80 (derivato dal mapp. 12
del foglio 1 “giusta il tipo di frazionamento rilasciato
dall’U.T.E. di Sassari il 15.11.1973”, allegato in copia
conforme all’atto notarile di compravendita) e a tale M.
S. il terreno confinante censito in catasto al F. 1
mapp. 81 “derivato dal mapp. 12 del F. 1 giusta il tipo
di frazionamento allegato”; b) a seguito di successive
alienazioni, richiamanti espressamente l’atto di cui
alla precedente lettera a il terreno di cui al F. 1,
mapp. 81, pervenne giusto rogito del 6 settembre 1979
notar Chialdi all’odierno attore.
Nella fattispecie concreta per cui è causa, è peraltro
pacifico che tra le parti sono intercorse per lungo
tempo delle trattative, mai andate a buon fine, volte
alla delimitazione del confine tra i due fondi contigui.
Deduce peraltro il convenuto che il confine effettivo
tra i due fondi sarebbe in realtà diverso, ed in
particolare dovrebbe essere identificato con quello
rilevato dal Geom. L. F., come risultante dal
frazionamento del 16.7.1985 approvato e sottoscritto
dall’attore, nonché “dal tipo di mappale in data
31.10.1985 sottoscritto dalla moglie dell’attore M. R.”,
la quale in virtù dell’atto di acquisto (rogito notar
Chialdi del 6.9.1979, in atti), risulta essere
comproprietaria dell’immobile per cui è causa.
Con memoria dell’11 giugno 1996 l’attore ha
tempestivamente disconosciuto la propria sottoscrizione
apposta al frazionamento del 16.7.1985 ed il convenuto
ne ha chiesto la verificazione.
Nel corso del giudizio, peraltro, non è mai stata
espletata la ctu grafologica ammessa dal giudice
istruttore con ordinanza del 2.12.1996 volta ad
accertare l’autenticità di detta sottoscrizione.
Tale consulenza appare peraltro irrilevante ai fini del
decidere, in quanto, come è noto l’atto di frazionamento
e la relativa variazione catastale, hanno una efficacia
meramente indiziaria in ordine alla sussistenza di un
confine differente da quello risultante dagli atti
d’acquisto. Ove sulla base di detti atti il confine sia
ben identificabile, non sussistendo dunque alcuna
obiettiva incertezza, le risultanze meramente indiziarie
derivanti dalle mappe catastali non possono essere in
alcun modo prese in considerazione, posto che le
variazioni dei confini, involgenti diritti reali,
debbono risultare da atto scritto.
Il rigido requisito di forma derivante dalla natura
reale dei diritti azionati impedisce altresì di tener
conto, ai fini del decidere, della mancata contestazione
da parte dell’attore dell’autenticità della
sottoscrizione apposta da M. R. (comproprietaria del
fondo di cui al F. 1 mapp. 81, in regime di comunione
con l’attore) sul tipo di mappale datato 31.10.1985 e
richiamante il frazionamento del geometra L. F. (merita
incidentalmente osservare che M. R. non è neppure parte
necessaria nel presente giudizio, posto che secondo
l’insegnamento consolidato della S.C. “in tema di azione
di regolamento di confini, se i fondi confinanti
appartengono a più proprietari, non ricorre un'ipotesi
di litisconsorzio necessario e ciascuno dei
comproprietari è legittimato ad agire o resistere senza
l'intervento degli altri, in ragione della natura
dichiarativa della sentenza che occorre pronunciare.
Parimenti, non è necessaria l'integrazione del
contraddittorio nel caso in cui alla domanda di
regolamento di confini si accompagni la richiesta, di
uno - o di alcuni - soltanto dei comproprietari di uno
dei fondi confinanti, di rilascio o di riduzione in
pristino della zona che si ritiene usurpata in
conseguenza dell'incertezza oggettiva o soggettiva dei
confini, sempre che, però, tale domanda sia stata
proposta nei confronti dell'unico proprietario
dell'altro fondo”; Cass. 12558/02 – così come avvenuto
nel caso di specie dal momento che la domanda di
riduzione in pristino è spiegato nei confronti del
YYYYYYYYYY, unico proprietario dell’altro fondo).
Ritiene dunque questo giudice che il confine tra i due
fondi sia quello risultante dall’originario
frazionamento allegato al rogito notar Soldani del
26.11.1973, così come individuato dal CTU geom. R.
nell’allegato D alla relazione depositata in data
9.12.2007, sulla base di rigorosi accertamenti di ordine
tecnico dai quali questo giudice non ha motivo di
discostarsi.
Deve dunque procedersi ad esaminare la domanda di
riduzione in pristino avanzata dall’attore.
Essa è astrattamente fondata.
Il CTU ha infatti accertato che parte dell’immobile del
convenuto è stato certamente costruito sul fondo del
XXXXXXXXX, con conseguente diritto di quest’ultimo alla
riduzione in pristino stato dei luoghi.
Ciò posto, occorre tuttavia considerare che il XXXXXXXXX
per oltre 13 anni (dal 1982, anno in cui venne
realizzata la fabbrica da parte del YYYYYYYYYY come
riferisce il teste M. V. all’udienza del 5.5.1997) ha
tollerato l’indebita invasione del confine da parte del
YYYYYYYYYY, domandando la riduzione in pristino solo nel
1995.
È
inoltre assodato, per quanto riferito sopra, che M. R.,
coniuge del XXXXXXXXX e comproprietaria dell’immobile
aveva sottoscritto il tipo di mappale datato 31.10.1985
e richiamante il frazionamento del geometra L. F.
Pare dunque sussistere nella fattispecie per cui è
causa, in capo al convenuto lo stato soggettivo di buona
fede rilevante ai sensi dell’art. 938 c.c. ai fini della
c.d. accessione invertita.
Sta di fatto, peraltro, che il convenuto, si è limitato
a difendersi eccependo la sussistenza di un diverso
confine, senza in alcun modo domandare l’attribuzione
della proprietà dell’edificio e del suolo occupato.
Non potendo dunque in questa sede trovare applicazione
la disposizione di cui all’art. 938 c.c. occorre
tuttavia domandarsi se il diritto dell’attore di
ottenere una tutela ripristinatoria di tipo reale con
l’abbattimento dell’opera abusivamente realizzata su
fondo altrui possa incontrare altri tipi di limiti.
Come noto, in linea generale chi esercita un proprio
diritto non è tenuto a compensare chicchessia degli
eventuali pregiudizi che da tale esercizio possano
derivare (qui suo iure utitur neminem laedit).
Purtuttavia, secondo l’opinione della più autorevole
dottrina, il potere in cui si sostanzia il diritto
soggettivo è attribuito in vista della realizzazione di
un interesse del titolare, cui l’ordinamento accorda
protezione eventualmente a scapito di interessi
confliggenti facenti capo ad altri soggetti.
Occorre dunque chiedersi se il potere attribuito al
titolare del diritto possa incontrare dei limiti (c.d.
“interni”), nel momento in cui non venga esercitato in
vista della realizzazione dell’interesse in funzione del
quale è stato attribuito, bensì per il perseguimento di
un interesse affatto diverso.
La sussistenza di limiti interni all’esercizio del
diritto soggettivo sembra desumibile da diverse
disposizioni codicistiche, tra le quali in primo luogo
rilevano l’art. 833 c.c. che vieta gli atti emulativi,
nonché la clausola generale di buona fede e correttezza
(1175 c.c.) che secondo l’opinione preferibile avrebbe
tra l’altro la funzione di estendere o restringere una
determinata subordinazione d’interesse, quando non paia
conforme alla solidarietà
Un atto di esercizio del diritto posto in essere
all’esclusivo scopo di nuocere o recare molestia ad
altri, ovvero non rispondente ai canoni di correttezza e
buona fede (il cui contenuto è in buona parte
determinato dall’opera creativa del c.d. diritto
vivente) si pone dunque al di fuori del potere
attribuito dall’ordinamento con il riconoscimento del
diritto soggettivo, in quanto tale potere è per così
dire funzionalizzato alla cura di un interesse ben
determinato.
Le problematiche relative ai limiti interni
all’esercizio dei diritti soggettivi sono state oggetto
di un’approfondita analisi dottrinale sfociata
nell’elaborazione delle discusse figure dell’abuso e
dell’eccesso del diritto.
Per abuso si intende l’esercizio di un diritto (o potere
privato), che, pur essendo apparentemente conforme al
suo contenuto, sia in realtà funzionale al conseguimento
di un’utilità inaccettabile secondo la comune coscienza
sociale. Carattere di questo è l’apparente conformità
del comportamento del soggetto al contenuto del suo
diritto, onde abusare del diritto dovrebbe significare
coprire dell’apparenza del diritto un atto che si
avrebbe il dovere di non compiere.
Nell’eccesso, invece, l’illiceità dell’agere è più
agevolmente percepibile, non registrandosi
quell’apparenza di conformità che connota la contigua,
sebbene distinta, figura dell’abuso.
Il Codice del 1942 non prevede una disposizione generale
relativamente all’abuso, sebbene un’ipotesi di tal fatta
fosse stata prospettata nel progetto di Codice
italo-francese sulle obbligazioni e nello stesso
progetto del Codice attualmente in vigore. In
particolare quest’ultimo all’art. 7 enfaticamente
proclamava che “nessuno può esercitare il proprio
diritto in contrasto con lo scopo per il quale il
diritto medesimo gli è stato riconosciuto”.
I
timori di un eccessivo spazio che la figura dell’abuso
avrebbe garantito alla discrezionalità del magistrato
pesarono a favore della scelta definitiva del
legislatore del 1942.
Nondimeno non mancano nel Codice riferimenti linguistici
o concettuali evidenti all’istituto dell’abuso che
pertanto, sebbene privato del prestigio di un
riconoscimento normativo generale, trova in molte
disposizioni in qualche modo cittadinanza.
Norme evocanti l’idea di abuso oltre a quelle sopra
indicate relative agli atti d’emulazione (art. 833 c.c.)
o alla clausola generale della buona fede e correttezza
(artt. 1175, 1375 c.c.) sono ad es. l’art. 1059, co. 2,
c.c., il quale impone al comproprietario, che agendo
individualmente abbia concesso una servitù, di non
impedire l’esercizio della stessa, l’art. 330 c.c. in
punto di abuso della potestà genitoriale, l’art. 1015
c.c. sull’abuso del diritto di usufrutto, l’art. 2793
c.c. riguardante l’abuso della cosa da parte del
creditore pignoratizio.
La fortuna della formula dell’abuso del diritto si è
manifestata anche attraverso recenti interventi
normativi volti alla protezione di categorie ritenute
deboli.
Ci si riferisce, in primis, alla L. 192/1998 (Disciplina
della subfornitura nelle attività produttive) che
all’art. 9 stabilisce che: “È vietato l’abuso da parte
di una o più imprese dello stato di dipendenza economica
nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una
impresa cliente o fornitrice”. Pur non potendo
approfondire in questa sede l’esame della normativa, va
sottolineato come l’abuso nel caso in questione venga ad
essere sanzionato di per sé, indipendentemente dai
riflessi distorsivi concorrenziali.
Del resto, nella logica dell’abuso del diritto possono
iscriversi altri interventi normativi in cui il
legislatore, pur non facendo ricorso all’espressione de
qua, chiaramente evoca una valutazione sostanziale della
fattispecie concreta al fine di stigmatizzare squilibri
non solo normativi, ma in certi casi anche economici. Si
pensi al D.Lgs. 231/2002 relativo ai ritardi nei
pagamenti nelle transazioni commerciali.
Elemento comune agli interventi citati, che sottolinea
la contiguità alla problematica dell’abuso del diritto,
è un rinnovato ruolo riconosciuto al giudice tanto nel
valutare l’abusività o l’iniquità di un dato elemento
negoziale, quanto, soprattutto, nel sostituirsi alla
volontà delle parti nel ricondurre, in un’ottica di
conservazione, il negozio ad equità.
In conclusione, pur in difetto di una consacrazione
normativa in una disposizione generale, deve ritenersi
che la congerie di disposizioni sopra richiamate siano
espressione di un principio più generale che vieta
l’esercizio di un diritto in contrasto con lo scopo per
il quale esso è riconosciuto.
In tal senso sembra orientata anche la giurisprudenza
che ha fatto ricorso in diverse occasioni e con
riferimento a fattispecie disparate alla categoria
dell’abuso del diritto.
La categoria dell’abuso del diritto è sovente invocata
con riferimento all’ipotesi in cui un soggetto proceda
alla vendita di uno stesso bene immobile per più volte
(c.d. “doppia alienazione immobiliare”). In tali
ipotesi, in caso di conflitto tra aventi causa non
interviene il criterio della priorità dell’acquisto, né
rileva in alcun modo il combinarsi di possesso e stati
psicologici come per i beni mobili (artt. 1153, 1155
c.c.), ma spiega i suoi effetti la regola di cui
all’art. 2644 c.c. alla cui stregua viene ad essere
preferito il primo trascrivente, indipendentemente dal
momento del suo acquisto e dalla buona fede dello
stesso.
Tale regola si spiega considerando la prevalenza in tal
caso accordata dal legislatore al bene giuridico della
sicurezza dei traffici negoziali che verrebbe
irrimediabilmente frustrato accedendo ad una differente
soluzione.
Quel che interessa in questa sede non è tanto valutare
il tipo di responsabilità del proprietario del bene
doppiamente alienato, quanto la posizione giuridica
dell’acquirente che pur essendo a conoscenza della
precedente alienazione abbia proceduto per primo alla
trascrizione.
Costui, difatti, secondo la tesi preferibile risponde in
via aquiliana, avendo in pratica realizzato un abuso
dello strumento della trascrizione piegandola ad un uso
distorto certamente non avallabile dall’ordinamento.
In molti casi la giurisprudenza per sanzionare condotte
configuranti un abuso del diritto ha fatto ricorso alla
clausola generale di correttezza e buona fede.
Con riferimento alle trattative prenegoziali, alcune
pronunce hanno riconosciuto la responsabilità
precontrattuale del soggetto che pur avendo dato adito
col suo comportamento ad un legittimo affidamento della
controparte in merito alla positiva conclusione delle
trattative, non era poi addivenuto in assenza di valide
ragioni alla stipulazione del contratto (venire contra
factum proprium). In tal caso, a ben vedere la
responsabilità non è posta a tutela di un inesistente
diritto alla stipulazione contrattuale, bensì della
legittima aspettativa che a questa si addivenga in
assenza di sopravvenienze significative.
L’abuso del diritto può verificarsi anche con riguardo
ai diritti potestativi il cui esercizio non può
ritenersi libero al punto da sacrificare eccessivamente
e, soprattutto, immotivatamente la controparte stretta
nel suo stato di soggezione. La dottrina più avveduta ha
fatto ricorso all’art. 1355 c.c. nel tentativo di
giustificare un sindacato sull’esercizio di diritti
siffatti. Tale norma, nel mettere al bando condizioni
(sospensive) meramente potestative, imporrebbe la
necessaria ricorrenza di una ragione a fondamento
dell’esercizio del diritto per quanto potestativo.
Seguendo la via descritta, pertanto, ha trovato una
prima tutela la posizione del lavoratore a fronte del
diritto al recesso (esercitabile ad nutum prima che la
contrattazione collettiva e poi le L. nn. 604/66, 108/90
introducessero i requisiti della giusta causa o del
giustificato motivo) del datore di lavoro dal contratto
a tempo indeterminato (art. 2118 c.c.).
Allo stesso modo si è argomentato in punto di esclusione
dell’associato dalla associazione non riconosciuta nel
tentativo di estendere analogicamente la disciplina che
specificamente (art. 24, co. 3, c.c.) prevede per gli
enti dotati di personalità giuridica la ricorrenza di
gravi motivi per la sanzione in questione.
Altro settore interessato dal fenomeno esaminato è
quello dei rapporti societari in cui sovente si
verificano c.d. abusi del diritto di voto.
Più frequenti sono le ipotesi di abuso imputabili alla
maggioranza assembleare. Si pensi al caso in cui
attraverso l’approvazione di una delibera si persegua
nei fatti un interesse estraneo allo statuto societario.
La Cassazione non ha esitato a deplorare pratiche
siffatte richiamando come referente normativo
dell’invocato abuso l’art. 1375 c.c. che anche per i
contratti associativi pone l’obbligo di adeguarsi ai
parametri di buona fede. Oppure l’abuso è stato invocato
nel caso di esercizio del diritto di voto funzionale
all’approvazione di una delibera societaria di aumento
del capitale, delibera a sua volta preordinata ad
escludere altri soci dalla maggioranza in quanto
economicamente impossibilitati ad esercitare il diritto
di opzione alla sottoscrizione.
Il divieto ha trovato applicazione in via simmetrica a
tutela della maggioranza rispetto agli abusi posti in
essere dalla minoranza. Si ponga mente al diritto che ex
art. 2367, co. 1, è riconosciuto a quei soci che
rappresentino un decimo del capitale sociale o la
diversa misura inferiore prevista dallo statuto
societario nel richiedere la convocazione
dell’assemblea. Ebbene, si è attribuita la patente di
abusività a quelle richieste avanzate dalla minoranza in
assenza di un valido motivo al solo scopo di ostacolare
sistematicamente l’attività degli amministratori. In
tale direzione si è orientata anche la giurisprudenza
(di merito) che ha opinato come gli amministratori, nel
caso previsto all’art. 2367 c.c., non debbano solamente
valutare la ricorrenza dei requisiti formali posti dalla
norma, ma altresì giungere a respingere quelle richieste
immotivate causate da mero spirito emulativo.
Occorre da ultimo domandarsi, sul piano dei rimedi,
quali siano le conseguenze che l’ordinamento appresta
per l’ipotesi di esercizio abusivo di un diritto
soggettivo.
Oltre al generale rimedio risarcitorio di cui all’artt.
2043 c.c. (la cui compatibilità con la figura dell’abuso
è tuttavia assai controversa) il legislatore prevede, ad
es., la sanzione della nullità o inefficacia in tutte le
ipotesi di abuso della propria posizione di forza
contrattuale (arg. ex artt. 1341 c.c., 36 cod. cons., 9
L. 192/1998).
Quanto agli abusi societari bisogna distinguere: quello
perpetrato dalla maggioranza nell’adozione di una
delibera per la realizzazione di fini extrasociali viene
sanzionata attraverso l’annullamento della stessa; nel
caso in cui sia la minoranza ad abusare chiedendo
convocazioni assembleari per puro spirito emulativo la
sanzione non potrà che essere quella della reiezione di
siffatte richieste.
Nell’ipotesi in cui l’abuso consista nell’impedimento
dell’avveramento di una condizione l’art. 1359 c.c.
prevede come sanzione la fictio dell’avveramento. In tal
caso pertanto, dall’abuso scaturirà non (rectius, non
solo) una generica responsabilità risarcitoria, bensì
l’inefficacia stessa del negozio.
Altri abusi vengono fronteggiati attraverso il diniego
della protezione giuridica astrattamente approntata.
Si pensi, ad es., a quanto previsto all’art. 1426 c.c.:
la norma, partendo dall’assunto per cui malitia supplet
aetatem, esclude l’annullabilità prevista al precedente
articolo per i contratti stipulati da incapaci legali,
nell’ipotesi in cui il minore con raggiri abbia
occultato la propria età. L’abuso del minore viene
punito, dunque, negando allo stesso uno strumento di
tutela che in condizioni ordinarie gli sarebbe
garantito, in quanto una valutazione sostanziale
sottolinea come in fondo l’inesperienza presunta
dell’incapace legale sia un semplice paravento alle cui
spalle si cela una effettiva callidità.
Ancora, possono menzionarsi tanto l’art. 330 c.c.,
quanto l’art. 1015 c.c.: il primo sanzionante l’abuso
della potestà genitoriale (violazione e trascuranza dei
doveri ed abuso dei poteri con grave pregiudizio del
figlio) attraverso la decadenza dalla stessa; il
secondo, invece, relativo all’abuso dell’usufruttuario
(alienazione, deterioramento e perimento del bene
oggetto del diritto reale di cui agli artt. 978 ss.
c.c.) da cui deriva l’estinzione dello ius in re aliena.
Similmente può dirsi in caso di azione funzionale al
parziale adempimento del debito, che, qualora ritenuta
abusiva, trova sanzione nell’improponibilità della
domanda giudiziale (sul punto cfr. infra).
Un ultimo strumento che il nostro ordinamento conosce
come garanzia affinché pretese abusive non trovino
accoglimento è l’exceptio doli generalis.
Per “exceptio doli” l’opinione maggioritaria intende la
possibilità di opporsi ad un’altrui pretesa od eccezione
in astratto fondata, ma in realtà espressione di un
esercizio doloso o scorretto di un diritto, finalizzato
al soddisfacimento di interessi non meritevoli secondo
l’ordinamento giuridico.
Sul piano pratico, l’eccezione di dolo comporta una
disapplicazione delle norme illecitamente invocate e la
conseguente reiezione della domanda. In questo senso, il
rimedio in esame ha una finalità prevalentemente
difensiva.
L’exceptio doli riassume principalmente due direttive:
il divieto di venire contra factum proprium e il divieto
di trarre vantaggio da un proprio comportamento
malizioso o fraudolento.
Secondo coloro che ne ammettono l’attuale vigenza,
l’exceptio doli consente un costante adeguamento del
diritto alla realtà sociale, realizzato, sulla base di
criteri equitativi, mediante “una più duttile
applicazione delle regole formali”. Questo ruolo è
coerente con l’origine storica dell’istituto e con la
funzione di “relativizzazione” dello strictum ius
assunto dall’exceptio nel diritto romano.
Nel Codice civile non è rintracciabile alcuno standard
(o clausola generale) che riconosca esplicitamente
diritto di cittadinanza ad un criterio generale di
repressione dei comportamenti scorretti o fraudolenti.
Tuttavia sono numerosissimi gli istituti dell’attuale
sistema delle obbligazioni e dei contratti che
condividono la ratio sottesa al principio in esame.
Possono essere richiamati l’istituto della compensazione
(art. 1241 ss., c.c.), l’irrilevanza della riserva
mentale, la tutela dell’apparenza, l’effetto solutorio
del pagamento effettuato all’incapace nei limiti
dell’arricchimento (art. 1190 c.c.), l’effetto
liberatorio derivante dalla mora del creditore (art.
1207, co. 1, c.c.), la sottrazione dalla mora del
debitore che ha effettuato l’offerta della prestazione
dovuta, pur non rispettando le forme indicate negli art.
1208 ss. c.c., la limitazione del risarcimento dei danni
evitabili dal creditore con l’ordinaria diligenza (art.
1227, capoverso, c.c.), la non opponibilità al
cessionario in buona fede del patto che esclude la
cedibilità del credito (art. 1260, capoverso, c.c.), la
rilevanza della conoscenza da parte del debitore ceduto
della cessione del credito anche prima della
notificazione della cessione (art. 1264, capoverso,
c.c.), la finzione di avveramento della condizione,
nell’ipotesi in cui la mancata verificazione sia
ricollegabile al comportamento della parte che aveva
interesse contrario all’avveramento (art. 1359 c.c.), la
non annullabilità del contratto concluso dal minore che
ha con raggiri occultato la sua minore età (art. 1426
c.c.), la minaccia di far valere un diritto come causa
di annullamento del contratto (art. 1438 c.c.),
l’inefficacia della convalida se chi la esegue non è in
condizione di concludere validamente il contratto (art.
1444, capoverso c.c.), l’impossibilità di rifiutare la
prestazione all’inadempiente se il rifiuto è contrario
alla buona fede (art. 1460, capoverso, c.c.), la
rilevanza della buona fede del compratore (art. 1479
c.c.), l’inefficacia del patto che esclude la
responsabilità in caso di mala fede del venditore (art.
1490, capoverso, c.c.), l’irrilevanza della
riconoscibilità del vizio nel caso in cui il venditore
abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi (art.
1491 c.c.), ecc.
Di fronte all’inesistenza di una norma che confermi
l’attuale vigenza del principio in esame, la
sopravvivenza dell’exceptio doli generalis è legata al
ruolo creativo della giurisprudenza. Negli ultimi anni,
come evidenziato precedentemente, sia le corti di
legittimità che di merito, contestualmente ad una
riscoperta delle clausole generali (in particolare, del
dovere di buona fede) e del significato immediatamente
precettivo (non programmatico) dei valori costituzionali
(in primis, il principio di solidarietà), hanno
impiegato l’exceptio doli generalis al di fuori dei casi
espressamente regolati dal legislatore, ritenendo le
ipotesi codificate espressione di un principio di
respiro generale.
Nel solco del ruolo della buona fede come limite alle
pretese creditorie, sotto il profilo del divieto di
abusare del diritto e quindi dell’esposizione
all’exceptio doli generalis, merita da ultimo segnalare
la recente decisione delle S.U. (Cass., S.U., 15
novembre 2007, n. 23726) che hanno ritenuto contrario ai
canoni di correttezza e buona fede il frazionamento
dell’azione giudiziaria teso all’ottenimento
dell’adempimento di un credito unitario, con conseguente
improponibilità della domanda (Cass. 15476/08).
All’esito di questa lunga digressione, e tornando ad
esaminare la fattispecie concreta per cui è causa, pare
a questo giudice che la pretesa del XXXXXXXXX di
ottenere la riduzione in pristino stato dei luoghi
mediante la demolizione del fabbricato del convenuto,
contrasti con il principio generale di buona fede e sia
in definitiva abusiva in quanto volta ad ottenere
un’utilità inaccettabile secondo la comune coscienza
sociale.
Come si è avuto modo di sottolineare, infatti il
XXXXXXXXX per oltre 13 anni (dal 1982, anno in cui venne
realizzata la fabbrica da parte del YYYYYYYYYY come
riferisce il teste M. V. all’udienza del 5.5.1997) ha
tollerato l’indebita invasione del confine da parte del
YYYYYYYYYY, domandando la riduzione in pristino solo nel
1995; è inoltre assodato, per quanto riferito sopra, che
M. R., coniuge del XXXXXXXXX e comproprietaria
dell’immobile aveva sottoscritto il tipo di mappale
datato 31.10.1985 e richiamante il frazionamento del
geometra L. F., nel quale sono riportati confini – ben
conosciuti dall’attore e dichiarati, sebbene ai soli
fini fiscali, dal coniuge dello stesso - del tutto
difformi da quelli che si pretende far valere a mezzo
dell’odierno giudizio.
È
infatti palese che nella fattispecie in esame l’attore
non si sia opposto, ed abbia probabilmente approvato,
l’edificazione da parte del YYYYYYYYYY nel proprio
fondo. Ma v’è di più.
Dalla relazione del CTU si evince che lo stesso attore
nell’edificare la propria fabbrica, non ha affatto
rispettato la dividente ricavata in base all’originario
frazionamento del 1973, invadendo l’attigua proprietà M.
Pare dunque evidente che i proprietari dei diversi lotti
originariamente appartenuti a C. A., siano addivenuti
bonariamente ad una delimitazione dei confini differente
da quella risultante dai rispettivi titoli d’acquisto.
Tale bonaria delimitazione, sebbene del tutto inidonea
in difetto dell’imprescindibile requisito della forma
scritta a determinare una modificazione giuridica delle
situazioni dominicali facenti capo ai singoli
proprietari, non può tuttavia essere totalmente
pretermessa ed ignorata nel momento in cui una delle
parti, venendo contra factum proprium decida di agire in
sede giurisdizionale per ottenere il ripristino di una
situazione di diritto che lo stesso attore aveva
pacificamente disatteso.
Per le ragioni esposte, facendo applicazione dei
principi da ultimo affermati dalla Cassazione in materia
di abuso del diritto processuale, la domanda di
riduzione in pristino (così come per analoghe ragioni,
quella subordinata di eliminazione delle servitù) deve
essere dichiarata improponibile, anche in considerazione
del fatto che l’attore può trovare adeguata tutela delle
proprie ragioni utilizzando il meno invasivo rimedio
risarcitorio per equivalente.
Sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione
delle spese di lite e di ctu tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa
ogni ulteriore istanza, deduzione ed eccezione, così
provvede:
Dichiara che il confine tra i due fondi è quello
risultante dall’originario frazionamento allegato al
rogito notar Soldani del 26.11.1973, così come
individuato dal CTU geom. R. nell’allegato D alla
relazione depositata in data 9.12.2007;
Dichiara improponibili le ulteriori domande attoree;
dichiara integralmente compensate tra le parti le
spese di lite e di ctu.
Sassari, 23.4.2010 Il Giudice
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