Gennaro Marasciuolo
Sommario: 1.Premessa. – 2. La vicenda. – 3. Violazione
dell’obbligo di fedeltà e presunzione della sussistenza
del nesso di causalità fra detta violazione e la crisi
della copia. - 4. Quale sorte subisce il giudizio di
separazione coniugi in appello, se nelle more interviene
l’ordinanza del Presidente del Tribunale pronunciata in
seno al giudizio di divorzio? - 5. durante il giudizio
di separazione o di divorzio, è sempre possibile far
emergere fatti nuovi.
1. Premessa.
La pronuncia resa dalla Corte di Cassazione 21245/2010,
immediatamente dopo la sua pubblicazione, è stata
evidenziata per la particolare fattispecie concreta che
aveva condotto alla crisi coniugale, vale a dire, la
relazione extra coniugale di un coniuge e il
comportamento “poco cavalleresco” di quest’ultimo, il
quale non nascondeva il proprio tradimento agli amici.
Il presente intervento, accantonando ogni commento sulla
condotta del fedigrafo, cerca di esaminare, senza
presunzione di completezza, le principali questioni sia
di carattere processuale, che di diritto sostanziale, in
tema di separazione giudiziale coniugi portate
all’attenzione della Suprema Corte.
2. La vicenda.
Il marito propone da prima appello avverso la sentenza
di primo grado che aveva, in primo luogo, dichiarato la
separazione con addebito nei suoi confronti e, quindi,
lo aveva condannato a corrispondere l’assegno di
mantenimento all’altro coniuge e ai due figli
maggiorenni, ma non ancora economicamente
autosufficienti. La Corte d’Appello conferma la sentenza
del tribunale, dichiarando, inoltre, la cessazione della
materia del contendere, in ordine alle condizioni
economiche della separazione, atteso che il Presidente
del Tribunale, in seno al procedimento di cessazione
degli effetti civili del matrimonio (c.d. causa di
divorzio), incardinato nelle more del giudizio di
secondo grado, aveva rideterminato l’ammontare
dell’assegno di mantenimento.
3. Violazione dell’obbligo di fedeltà e presunzione
della sussistenza del nesso di causalità fra detta
violazione e la crisi della copia.
Per effetto della celebrazione del matrimonio, in capo
ad entrambi i coniugi, sorgono, in modo paritetico fra
di loro il dovere alla fedeltà, all’assistenza morale e
materiale, alla collaborazione nell’interesse della
famiglia ed alla coabitazione (art. 143 c.c.).
Al coniuge, che ha violato uno o più dei sopra elencati
doveri, può essere addebitata la separazione, a
condizione, però, che la violazione sia stata così grave
da rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza.
In altre parole, la pronuncia di addebito della
separazione presuppone la prova della violazione di un
dovere discendente dal matrimonio, nonché la sussistenza
del nesso di causalità fra l’intollerabilità della
prosecuzione della convivenza e la stessa violazione
(Cass. Civ. Sez. I, 28/05/2008, n. 14042; Cass. Civ.
Sez. I, 27/06/2006, n. 14840; Cass. Civ. Sez. I,
01/03/2005, n. 4290).
Stante, però, l’intuibile gravità della violazione
dell’obbligo di fedeltà, la giurisprudenza di
legittimità è solita ritenerla “di regola circostanza
sufficiente a giustificare l’addebito della separazione
a carico del coniuge responsabile” (Cass. Civ. Sez. I,
12/04/2006, n. 8512; Cass. Civ. Sez. I, 18/09/2003, n.
13747; Cass. Civ. Sez. I, 9/06/2000, n. 7859).
La pronuncia presa in esame rincara la dose, poichè,
ammettendo la necessità dell’accertamento del nesso di
causalità tra violazione dei doveri coniugali e la crisi
dell’unione familiare, avalla quanto già specificato
dalla sentenza di secondo grado, vale a dire, che
l’instaurazione di una relazione extraconiugale deve
presumersi causa efficiente di una situazione di
intollerabilità della convivenza.
Tale assunto non è privo di conseguenze pratiche, atteso
che introduce una presunzione in ordine alla sussistenza
del nesso causale fra la violazione dei doveri coniugali
e la crisi della coppia, così che il coniuge, che abbia
provato il tradimento dell’altro, non deve provare,
altresì, la ricorrenza del nesso causale, perchè
presunta e, di conseguenza, il fedigrafo, sarà gravato
dell’onere di provare che la relazione extraconiugale
non ha avuto incidenza causale nel determinarsi della
crisi coniugale dimostrando, ad esempio, la preesistenza
di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un
contesto caratterizzato da una convivenza solo formale
(Cass. Civ. Sez. I, 19/07/2010, n. 16873; Cass. Civ.
Sez. I, 07/12/2007, n. 25618).
4. Quale sorte subisce il giudizio di separazione
coniugi in appello, se nelle more interviene l’ordinanza
del Presidente del Tribunale pronunciata in seno al
giudizio di divorzio?
Questa domanda non ha avuto e non ha in giurisprudenza
una risposta unanime, poiché vi sono pronunce, come
quella in commento, che protendono per la cessazione
della materia del contendere del giudizio di separazione
in ordine a tutte le questioni decise dal Presidente del
Tribunale nel procedimento di divorzio e altre pronunce,
invece, che sostengono l’autonomia del giudizio di
separazione da quello di divorzio e, conseguentemente,
escludono la possibilità che sia pronunciata la
cessazione della materia del contendere nel primo
giudizio.
Il problema ha origine dalla possibilità, tutt’altro che
remota, che venga introdotta una causa volta ad ottenere
la cessazione degli effetti civili del matrimonio,
nonostante sia ancora in corso la causa di separazione
fra gli stessi coniugi.
Allorquando, infatti, sia stata già emanata una
sentenza, oramai passata in giudicato, almeno per quanto
concerne la sola pronuncia della separazione
(giudiziale) e siano, comunque, decorsi almeno tre anni
dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del
Tribunale nella procedura di separazione (art. 1, n. 2,
lett. b) L. 898/1970), è ben possibile, per il singolo
coniuge, presentare ricorso per ottenere il divorzio,
nonostante la causa di separazione sia ancora in corso,
per esempio, in appello e stia proseguendo per le sole
questioni di carattere economico.
Avviato, di tal fatta, il giudizio di divorzio, fino a
quando, poi, il Tribunale non adotta una pronuncia di
cessazione degli effetti civili del matrimonio, le parti
in causa risultano sempre essere coniugate, di talchè il
loro “status” di separati, ma non ancora divorziati,
viene disciplinato dal provvedimento del Presidente del
Tribunale, il quale, ai sensi e per gli effetti
dell’art. 4, comma VIII, della L. 898/1970 (c.d. Legge
sul divorzio), in caso di fallimento del tentativo di
conciliazione fra i coniugi, ha il potere di adottare,
con ordinanza, i provvedimenti temporanei ed urgenti che
reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della
prole.
A
questo punto, è intuibile che possano coesistere ben due
diversi provvedimenti: la sentenza di separazione e
l’ordinanza del Presidente del Tribunale, ex art. 4 L.
Divorzio, aventi la stessa funzione, vale a dire, la
disciplina della vita dei coniugi.
Le conseguenze pratiche sono numerose: quali sono le
sorti del giudizio di separazione? A quale provvedimento
si devono attenere i coniugi? È possibile per i coniugi
chiedere la modifica delle condizioni di separazione
contenute nella sentenza di separazione (ex art. 710
c.p.c.), nonostante il Presidente del Tribunale abbia
già adottato l’ordinanza ex art. 4 Legge Divorzio?
Come già anticipato, in giurisprudenza, si fronteggiano
due orientamenti: il primo, ritenendo che il giudizio di
divorzio e quello di separazione (ma, lo stesso si
potrebbe estendere anche per il giudizio di modifica
delle condizioni di separazione ex art. 710 c.p.c.),
hanno petitum e causa petendi differenti, sostiene che
siano procedimenti del tutto autonomi, volti a
raggiungere finalità proprie, di talchè la loro
possibile coesistenza e la conseguente impossibilità che
possa essere dichiarata la cessazione della materia del
contendere nel giudizio di separazione, per effetto
dell’intervenuto provvedimento presidenziale nel
giudizio di divorzio.
Secondo l’orientamento ora in parola, infatti, i coniugi
avrebbero tutto l’interesse a proseguire il giudizio di
separazione, per ottenere un pronuncia sulle questioni
patrimoniali, come la regolamentazione dell’assegno di
mantenimento fino alla sentenza di divorzio, poiché solo
tale provvedimento, operando ex nunc dal momento del
passaggio in giudicato, comporta la cessazione della
materia del contendere nel giudizio di separazione
personale iniziato anteriormente (Cass. Civ., Sez. I,
8/05/1992, n. 5497; Cass. Civ., Sez. I, 28/10/2005, n.
21091; Cass. Civ. 8/07/2005, n. 14381).
Il secondo orientamento, al quale aderisce la pronuncia
segnalata, invece, ritiene che prima ancora della
pronuncia di divorzio – passata in giudicato – è
l’ordinanza del Presidente del Tribunale a sostituire le
statuizioni contenute nella sentenza di separazione,
tanto da provocare la cessazione della materia del
contendere nel giudizio di separazione in corso, o
ancora l’improcedibilità del ricorso per la modifica dei
provvedimenti emessi con la sentenza di separazione ex
art. 710 c.p.c. (Corte Appello Reggio Calabria,
23/01/2006, in Giurisprudenza di merito 9/2006).
Quest’ultimo orientamento, trae fondamento da due
considerazioni consequenziali fra di loro:
1) Il provvedimento del Presidente del
Tribunale adottato ex art. 4, L. 898/1970 ha la stessa
natura del provvedimento di modifica delle condizioni di
separazione ex art. 710 c.p.c., poiché, come
quest’ultimo, disciplina le condizioni dei coniugi
separati;
2) È lo stesso Legislatore a conferire,
all’ordinanza presidenziale l’uguale natura sopra
evidenziata, atteso che l’art. 4, comma VIII L.D.
stabilisce che a tale provvedimento si applica l’art.
189 delle Disp. Att. c.p.c., con la conseguenza che se
il giudizio di divorzio non viene coltivato e viene,
quindi, considerato abbandonato, il provvedimento in
questione, al pari del suo omologo, adottato in seno al
giudizio di separazione, non perde la propria efficacia,
ma continua a disciplinare i rapporti fra i coniugi
(Cass. Civ. Sez. I, 30/03/1994, n. 3164).
Quest’ultimo orientamento, se da una parte, fornisce il
destro ad un ricorso anche strumentale al giudizio di
divorzio, dall’altra, stabilendo quale provvedimento
debba prevalere, conferisce quella necessaria certezza,
utile non solo ai coniugi (i diretti interessati), bensì
anche agli operatori del diritto.
5. Durante il giudizio di separazione o di divorzio, è
sempre possibile far emergere fatti nuovi.
La pronuncia n. 21245/2010 affronta quest’ultima
questione incidenter tantum, poiché non era stata
oggetto di censura da parte del ricorrente, ma, da
quanto comunque espresso dalla Suprema Corte è chiaro
che nel giudizio di separazione e di divorzio possono
essere introdotti fatti sopraggiunti, che possono
influenzare la decisione sulla determinazione
dell’ammontare dell’assegno di mantenimento (o
divorzile), nonostante siano già maturate le preclusioni
processuali.
Gli ermellini, infatti, bacchettano la Corte di Appello,
poiché quest’ultima non avrebbe fatto buon governo del
principio di disponibilità e di quello della domanda,
atteso che non aveva tenuto conto delle variazioni
patrimoniali e reddituali emerse durante il giudizio.
I
Giudici di legittimità hanno aderito, dunque,
all’orientamento dottrinale che ammette la possibilità
di derogare alle preclusioni che caratterizzano il
giudizio civile per l’allegazione e la prova di fatti
nuovi, quando questi possono incidere sulla domanda
volta ad attribuire l’assegno di mantenimento o di
divorzio.
Questo orientamento preserva l’economia processuale.
Infatti, se è vero che la sentenza di separazione e di
divorzio sono adottate rebus sic stanti bus ed è
altrettanto vero che possono essere modificate con un
giudizio ad hoc (art. 710 c.p.c. e art. 9 L. D.), ne
consegue che se sopraggiunge un nuovo accadimento, dopo
la maturazione delle preclusioni giudiziali, che può
influire sulla decisione del giudice, appare
irragionevole che si debba necessariamente attendere
l’adozione di una sentenza (sui fatti vecchi), per poi
chiederne la modifica.
Quest’ultima soluzione comporterebbe disagi non solo
economici alle parti in causa, ma anche al settore
giustizia, che dovrebbe gestire una nuova causa che si
andrebbe ad aggiungere ad un sistema oramai ingolfato.
Ritengo, quindi, che, nel rispetto del principio del
contraddittorio, le parti del giudizio di separazione e
di divorzio possano introdurre e provare fatti nuovi, in
ordine alle questioni di carattere economico, fino a
quando non abbiano precisato le loro conclusioni,
nonostante, quindi, la maturazione delle prescritte
preclusioni processuali, onde ottenere una sentenza che
disciplini il reale evolversi delle condizioni delle
parti e non le condizioni passate.
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