Affermare che un ben individuato organo giurisdizionale
(nella specie la Procura della Repubblica di Palermo)
fosse "un'associazione a delinquere di tipo
istituzionale" costituisce, senza dubbio alcuno, attacco
alla imparzialità della funzione giurisdizionale che è
la imprescindibile condizione che gli organi che tale
funzione esercitano deve rivestire proprio nella
coscienza della collettività.
In particolare, balza agli occhi il disonorevole
riferimento alla struttura organizzativa e alla
tendenziale stabilità, che caratterizzano l'attività dei
criminali realmente aderenti all'associazione a
delinquere, per diffondere in maniera avvolgente nella
coscienza collettiva l'idea di organi giurisdizionali
del pari dediti stabilmente e tendenzialmente al
confezionamento di tesi accusatorie precostituite e di
complotti contro esponenti politici.
Cassazione, sez. V, 15 aprile 2011, n. 15447
(Pres. Calabrese – Rel. Sabeone)
Ritenuto in fatto
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 5
maggio 2009 in riforma della sentenza del Tribunale di
Roma del 3 dicembre 2004, ha dichiarato non doversi
procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di
M. T. A. per il delitto di diffamazione a mezzo stampa
in danno di C. G. anche se, di converso, ha confermato
le statuizioni civili di condanna.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per
cassazione l'imputata, attraverso il proprio difensore,
il quale lamenta quale unico motivo la violazione di
norme penali e la mancanza, contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione, ai sensi
dell'articolo 606 lettere b) ed e) c.p.p., con
particolare riferimento al mancato accertamento
dell'esistenza della scriminante di cui agli articoli 68
della Costituzione e 3 della legge 140/03, che
attribuiscono ai deputati il diritto di svolgere la
propria attività e di esprimere liberamente le proprie
opinioni.
Considerato in diritto
1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Del tutto fuori di luogo è, in primis, qualsiasi
argomentazione in merito alla esistenza o meno della
c.d. connessione funzionale tra le frasi pronunciate
dalla ricorrente e per cui è causa e la sua attività di
parlamentare.
Nel corso del giudizio di primo grado, si è, invero,
avuto l'intervento della Corte Costituzionale, adita a
seguito del conflitto di attribuzioni tra poteri dello
Stato, sorto in conseguenza della delibera della Camera
dei deputati del 23 novembre 1999 relativa alla
insindacabilità delle opinioni espresse dall'onorevole
T. M. nei confronti del Dott. C. G., promosso con
ricorso del GUP presso il Tribunale di Roma, depositato
il 25 novembre 2000.
Con la sentenza del 26 giugno 2002, n. 294, il Giudice
delle leggi ha chiarito come:
a) non spettasse alla Camera dei Deputati dichiarare
l'insindacabilità delle opinioni espresse dalla deputata
M. e per le quali era in corso giudizio penale avanti il
Tribunale di Roma;
b) la stessa Camera avesse ecceduto nell'interpretazione
dell'ampiezza della garanzia stabilita dall'articolo 68,
primo comma della Costituzione, "facendovi rientrare
apprezzamenti (espressi al di fuori delle tipiche
funzioni parlamentari) in ordine alla detta Procura
della Repubblica, ed alla esistenza di un'associazione a
delinquere di tipo istituzionale, che non trovano
riscontro e sostanziale corrispondenza di significato in
alcuno degli atti parlamentari tipici invocati dalla
difesa della stessa Camera dei deputati" (per usare le
medesime parole della Corte);
c) dovesse essere annullata la delibera
d'insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati
nella seduta del 23 novembre 1999.
Dopo l'entrata in vigore della legge 20 giugno 2003 n.
140 (Disposizioni per l'attuazione dell'articolo 68
della Costituzione nonché in materia di processi penali
nei confronti delle alte cariche dello Stato) il
Tribunale ha, poi, riproposto, ai sensi dell'articolo 3,
comma 4 di tale legge, l'iter procedurale per consentire
la delibazione sull'applicabilità dell'articolo 68 della
Costituzione e la Camera dei Deputati, con nota del 1
giugno 2004, ha comunicato seccamente di non poter
nuovamente pronunciarsi sui medesimi fatti di cui alla
precedente delibera 23 novembre 1999, annullata dalla
Corte Costituzionale.
Per inciso, può notarsi la superfluità della nuova
investitura del Giudice delle leggi in quanto l'articolo
8 della medesima legge 140/03 aveva chiarito, con norma
finale di chiusura, come restassero validi gli atti e i
provvedimenti adottati e fossero fatti salvi gli effetti
prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base dei
numerosi decreti legge, a partire da quello 15 novembre
1993 n. 455 sino da ultimo a quello 23 ottobre 1996 n.
555, contenenti disposizioni urgenti per l'attuazione
dell'articolo 68 della Costituzione.
Da quanto fin qui esposto questa Corte non può che far
derivare, da un lato, l'inesistenza di alcun ostacolo
alla sindacabilità delle opinioni espresse dalla
deputata M. nei confronti del Dott. C., sia per
l'annullamento, con effetto ex tunc, della delibera
d'insindacabilità originaria che per la
cristallizzazione degli effetti giuridici preesistenti e
non modificati da alcuna norma di diverso segno (v.
Cass. Sez. V 27 ottobre 2006 n. 40728).
D'altra parte, con assorbente considerazione, proprio il
Giudice delle leggi, con decisione che non può essere
ritenuta tamquam non esset come vorrebbe la ricorrente,
ha escluso la corrispondenza tra le espressioni
pronunciate dalla deputata M. nel convegno partitico e
gli atti parlamentari dalla stessa evidenziati per
sostenere, al contrario, una lecita propagazione di tale
attività parlamentare extra moenia.
Il dictum della Corte Costituzionale, infatti, non è
censurabile da questa Corte la quale non può affermare
l'erroneità o la esattezza di una norma di legge sicché
non era più possibile nel processo tornare a discutere
della esistenza o meno della c.d. "connessione
funzionale" tra attività parlamentare ed espressioni
pronunciate extra moenia, tema inutilmente affrontato
dalla sentenza di primo grado, dall'atto di appello,
dalla sentenza di secondo grado e dal presente ricorso.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente,
inoltre, la suddetta pronuncia non si pone neppure in
contrasto, ammesso che possa esistere un contrasto di
tal fatta, con la giurisprudenza di questa stessa
Sezione della Corte (v. Cass. Sez. V 14 dicembre 1999 n.
4678, 17 ottobre 2008 n. 42031 e 4 maggio 2010 n. 22716)
posto che la libertà del deputato di esprimere le sue
opinioni, anche al di fuori della fisiologica sede
parlamentare, non viene affatto eliminata e che al
Giudice rimane, pur sempre, consentita la valutazione
sulla corrispondenza effettiva tra le parole espresse al
di fuori del Parlamento e la concreta attività
parlamentare del rappresentante del popolo.
3. Il tutto senza neppure dimenticare, e in ciò si
evidenzia l'ulteriore ostacolo all'accoglimento del
ricorso, l'inapplicabilità al caso di specie
dell'esimente del diritto di critica.
In linea teorica non può certamente negarsi che la
critica sia legittima anche quando abbia ad oggetto
l'attività giudiziaria.
La libertà di manifestazione del proprio pensiero,
garantita dall'articolo 21 della Costituzione così come
dall'articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo, include la libertà d'opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche
su temi d'interesse pubblico, dunque soprattutto sui
modi d'esercizio del potere qualunque esso sia, senza
ingerenza da parte delle autorità pubbliche.
La natura di diritto individuale di libertà ne consente,
in campo penale, revocazione per il tramite
dell'articolo 51 c.p., e non v'è dubbio che esso
costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto
fondante la democrazia e condizione dell'esercizio di
altre libertà.
All'interno delle società democratiche deve, di
conseguenza e soprattutto, riconoscersi alla stampa e ai
mass media il ruolo dì fori privilegiati per la
divulgazione extra moenia dei temi agitati all'interno
delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in
genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la
giustizia e l'imparzialità della Magistratura.
Il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto
dalla libertà di stampa non consente, in altri termini,
di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere
giudiziario, dovendo convenirsi con la giurisprudenza
della Corte EDU allorché afferma che i giornali sono i
c.d. "cani da guardia" (watch-dog) della democrazia e
delle istituzioni, anche giudiziarie (v. tra le tante:
Kobenter e Standard e. Austria caso n. 60899/00).
Proprio la Giurisprudenza della CEDU ha costantemente
ribadito che questi ultimi costituiscono il mezzo
principale diretto a garantire un controllo appropriato
sul corretto operato dei Giudici.
Sulle medesime premesse, la giurisprudenza di questa
Corte (e in particolare di questa stessa Sezione) ha già
da tempo riconosciuto come sia, da un lato, "di enorme
interesse per la comunità nazionale la corretta e
puntuale esplicazione dell'attività giudiziaria e,
dall'altro, come critica e cronaca giornalistica volte a
tenere o a ricondurre il Giudice nell'alveo suo proprio
vadano non solo giustificate, ma propiziate" (v. a
partire da Cass. Sez. V 23 gennaio 1984 n. 3743 e più di
recente 21 febbraio 2007 n. 25138).
Maggiore è il valore dell'attività esercitata più grande
è d'altra parte la imprescindibilità del dibattito
pubblico.
E
se più rigidi sono apparsi i limiti apposti dalla
giurisprudenza alla critica nei confronti delle
istituzioni giudiziarie, essi trovano ragione
soprattutto nel fatto che, a differenza di quel che
accade per altri soggetti pubblici, il dovere di
riservatezza generalmente impedisce ai Magistrati presi
di mira di reagire agli attacchi loro rivolti.
Tutto ciò premesso in punto di diritto, affermare, in
conclusione e in punto di fatto, che un ben individuato
organo giurisdizionale (nella specie la Procura della
Repubblica di Palermo) fosse "un'associazione a
delinquere di tipo istituzionale" costituisce, senza
dubbio alcuno, attacco alla imparzialità della funzione
giurisdizionale che, agli occhi del quivis de populo, è
la imprescindibile condizione che gli organi che tale
funzione esercitano deve rivestire proprio nella
coscienza della collettività.
In particolare, balza agli occhi il disonorevole
riferimento alla struttura organizzativa e alla
tendenziale stabilità, che caratterizzano l'attività dei
criminali realmente aderenti all'associazione a
delinquere, per diffondere in maniera avvolgente nella
coscienza collettiva l'idea di organi giurisdizionali
del pari dediti stabilmente e tendenzialmente al
confezionamento di tesi accusatorie precostituite e di
complotti contro esponenti politici.
Né può convenirsi con la ricorrente allorquando afferma
nel ricorso, in maniera semplice ma inefficace, che
l’espressione adoperata nel corso del raduno politico,
sia pur con toni “fortemente enfatizzati”, dovesse
ritenersi “congrua” in considerazione delle finalità che
s’intendono perseguire attraverso i pubblici comizi.
L’espressione non mira affatto alla ricerca del consenso
elettorale o all’ottenimento dell’appoggio degli
elettori alla propria attività politica ma si sostanzia
molto più semplicemente in un’aggressione all’altrui
sfera morale che non può di sicuro essere ricondotta
all’esercizio del diritto di critica.
4. Il ricorso va, in conclusione, rigettato con la
conferma delle statuizioni civili dell’impugnata
decisione e con la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute
dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.
P.T.M.
La Corte rigetta il ricorso confermando le statuizioni
civili dell’impugnata decisione e condanna la ricorrente
al pagamento delle spese del procedimento nonché alla
rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte
civile, che liquida in Euro 1.228,70 pero onorari oltre
accessori di legge.
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