Essendo le obbligazioni inerenti all'esercizio
dell'attività professionale di avvocato obbligazioni di
mezzi e non di risultato, ai fini del giudizio di
responsabilità nei confronti del professionista, rileva
non già il conseguimento del risultato utile per il
cliente, ma il modo come l'attività è stata svolta avuto
riguardo, da un lato, al dovere primario del
professionista di tutelare le ragioni del cliente e,
dall'altro, al parametro della diligenza fissato
dall'art. 1176 2^ comma c.c., che è quello della
diligenza del professionista di media attenzione e
preparazione
Cassazione, sez. III, 18 aprile 2011, n. 8863
(Pres. Morelli – Rel. Carleo)
Svolgimento del processo
Nel settembre 1998 L..Q. conferiva agli, avvocati C.E. e
G..R. l'incarico di promuovere una causa contro la Banca
d'Italia, sua ex datrice di lavoro, al fine di ottenere
il risarcimento di danni subiti, concordando con
apposita convenzione scritta un compenso complessivo
forfetario di lire 5.000.000 e versando a titolo di
acconto l'importo di lire 1 milione. La causa introdotta
presso il Tribunale di Arezzo veniva definita con una
sentenza dichiarativa di difetto di giurisdizione e di
condanna del Q. alla rifusione delle spese. Rifiutatosi
il Q. di pagare l'ulteriore compenso pattuito, il
Rispoli e la C. chiedevano ed ottenevano due distinti
decreti ingiuntivi, ciascuno dei quali per lire 2
milioni oltre accessori, emessi rispettivamente, su
istanza del primo, dal Giudice di Pace di Palermo e su
istanza della seconda, dal Giudice di Pace di Firenze.
Il Q. pagava con riserva gli importi, proponendo
opposizione all'ingiunzione del giudice di pace di
Firenze, opposizione con cui eccepiva la compensazione
totale o parziale del proprio debito con un suo credito
vantato a titolo risarcitorio perché aveva subito danni
patrimoniali a causa dell'imperizia professionale del
legale. Con sentenza del maggio 2002 il giudice di pace
accoglieva la domanda del Q. e condannava la C. a pagare
la somma di Euro 2.379,28 oltre interessi legali e
spese. Avverso tale sentenza proponeva appello la C. ed
il Q. non si costituiva tempestivamente. All'udienza di
precisazione delle conclusioni, dopo che il giudice
aveva rimesso la causa in decisione, il Q., chiesta ed
ottenuta la riapertura del verbale e la revoca
dell'ordinanza di rimessione della causa in decisione,
si costituiva eccependo preliminarmente
l'inammissibilità dell'appello in quanto notificato alla
parte presso il domiciliatario del procuratore
costituito, che in primo grado aveva appunto eletto
domicilio presso il primo ai sensi dell'art.82 del Rd
n.37 del 1934. Con sentenza non definitiva n. 1110/04 il
Tribunale dichiarava la nullità della costituzione del
Q. e la nullità della notificazione dell'appello, quindi
con separata ordinanza disponeva la rinnovazione della
notificazione. Provvedutosi a tale adempimento, in esito
al giudizio in cui si costituiva il Q., con sentenza
definitiva depositata il 17 marzo 2006, il Tribunale, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, revocava
il decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace e
dichiarava il Q. tenuto a pagare la minor somma capitale
di Euro pari a lire 500.000 e condannava la C. a
restituire all'opponente la differenza tra quanto già
pagato e quanto invece dovuto con la sentenza.
Avverso tale sentenza la C. ha proposto ricorso per
cassazione articolato in quattro motivi. Resiste con
controricorso il Q., il quale ha altresì proposto
appello incidentale. La C., a sua volta, resiste con
controricorso e deposita memoria difensiva ex art.378
c.p.c.
Motivi della decisione
In via preliminare, vanno riuniti il ricorso principale
e quello incidentale, in quanto proposti avverso la
stessa sentenza.
Procedendo all'esame del ricorso principale, va
osservato che con la prima doglianza, deducendo il vizio
di violazione di legge (artt.170, 330 cpc, 82 r.d.
n.37/34, 359 e 291 cpc) la ricorrente ha lamentato
l'erroneità della decisione del giudice d'appello quando
ha dichiarato la nullità della notificazione
dell'appello, effettuata presso l'avv. Paolo Sanchini,
procuratore domiciliatario del Q. per il giudizio di
primo grado in quanto- così, in sintesi, la tesi della
ricorrente - la notificazione, effettuata nel domicilio
eletto per il giudizio di primo grado, mantiene la sua
efficacia per il grado successivo ancorché il
procuratore presso il quale è avvenuta tale elezione non
abbia rappresentato la parte.
La censura è inammissibile. All'uopo, vale la pena di
evidenziare che il Tribunale si è pronunciato sulla
nullità della notifica in questione con sentenza non
definitiva d'appello n.1110/04 depositata in data 11
marzo 2004. Tale sentenza non risulta essere stata
oggetto di riserva facoltativa di ricorso nei termini
previsti dall'art.361 del cpc né d'altra parte tale
circostanza è stata dedotta in ricorso dalla ricorrente.
Ora, posto che l'istituto dell'impugnazione differita
trova la sua ragion d'essere nella opportunità di
concentrare in unico giudizio le impugnazioni da
proporre contro differenti sentenze pronunciate nello
stesso processo, deve sottolinearsi che solo la
dichiarazione di riserva ha l'effetto di consentire la
contemporanea impugnazione della sentenza non definitiva
e di quella definitiva, con la conseguenza che l'omessa
dichiarazione di riserva ed il mancato esercizio del
potere di impugnazione nel termine di un anno dalla
pubblicazione della sentenza non definitiva precludono
la censurabilità della statuizione, contenuta nella
sentenza non definitiva, contestualmente
all'impugnazione della sentenza definitiva.
Passando all'esame della seconda doglianza, articolata
testualmente sotto il profilo della "violazione
dell'art.112 cpc in relazione all'art.360 cpc n.5", deve
rilevarsi che, ad avviso della ricorrente, la sentenza
impugnata sarebbe affetta da motivazione contraddittoria
per avere il giudice d'appello, "esaminando la doglianza
formulata dall’appellante secondo cui il giudice di
primo grado avrebbe errato dichiarando che la stessa
aveva svolto senza perizia e diligenza la propria opera
professionale" dapprima dichiarato che il motivo di
impugnazione appariva fondato e concluso quindi la
trattazione della censura dichiarando la doglianza
infondata.
Il motivo di impugnazione è con tutta evidenza
infondato. Ed, invero, pur prescindendo da ogni
considerazione in ordine alla irrituale commistione,
fatta dalla ricorrente, tra un vizio motivazionale della
sentenza, in considerazione all'espresso riferimento
all'art.360 co.1 n.5 cpc, e violazione dell'art.112 cpc
integrante invece un difetto di attività del giudice,
quindi un error in procedendo, produttivo della nullità
della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, occorre
sottolineare che il preteso vizio di motivazione della
sentenza, sotto il profilo della contraddittorietà della
medesima, può dirsi sussistente solo quando nel
ragionamento del giudice di merito esista insanabile
contrasto tra le argomentazioni complessivamente
adottate, tale da non consentire l'identificazione del
procedimento logico-giuridico posto a base della
decisione (Cass. n. 29203/08, n. 9368/06, n.2399/04).
Occorre cioè che tra le considerazioni poste dal giudice
a base della sua decisione sussista un'intrinseca
conflittualità, tale da rendere impossibile ogni
controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo
ragionamento. Al contrario, nel caso di specie, la
lettura della sentenza consente di seguire con assoluta
chiarezza il percorso argomentativo che ha portato il
giudice di merito a concludere come la carenza di
giurisdizione del giudice ordinario fosse palese e che
l'iniziativa giudiziaria intrapresa dall'avv. C.
costituisse una scelta del tutto erronea "frutto di
colpa grave e tale da fondare la domanda di risarcimento
del danno". La motivazione rappresenta in modo assai
lineare e coerente le ragioni poste a base della
decisione così da rendere palese ed evidente ictu oculi
come l'adozione del termine "fondato" in luogo di
"infondato"sia stata da parte del giudice del merito una
semplice svista oppure, ancor più semplicemente, un mero
errore materiale nella battitura del documento.
Con la terza doglianza per violazione dell'art.1306 cc,
2909 cc e 112 cpc, la ricorrente, premesso di aver
denunziato sia nel giudizio di primo grado sia in quello
di appello che l'altro codifensore, avv. Rispoli, aveva
ottenuto un decreto ingiuntivo, non opposto e quindi
divenuto definitivo, per la parte del credito di sua
pertinenza, ha lamentato che il Tribunale avrebbe
colpevolmente trascurato che la definitività del decreto
ottenuto dal Rispoli produceva i suoi effetti pure
rispetto ad essa, aggiungendo che l'assoluto silenzio
del giudice di merito sull'eccezione ex art.1306 co. 2
cc aveva comportato una violazione dell'art.112 cpc.
La doglianza è infondata. Ed invero, la solidarietà
attiva nelle obbligazioni non si presume, nemmeno in
caso di identità della prestazione dovuta, ma deve
risultare espressamente dalla legge o dal titolo e nel
caso di specie tale circostanza non risulta essere mai
stata provata. A riguardo, è costante l'indirizzo di
questa Corte, secondo cui la solidarietà attiva fra più
creditori sussiste solo se espressamente prevista in un
titolo negoziale preesistente alla richiesta di
adempimento, non essendo sufficiente all'esistenza del
vincolo l'identità qualitativa delle prestazioni (eadem
res debita) e delle obbligazioni (eadem causa debendi).
L'interesse a negare detta solidarietà non è
attribuibile esclusivamente a ciascuno dei creditori, ma
appartiene anche al debitore ai fini di un corretto e
non pregiudizievole assetto dei rapporti obbligatori
(vedi art. 1297 c.c., comma 2, limitativo della
proponibilità delle eccezioni personali), giacché nelle
ipotesi di solidarietà attiva il comune debitore non
potrebbe opporre al creditore che gli abbia chiesto
l'intera prestazione le eccezioni personali ad altro
creditore e che a questo il debitore medesimo avrebbe
potuto, invece, opporre, nel caso di obbligazione
parziale, il cui adempimento egli per la sua parte
avrebbe richiesto (cfr Cass. n. 15484/08, n. 2076/07,
n.5316/98).
Quanto all'asserita violazione dell'art.112 cpc, il
profilo di censura è inammissibile alla luce del rilievo
che, nel caso di specie, la ricorrente ha completamente
mancato di riportare, nel ricorso per cassazione, previa
trascrizione nei suoi esatti termini, il contenuto della
doglianza, che avrebbe costituito il motivo di appello e
sul quale la Corte territoriale avrebbe omesso di
pronunciarsi. Ed è appena il caso di sottolineare che,
pur configurando la violazione dell'articolo 112 del Cpc
un error in procedendo, per il quale la Corte di
cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, non
essendo tale vizio rilevabile d'ufficio, il
potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli
atti processuali non comporta che la medesima debba
ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte
trascriverne il contenuto limitatamente alla parte utile
ai fini della verifica della correttezza e della
ritualità della proposizione del motivo di censura.
Con l'ultima doglianza, articolata sotto il profilo
della violazione degli artt.2336 e 2043 cc, la
ricorrente lamenta che nella specie il Q. non avrebbe
fornito la prova che il processo, in difetto
dell'imperizia del suo avvocato, si sarebbe concluso in
senso a lui favorevole.
Anche quest'ultima censura è infondata. A riguardo, vale
la pena di premettere che nel caso di specie non si
verte in tema di inadempimento del professionista alla
propria obbligazione - tema in cui, in materia di
contratto d'opera intellettuale, la giurisprudenza di
questa Corte ha statuito che il danno derivante da
eventuali omissioni del professionista deve ritenersi
sussistente qualora, sulla scorta di criteri
probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione,
il risultato sarebbe stato conseguito -bensì si verte in
tema di negligente esecuzione della prestazione
professionale.
Ciò premesso, deve sottolinearsi che, essendo le
obbligazioni inerenti all'esercizio dell'attività
professionale di avvocato obbligazioni di mezzi e non di
risultato, ai fini del giudizio di responsabilità nei
confronti del professionista, rileva non già il
conseguimento del risultato utile per il cliente, ma il
modo come l'attività è stata svolta avuto riguardo, da
un lato, al dovere primario del professionista di
tutelare le ragioni del cliente e, dall'altro, al
parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 2^
comma c.c., che è quello della diligenza del
professionista di media attenzione e preparazione. E
questi sono stati i criteri correttamente adottati dal
Tribunale di Firenze nel valutare la attività del legale
de quo, in relazione alla particolare situazione di
fatto, che andava liberamente apprezzata dal giudice di
merito, e che non prevedeva quella particolare
difficoltà tecnica, in presenza della quale il
professionista può essere chiamato a rispondere solo per
dolo o colpa grave ai sensi dell'art. 2236 c.c.
Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, il
ricorso principale deve essere pertanto rigettato.
Passando all'esame del ricorso incidentale, va osservato
che la prima doglianza, per violazione degli artt.291,
324 3 327 cpc, si fonda sulla considerazione che la
rinnovazione della citazione in appello non impedirebbe
il passaggio in giudicato della sentenza impugnata,
intervenuto nelle more tra la notificazione nulla e la
sua rinnovazione.
La censura è infondata in quanto la nullità della
citazione in appello, secondo il consolidato
orientamento di questa Corte, non determina
l'inammissibilità dell'impugnazione tempestivamente
proposta, trattandosi di nullità attinente non già
all'impugnazione in senso sostanziale bensì solamente
alla sua notificazione (cfr Cass. 27139/06, n.1550/2004,
V. anche Cass. n. 17/06/1997, n. 5421).
Con la seconda doglianza, per violazione degli artt.1218
e 1453 cc, il ricorrente censura la sentenza impugnata
nella parte in cui il giudice d'appello, pur avendo
ritenuto provato l'inadempimento colpevole dell'avv. C.,
ciò malgrado, non l'ha però condannata a restituire al
cliente il compenso indebitamente ricevuto.
La censura è infondata, alla luce del rilievo che,
nell'opporsi all'ingiunzione emessa dal giudice di primo
grado, il Q. si era limitato a chiedere la compensazione
totale o parziale del proprio debito con un suo credito
vantato a titolo risarcitorio, in quanto aveva subito
danni patrimoniali a causa dell'imperizia professionale
del legale, senza proporre quindi alcuna domanda di
risoluzione contrattuale né di restituzione.- Ne deriva,
che la deduzione della violazione dell'art. 1453 cc,
previsione riguardante la risoluzione per inadempimento,
deve essere ritenuta assolutamente estranea al tema
decisionale della controversia.
Passando all'esame del terzo motivo di impugnazione per
violazione dell'art.24 legge n.794/42, 1419 e 1258 cc,
va osservato che, ad avviso del ricorrente, il giudice
di appello ha sbagliato nel ritenere valida la
pattuizione a corpo degli onorari e nel non
rideterminare il corrispettivo in considerazione
dell'attività effettivamente prestata. Inoltre - ed il
rilievo attiene al successivo motivo, connesso con il
precedente - il giudice di appello non avrebbe motivato
in maniera sufficiente in ordine alla validità della
pattuizione di cui sopra.
Entrambe le censure sono inammissibili per difetto di
specificità non avendo il ricorrente indicato le
specifiche ragioni per cui le parti avrebbero infranto
il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè
quello di predeterminare consensualmente l'ammontare dei
compensi professionali in misura inferiore ai minimi
tariffari. Del resto, il principio dell'inderogabilità
dei minimi tariffari non trova applicazione nel caso di
rinuncia, totale o parziale, alle competenze
professionali, allorché quest'ultima non risulti posta
in essere strumentalmente per violare la norma
imperativa sui minimi di tariffa ma solo per ragioni
varie anche di semplice convenienza,.
Resta da esaminare l'ultima doglianza, per violazione
dell'art.1223 cc nella parte in cui il giudice d'appello
ha quantificato il danno emergente subito dal Q. in sole
lire 1.500.000 anziché in lire 1.836.000.
Anche tale censura appare inammissibile, sia pure per
ragioni diverse. Ed invero, premesso che l'apprezzamento
dei fatti e la determinazione della misura dei danni
lamentati attengono al libero convincimento del giudice
di merito, deve ritenersi preclusa ogni possibilità per
la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio
di merito attraverso un'autonoma rivalutazione degli
stessi. Con la conseguenza che deve ritenersi
inammissibile la doglianza mediante la quale la parte
ricorrente, deducendo formalmente un preteso vizio ex
artt.360 co. 1 n.3, avanza, nella sostanza delle cose,
un'ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e
dei convincimenti del giudice di merito, diretta
all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto,
sicuramente estranea alla natura e alle finalità del
giudizio di cassazione.
Considerato che la sentenza impugnata appare esente
dalle censure dedotte, ne consegue che anche il ricorso
incidentale, siccome infondato, deve essere rigettato.
Il tenore dell'adottata decisione, con il rigetto di
entrambi i ricorsi riuniti, giustifica ampiamente la
compensazione fra le parti delle spese di questo
giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.
Compensa le spese di questo giudizio di legittimità. |